Paola Caridi :Ah, già, la paura dell’islamismo (invisibelearabs)


E’ durato solo qualche giorno il periodo di grazia. Per qualche giorno, almeno per qualche giorno, i grandi (e piccoli) soloni del conflitto di civiltà vero e presunto ci avevano graziato dal sollevare la questione dell’islamismo mentre i ragazzi tunisini erano in piazza e – in appena 12 ore – riuscivano a cacciare uno dei presidenti autoritari del Medio Oriente e Nord Africa. Storditi da quella massa di ragazzi, di giovani, da quella folla non violenta e disarmata che pone fine a uno dei regimi autoritari (e amici dell’Occidente), i soloni ci hanno messo qualche giorno a ricomporsi, e a ripensare ipotesi e strategie per reagire a un evento che non avevano messo in conto.Ora, invece, son tornati all’attacco. “Non fidatevi della piazza araba”, titola uno dei commenti sulla stampa italiana. Uno dei tanti, in cui si dice chiaro e tondo che, però, attenzione, sì, belli i ragazzi che sfidano il potere. Però ora rischiano di essere ostaggio dei barbuti, degli islamisti. E poi c’è la sicurezza del Medio Oriente (quale Medio Oriente?), la nostra sicurezza. Sicurezza, sicurezza. Paura. State attenti, ragazzi, potrebbero rubarvi la rivoluzione, come fecero i khomeinisti a Teheran nel 1979…E’ bello come la storia venga tirata, come una coperta striminzita, per coprire il fallimento di una teoria (lo scontro di civiltà) e di un assioma (la fine della Storia) che hanno impedito a molti analisti e storici di fare la cosa più semplice, datata, classica: guardare la realtà, farsi sommergere dalla realtà, ri-catalogarla, e interpretarla. Secondo questa tesi [sic] la rivoluzione iraniana sarebbe stata scippata dai khomeinisti per colpa di laici un po’ naive. Una tesi [sic] che dimentica quello che successe prima del 1979, i decenni del regime di Reza Pahlavi, la presenza occidentale, la corruzione. Tutti elementi che hanno fecondato, e non poco, la rivoluzione del 1979. Ma già, Reza Pahlavi era il baluardo dell’Occidente e dei proventi petroliferi delle Sette Sorelle. Così come Zine al Abidine Ben Ali (ZABA, per i ragazzi di Tunisi, Bizerta, Sousse, Sidi Bouzid) era il baluardo dell’Occidente in Nord Africa, e l’albergo di centinaia di aziende medie e piccole che avevano delocalizzato per il basso costo del lavoro di un tunisino. Ben Ali era assieme a una piccola pattuglia di presidenti di lunga durata, rinnovati in elezioni plebiscitarie, in barba a quei parametri di democrazia occidentale che vorremmo esportare. Talvolta – come in Iraq – sui fusti dei cannoni. O magari in Iran, con qualche bombardamento aereo. Ora, quegli stessi presidenti sentono il fiato sul collo di un inverno che ricorda una Primavera lontana. Nessuno sa, nessuno potrà prevedere se la l’Inverno tunisino coinvolgerà gli altri regimi. In Libia si ha notizia di qualche timida manifestazione e di qualche scontro. In Algeria, nei giorni scorsi, si sono dati fuoco due giovani. In Giordania si manifesta contro i prezzi alti. In Egitto, per ora, si tace e si osserva, con apprensione. Il 2011, dice un mio amico inviato di guerra americano, uno dei più grandi conoscitori della regione, potrebbe avere il mondo arabo in prima pagina.L’unica reazione – invece – che la strategia occidentale ha saputo mettere in campo in oltre trent’anni, nel mondo arabo, per contrastare l’avanzata dell’islam politico è stata solo questa. Sostenere regimi non democratici ma considerati laici. Una strategia miope e perdente, come ha dimostrato non solo la Tunisia, ma per esempio l’Algeria, per niente normalizzata. La spinta dell’islam politico risponde a precise necessità delle popolazioni arabe: non solo di tipo socioeconomico, come la risposta alla disoccupazione, alla crisi economica, alle imposizioni dell’IMF, ma di tipo culturale, come la necessità di riconquistare un’identità propria che – attraverso i codici e le tradizioni religiosi – diventa un pilastro, una colonna sulla quale poter poggiare la propria casa. Che questo ci piaccia o meno (a me, laica e di sinistra, può piacer poco), l’islam politico è riuscito a rispondere a queste necessità. Soprattutto quando, dall’altra parte, la risposta è stata autoritaria, verticistica, distaccata dalla realtà e dalla strada araba.L’unica reazione – invece – che la strategia occidentale ha saputo mettere in campo in oltre trent’anni, nel mondo arabo, per contrastare l’avanzata dell’islam politico è stata solo questa. Sostenere regimi non democratici ma considerati laici. Una strategia miope e perdente, come ha dimostrato non solo la Tunisia, ma per esempio l’Algeria, per niente normalizzata. La spinta dell’islam politico risponde a precise necessità delle popolazioni arabe: non solo di tipo socioeconomico, come la risposta alla disoccupazione, alla crisi economica, alle imposizioni dell’IMF, ma di tipo culturale, come la necessità di riconquistare un’identità propria che – attraverso i codici e le tradizioni religiosi – diventa un pilastro, una colonna sulla quale poter poggiare la propria casa. Che questo ci piaccia o meno (a me, laica e di sinistra, può piacer poco), l’islam politico è riuscito a rispondere a queste necessità. Soprattutto quando, dall’altra parte, la risposta è stata autoritaria, verticistica, distaccata dalla realtà e dalla strada araba.

Quello che possiamo fare noi, occidentali, è ancora una volta interrogarci sui nostri errori da apprendisti stregoni che tentano di controllare e guidare la vita degli altri. Di milioni, decine di milioni, centinaia di milioni di persone. Tutte fuori dai nostri confini, al di là del Mediterraneo. Pedine da usare per le nostre delocalizzazioni economiche. Pedine che buttiamo a mare, però, quando provano a uscire dalla disperazione e arrivano sulle nostre coste, su mezzi di fortuna. I ragazzi di Tunisi, ricordatelo, sono quello che chiamiamo clandestini quando arrivano a Lampedusa. Li abbiamo resi disperati, invece di ascoltare quello che avevano da dire e che hanno messo, quando possibile, sul web. Loro sono lì da anni, a urlare. I soloni se ne sono accorti solo ora. E non sanno che fare.

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