Bernard Guetta : Israele crede nella pace?

Una giovane israeliana, piercing e ombelico al vento, prende il caffè in terrazzain Israele. «Turista?» mi chiede. «No, giornalista». Rimane sorpresa. «Come mai da queste parti?» «L´offerta araba. Il vertice di Riad, le reazioni del suo Paese». Sto per chiederle cosa ne pensa, ma il suo cellulare si mette a squillare. È un Sms: «Hanno tirato altri razzi da Gaza. Nessun ferito». Lo legge distrattamente, poi passa a parlare dei primi raggi estivi, dei suoi studi e dei pregi comparati del caffè turco e dell´espresso. Di tutto, ma non della speranza di pace che ha richiamato a Gerusalemme il segretario generale dell´Onu e il segretario di Stato americano.
Strano. Curioso. E anche sconcertante. Sono cinquantanove anni che gli israeliani aspettano di essere riconosciuti dai loro vicini arabi. A suo tempo, il fatto di aver stabilito rapporti diplomatici con l´Egitto ha rivoluzionato questo paese. Ora, per la seconda volta, è la Lega araba, è tutto il mondo arabo a proporre il riconoscimento di Israele, in cambio della creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Lo ha fatto anche più solennemente che nel 2002, e stavolta persino Hamas è in linea, e non si chiama fuori da quest´offerta, pure non certo tale da poter destare il suo entusiasmo.
L´evento è di enorme portata, tanto più che fin dal settembre scorso, dopo l´insuccesso della guerra contro gli Hezbollah libanesi, i dirigenti israeliani insistono nel dichiarare top priority l´avvicinamento ai regimi arabi, contro l´Iran e il radicalismo islamista.
Dovrebbe essere festa in Israele, con grida di «finalmente!», applausi e cori gioiosi. E invece no.
All´imbarazzo degli ambienti governativi fa riscontro l´indifferenza che si respira per le strade. Verrebbe quasi da pensare che Israele non sia interessato alla pace, che preferisca mantenere i territori occupati. «No, non lo creda!» risponde Meron Rapaport, giornalista di Haaretz, il grande quotidiano della sinistra israeliana. «I territori ormai sono sacri solo per il 10 per cento dei nazionalisti religiosi: ma nel momento stesso in cui l´idea del grande Israele è crollata, si è imposta nel paese quella dello scontro di civiltà. Tra la vittoria elettorale di Hamas, gli attentati dell´11 settembre e ora l´Iran, la gente non crede più che la pace sia possibile, se non tra varie generazioni. E parallelamente vede svilupparsi l´economia, calare la disoccupazione, regredire il terrorismo. Così alla fine pensa di poter vivere e andare avanti al riparo del Muro, senza ricominciare a sognare una soluzione definitiva».
Stessa diagnosi da parte di Ami Ayalon, ex capo del Shin Beth (i servizi di sicurezza interna), divenuto nel 2002 militante per la pace a fianco di Sari Nusseibeh, uno dei maggiori intellettuali palestinesi. Oggi è tra le personalità più apprezzate dai militanti del partito laburista. Aspira alla sua guida, e corre da un convegno all´altro insistendo sull´importanza di non lasciar passare quest´opportunità di pace. Per lui, ci vuol poco a capire: «La gente ha voglia di sperare, ma al tempo stesso teme una nuova delusione».
È vero. Ai tavolini dei caffè all´aperto o nei taxi collettivi, quando si attacca discorso con gli israeliani dicendo che malgrado tutto qualcosa è cambiato, se oramai Hamas dichiara di «rispettare» gli accordi conclusi dall´Olp con Israele - di fatto un riconoscimento implicito dello Stato ebraico, rafforzato, dopo Riad, dalla luce verde degli islamisti al piano della Lega araba - si apre uno spiraglio nell´indifferenza. Il più delle volte l´interlocutore tende dapprima a negare, obietta che si tratta solo di manovre e di inganni, e che «i regimi arabi al massimo vorrebbero una tregua, perché hanno paura dell´Iran». Ma poi, lentamente, il suo interesse si ridesta. Si avvia una discussione con qualche «forse» o «vedremo», ma è come sentir dire «magari fosse vero».
Dice Meron Rapaport: «Se Israele avesse un leader di polso, capace di dire al paese: "Ecco, ho qui l´accordo col mondo arabo, e il prezzo è la spartizione di Gerusalemme e il ritorno ai confini del 1967", la maggioranza degli elettori lo seguirebbe». I sondaggi non lo contraddicono, ma il fatto è che in Israele quel leader non c´è. Con un primo ministro crollato al 3 per cento nella fiducia dei cittadini, Israele non ha praticamente più un capo: Ehud Olmert è totalmente squalificato dal fallimento della guerra d´agosto e dagli scandali finanziari e sessuali che minano il suo governo; la sua sorte è appesa alle conclusioni di una commissione d´inchiesta sulla "seconda guerra del Libano". Ai vertici dello Stato il parapiglia è totale. La destra aspetta il suo momento: elezioni anticipate o una nuova coalizione con i centristi, per riprendersi i portafogli della sinistra. La titolare del dicastero degli Esteri, Tzipi Livni, si vedrebbe bene come premier: è una veterana dei servizi segreti, e ha tutto il favore dell´opinione pubblica da quando postula una soluzione definitiva da ricercare col presidente palestinese Mahmud Abbas.
