I «PROTOCOLLI» DEL GRAN MUFTÌ DI GERUSALEMME



Le Monde Diplomatique, maggio 2010I
«PROTOCOLLI» DEL GRAN MUFTÌ DI GERUSALEMME NELLA GUERRA DELLA PROPAGANDA di ISRAELE
Gli ultimi anni hanno visto una recrudescenza spettacolare della guerra delle parole che oppone Israele ai palestinesi e agli arabi, con il concorso attivo dei sostenitori dei due campi in Europa e negli Stati uniti. Questa dimensione particolare del conflitto arabo-israeliano è sempre stata cruciale per lo stato d'Israele: esso, costituitosi fin dalle origini come una fortezza incuneata in una regione ostile, deve imperativamente coltivare il sostegno dei paesi occidentali alla sua causa.L'immagine di Israele presso l'Occidente si deteriorò sensibilmente per la prima volta all'epoca dell'invasione del Libano, nel 1982.Il lungo assedio di Beirut, segnato dai massacri dei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, perpetrati sotto la supervisione israeliana, scioccarono l'opinione pubblica mondiale. Anche in Israele, tale trauma (comparabile a quello prodotto negli Statuniti dalla guerra nel Vietnam) è ancora presente (1).Tra questo momento e quello della prima Intifada, nel 1987-1988, lo stato ebraico fu così teatro di un notevole riesame critico dei miti fondanti dell'ideologia sionista da parte di coloro che vennero definiti i «nuovi storici» (2). Tale riscrittura della storia delle origini di Israele darà vita a una corrente, minoritaria ma qualitativamente importante: il «postsionismo». Ciò non impedì tuttavia lo scivolamento graduale a destra della società israeliana, dalla precoce paralisi degli accordi di Oslo fino all'affermazione di un «neosionismo» aggressivo.Secondo la definizione del sociologo israeliano Uri Ram, «il postsionismo è di orientamento laico (esso infatti sostiene l'uguaglianza dei diritti e in questo senso opta per uno stato di tutti i suoi cittadini nei confini della "linea verde" [linea dell'armistizio precedente alla guerra del 1967]),universale e mondiale. Il neosionismo è particolarista, tribale, ebreo, etnonazionalista, integralista e, nelle sue forme estreme, anche fascista(3)»Il sabotaggio israeliano dei negoziati di pace, la colonizzazione accelerata dei territori palestinesi occupati e le sue offensive letali in Libano (2006) e a Gaza (2008-2009) accentuano inesorabilmente la degradazione della sua immagine. Per cercare di arrestarla, le istanze israeliane ufficiali e i loro partigiani incondizionati presenti in Occidente invocano, come sempre, il ricordo della Shoah, da cui si attendono una legittimazione della loro azione (4)Più precisamente: essi hanno sempre tentato di coinvolgere i palestinesi e gli arabi nel genocidio nazista. In questa ottica, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, le istanze sioniste hanno evidenziato il tristemente celebre muftì di Gerusalemme. Figura di punta del nazionalismo palestinese negli anni '20 e '30, Amin Al-Husseini, espulso dalla Palestina a opera delle autorità britanniche nel 1937, aveva raggiunto il campo delle potenze dell'Asse nel 1941, dopo un soggiorno in Iraq. Il muftì contribuì attivamente, da Berlino e da Roma, alla propaganda del regime nazista e di quello fascista così come alla formazione di unità bosniache musulmane delle Ss - che tuttavia non commisero efferatezze contro la popolazione ebraica. Al-Husseini (largamente screditato nel mondo arabo e anche in Palestina, anche prima del suo esilio europeo) ottenne scarsi risultati: malgrado tutte le sue esortazioni a unirsi alle truppe dell'Asse, secondo i calcoli di uno storico militare americano, soltanto 6.300 soldati provenienti dai paesi arabi «passarono nelle diverse organizzazioni dell'esercito tedesco», di cui 1.300 originari di Palestina, Siria e Iraq, mentre il restante proveniva dall'Africa del nord. Tali cifre vanno comparate ai 9.000 soldati arabi della sola Palestina arruolati nell'esercito britannico e ai 250.000 maghrebini che combatterono nelle fila dell'esercito francese di liberazione e che costituirono la maggior parte dei suoi caduti e dei suoi feriti (5)Il muftì fu tuttavia elevato al grado di rappresentante autorevole dei palestinesi e degli arabi dalla disinformazione sionista che, nel 1945, reclamò - senza successo - il suo deferimento al tribunale internazionale di Norimberga, come se egli fosse stato un ingranaggio essenziale della macchina genocida nazista. Un numero considerevole di articoli, opuscoli e libri fu prodotto con l'obiettivo di indicare Al-Husseini alla pubblica vendetta. La figura del muftì permetteva di presentare i palestinesi come corresponsabili del genocidio hitleriano e, così, di giustificare l'edificazione di uno «stato ebreo» sul territorio della loro patria.Tale argomentazione divenne un elemento costante del discorso dello stato di Israele successivamente alla sua creazione. Essa spiega l'importanza straordinaria accordata al muftì da parte di Yad Vashem, il memoriale della shoah, a Gerusalemme. Tom Segev ha evidenziato come il muro che gli è consacrato cerchi di dare l'impressione di una convergenza tra il progetto genocida antisemita del nazismo e l'ostilità araba verso Israele (6). Da parte sua, Peter Novick ha rilevato che l'articolo sul muftì contenuto nella Enciclopedia of the Holocaust, pubblicata in collaborazione con Yad Vashem, è molto più lungo di quelli su Heinrich Himmler, Reinhard Heydrich, Joseph Goebbels e Adolf Heichmann, ed è superato - di poco - solo dall'articolo su Adolf Hitler(7).Nel quadro dell'ondata di razzismo anti-arabo e di islamofobia successiva agli attentati dell'11 settembre 2001, vi è stata una proliferazione di pubblicazioni miranti a decretare che in Palestina, nel 1948, gli ebrei erano esposti alla minaccia di sterminio. Gli arabi non erano forse - e non sono tuttora - mossi da un odio contro gli ebrei identico a quello che provavano i nazisti e il muftì? E, in tali condizioni, l'espulsione dei palestinesi all'epoca della fondazione dello stato di Israele e il loro assoggettamento continuo da parte di quest'ultimo non rappresenterebbero una legittima difesa da parte dello stato ebraico?In questa massa di opere, due di esse si distinguono per la loro apparente serietà, derivante dall'essere il risultato di un lavoro di ricerca negli archivi nazisti, americani e britannici: il testo di Martin Cüppers e Klaus-Michael Mallman (8) e quello di Jeffrey Herf (9). In entrambi i casi, gli autori conoscono poco il mondo arabo e ne ignorano la lingua. Nella rivista della Fondazione Auschwitz, Téimogner entre histoire et mémoire(10), è possibile trovare un eccellente dossier critico sull'opera di Cüppers e Mallman. Dominique Trimbur, nel suo contributo, rileva che il libro sembra inserirsi «in una corrente storiografica caratterizzata da un certo spirito dell'epoca, quello degli anni 2000 (...). L'integralità della dimostrazione è sostanzialmente priva di sfumature, soprattutto quando si parla "degli" arabi e "del" mondo musulmano: un'assimilazione che diventa evidente nella ripresa, se non addirittura nell'assunzione, dell'espressione "scontro di civiltà"».In contrapposizione alla strumentalizzazione della memoria della Shoah e al fine di legittimare le aspirazioni palestinesi, nel campo arabo si sono sviluppate due tendenze contraddittorie: da un lato, l'accostamento delle politiche di Israele a quelle del regime di Hitler, l'equivalente arabo della vecchia tradizione israeliana di paragonare i palestinesi e gli arabi ai nazisti; dall'altro lato, la negazione della Shoah.Il fatto che numerose figure del mondo arabo possano combinare questi due discorsi contraddittori - l'uno che indica il nazismo come lo stadio supremo del male, l'altro che asserisce che esso sarebbe stato meno criminale di quanto si pretende - indica chiaramente che ciò costituisce un tentativo di compensare con il ricorso alla violenza simbolica la propria impotenza a rispondere efficacemente alla violenza reale. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad sta cercando di sfruttare questa ascesa di un negazionismo reattivo ed emotivo per conquistarsi le simpatie dell'islam arabo sunnita, in concorrenza con il regno sauditaIn realtà, costituiscono solo un'infima minoranza coloro che, nel mondo arabo, aderiscono seriamente, e con cognizione di causa, al discorso patologico del negazionismo occidentale - un negazionismo che, nel loro caso, si presenta come un «antisionismo degli imbecilli» (per parafrasare la celebre espressione che indica nell'antisemitismo il «socialismo degli imbecilli»).La maggior parte degli atteggiamenti negazionisti è frutto piuttosto dell'esasperazione. Ciò è quanto suggeriscono alcuni sondaggi condotti tra i palestinesi d'Israele, che costituiscono sicuramente la popolazione araba maggiormente informata a proposito dello sterminio degli ebrei, tema molto presente nei programmi scolastici elaborati dalle autorità israeliane (11). Un primo sondaggio, realizzato nel 2006 dall'università di Haifa, mostrò, nella sorpresa generale, che il 28% degli arabi israeliani era giunto a negare la Shoah, con percentuali crescenti in funzione del livello di istruzione degli intervistati (12). Due anni più tardi, sullo sfondo dell'esacerbazione della violenza, le risposte negazioniste allo stesso sondaggio raggiunsero il 40% (13)! Il carattere parossistico dell'attuale situazione sembra rendere l'incomunicabilità tra gli attori in campo sempre più insuperabile.Tuttavia, chi conosce la contrapposizione apparentemente irriducibile che separava israeliani e arabi nel periodo compreso tra la fondazione dello stato d'Israele nel 1948 e gli anni '70, sa che oggi, a dispetto di tutto, numerosi arabi e palestinesi aspirano a una coesistenza pacifica con gli israeliani, e che molti tra questi ultimi riconoscono che il loro stato è colpevole di perseguitare i palestinesi. Si deve sperare che gli uni e gli altri sapranno evitare alla regione una nuova «catastrofe» - significato comune sia del termine Shoah che di Nakba.
note: * Professore della Scuola di studi orientali e africani (Soas) dell'Università di Londra. Autore dell'opera Les Arabes et la Shoah. La guerre israéloarabe des récits, Sindbad - Actes Sud, Arles, 2009.continua qui I «protocolli» del gran muftì di Gerusalemme

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