La classe politica appare divisa e squalificata, più o meno quanto quella palestinese. Ma al di là delle loro debolezze, i dirigenti israeliani esprimono preoccupazioni reali davanti all´offerta araba. Il loro timore è che i negoziati li portino a fare concessioni decisive a regimi di fatto già condannati. A che servirebbe, si chiedono, restituire i territori occupati ai palestinesi e accettare un compromesso per Gerusalemme, se i regimi egiziano, saudita, giordano e forse altri ancora potrebbero essere spazzati via domani stesso dal malcontento popolare e dalla spinta islamista? A che pro fare la pace con i poteri di oggi, si chiedono, se i successori di domani si rivolteranno contro di noi, quando avremo installato ai nostri confini uno Stato palestinese che certo allora non rimarrà estraneo a un processo di radicalizzazione regionale?
C´è qualcosa di assurdo in questo ragionamento. La possibilità di un caos regionale induce gli israeliani a ritenere di non dover temere gli sviluppi che potrebbero impedirlo; ma il fatto è che a fronte di quest´offerta, il loro primo problema non è quello delle concessioni richieste in cambio. Certo, per Gerusalemme sarebbero difficili da fare, ma non impossibili. E inoltre sanno che la richiesta del ritorno dei profughi del 1948 sul territorio divenuto israeliano, benché irricevibile per Tel Aviv, è comunque negoziabile. Ma l´angoscia è un´altra.
L´angoscia è la nuova situazione regionale e internazionale; il discredito degli Stati Uniti da quando sono impantanati in Iraq; l´avanzata costante dei Fratelli musulmani in Egitto; le tensioni in Arabia Saudita; la fragilità giordana; la disgregazione irachena; il moltiplicarsi dei missili, contro i quali l´esercito israeliano si è spaccato i denti in Libano; e soprattutto l´indebolimento degli Stati arabi, non meno rapido dell´affermazione dei radicalismi islamisti transnazionali - i Fratelli musulmani, Al Qaeda e il risveglio sciita intorno all´Iran.
Questa nuova configurazione è tanto reale da aver indotto l´Arabia Saudita a voler risolvere il problema palestinese. La monarchia vorrebbe sopprimere questa fonte di radicalizzazioni, voltare la pagina di questo conflitto per impegnarsi sui nuovi fronti che minacciano direttamente la sua continuità. Ma se il pericolo che la sovrasta si è aggravato fino a questo punto, si chiede l´establishment politico israeliano, non è già troppo tardi per una pace durevole col mondo arabo?
Lo scontro delle civiltà, così pregnante nel clima che si respira per strada in Israele, è anche l´ossessione dei vertici dello Stato, e ne spiega l´imbarazzo. Da un lato, Ehud Olmert vede nel Vertice di Riad un «cambiamento rivoluzionario», il segno che, come ha detto, «i paesi influenti del mondo arabo comprendono che Israele non è il primo dei loro problemi». D´altra parte c´è la fortissima tentazione di non mollare la preda per un´ombra, e di salire se mai coi piedi di piombo su quella zattera saudita minacciata dai marosi che ogni momento rischiano di rovesciarla.
«Nei nostri governanti c´è un misto di paure e di presunzione», dice Menachem Klein, uno degli artefici dell´"Accordo di Ginevra", il piano di pace elaborato tre anni fa dai più pacifisti tra i dirigenti israeliani e palestinesi. «Non si ritengono capaci», aggiunge, «di difendere Israele entro i confini del 1967, ma neppure si rendono conto che non possiamo far nulla contro il fronte che si è formato a Riad». Secondo Meron Rapaport, «questo governo sa di doversi muovere, ma è talmente suonato che rischia di farci trovare completamente isolati. Persino dagli Stati Uniti, che al pari dell´Europa e del mondo arabo hanno bisogno di uscire da questo conflitto».
E allora? «Siamo sulla difensiva, e non è la posizione migliore» risponde Ami Ayalon. Cosa farebbe se fosse ai comandi? Accetterebbe, mi dice, l´iniziativa araba come un «primo passo» per avviare negoziati «tra tutti gli Stati della regione che sono pronti a rilanciare il processo di pace, in quanto considerano l´Iran e il terrorismo come minacce maggiori». In secondo luogo, convocherebbe su queste tre questioni una conferenza internazionale con Mahmud Abbas in rappresentanza dei palestinesi.
In terzo luogo, chiederebbe a tutte le parti in causa di assumere a fondamento per una soluzione definitiva il compromesso proposto da Bill Clinton su Gerusalemme, alcuni scambi di territori per mantenere i grandi impianti sotto la sovranità israeliana, e la limitazione alla futura Palestina del diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
Tutto ciò è ancora lontano dal coincidere con le posizioni di Ehud Olmert, ma un suo ravvicinamento non è da escludere. E oltre tutto, il suo governo non è eterno. La svolta ormai avviata è troppo profonda perché tutto possa giocarsi in poche settimane.
Da
REPUBBLICA DI OGGI

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