Avraham Burg "Riconosciamo la Palestina".e i confini del 1967

    1 Le immagini che ci arrivano della visita del primoministro Netanyahu a Washington potrebbero rappresentare il momento decisivo del nuovo MedioOriente. Immagino che il premier e il suo entourage, insieme ai suoi accaniti sostenitori in Israele siano estasiati - dall’onore, l’apprezzamento quasi idolatrico, il senso di potenza e soprattutto da questa carezza al loro ego individuale e collettivo.Ma che cosa hanno visto i palestinesi? Cosa hanno visto i giovani degli stati confinanti? Prima di tutto hanno visto come Israele continui a ingannare il mondo intero con il miraggio dei negoziati. Come se le condizioni limite poste da Netanyahu dessero una qualche possibilità di fondare uno stato palestinese sostenibile. Nel suo discorso Netanyahu ha ripetuto la parola «pace» cinquanta volte,ma non si è datomolta pena di nascondere il «no» che era tra le righe. Ha detto «no» ripetutamente e con un sorriso compiaciuto e una sconcertante sicurezza di sé: no ai confini del 1967 come base dei negoziati, no a Gerusalemme futura capitale dei due stati. Netanyahu è certamente disposto a continuare a parlare di pace e indubbiamente intenzionato a mantenere il controllo dei territori occupati sotto gli auspici del processo di pace, ma chiunque abbia occhi per vedere capisce che un vero negoziato è impossibile alle condizioni enunciate a Washington da Israele. In secondo luogo, i giovani arabi e palestinesi hanno visto un’America naïve e distaccata applaudire l’ostinazione politica, un’America cieca ai giochi di prestigio della destrezza verbale di Netanyahu. Hanno visto le due Camere del Congresso americano acclamare la dichiarazione diNetanyahu che Gerusalemme non sarà mai divisa – ovvero l’annuncio che il processo di pace era morto. Hanno visto i rappresentanti degli Stati Uniti chinare il capo all’unico paese occidentale che ancora opprime un’altra nazione, e continua a farlo da quasimezzo secolo. Hanno visto gli Stati Uniti partecipare alle emozioni di ieri senza darsi la pena di apprezzare le possibilità di domani. È possibile che il futuro dimostri che proprio in quei momenti cruciali aWashington i vecchi Stati Uniti hanno perso il nuovo Medio Oriente. Il credito acquisito da Obama al Cairo meno di due anni fa è stato buttato via in una mossa sola. Un palestinese che veda Netanyahu acclamato a Washington cosa può pensare della potenza mondiale che dovrebbe fungere da intermediario neutrale nel conflitto regionale? Questo è un momento fondante in cui l’Europa deve fare da ponte tra Washington lontana e soggiogata e il potenziale umano che si sta risvegliando nelMedio Oriente. Da ogni parte si sentono sollevare gli argomenti contro le misure unilaterali e a favore di un ritorno a negoziati diretti. Appelli che risuonano come gli spasmi mortali di una concezione chiusa e superata. Cosa c’è di unilaterale nell’appello per essere riconosciuti dalle nazioni del mondo? Esiste forse un modo più pieno e dignitoso di raggiungere l’indipendenza politica? Non sono forse le impossibili condizioni limite poste da Netanyahu nel suo discorso di Washington un’espressione molto più clamorosa di unilateralismo? Non è forse venuto ilmomento di riconoscere che i negoziati sono mezzi per raggiungere fini politici e che il fallimento di quei mezzi non può significare la rinuncia a quei fini, se ci sono altre opzioni possibili? In questi giorni ricorrono i quarantaquattro anni dall’inizio dell’occupazione israeliana della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. Anni in cui Israele ha compiuto innumerevoli atti unilaterali: l’annessione di Gerusalemme, la costruzione di decine di insediamenti ebraici, l’erezione del Muro di Separazione e il disimpegno dalla Striscia di Gaza. La metà o quasi di quegli anni di occupazione è trascorsa sotto gli auspici del processo di pace. Gli incontri nelle capitali europee e nel giardino antistante la Casa Bianca non hanno impedito a Israele di continuare a prepararsi il terreno adottando misure unilaterali, alcune delle quali esiziali per il processo di pace stesso. C’è tempo per altri vent’anni di negoziati? Non abbiamo ancora capito che la delusione di un ulteriore giro di discorsi inutili potrebbe avere conseguenze tragiche per gli israeliani come per i palestinesi? L’appello che ho rivolto ai capi di stato europei insieme al gruppo di personalità israeliane fa parte dello sforzo degli elementi democratici di Israele per fermare il peggio. Oggi, dopo trent’anni di ostinazione monomaniacale, Netanyahu è disposto a riconoscere che Israele non può mantenere tutti gli insediamenti sotto la sua sovranità. Quanti anni dovranno ancora passare e quante vite si dovranno perdere prima che riconosca che anche il passo ulteriore è inevitabile? Prima o poi nascerà uno stato palestinese. Per evitare altre perdite di vite umane, per evitare lo spreco di tutta una nuova generazione che aspira a costruire il proprio destino la comunità internazionale e Israele dovrebbero, anzi debbono riconoscerlo fin dal primogiorno e negoziare da uguali le questioni ancora sul tavolo. Israele si trova comprensibilmente in una situazione critica. Fluttuiamo in continuazione fra sindrome traumatica e sindrome post-traumatica. Ci è difficile fidarci. Siamo sospettosi, sempre più aggressivi del necessario. Siamo ancora paralizzati, e perciò la soluzione non verrà da Israele. Questo non è un fallimento politico è una condizione morbosa psico-politica. Da tempo abbiamo dimenticato le idee di fondo che avevamo predicato per anni. Ora sembra che alcuni palestinesi abbiano capito qualcosa di molto profondo che era alla base del progetto sionista del secolo scorso. Che l’azione civile e la protesta non violenta sono strumenti politici nazionali molto più efficaci delle guerre. E sono gli strumenti scelti dalla leadership palestinese. Sono gli strumenti su cui oggi scommettono migliaia di giovani palestinesi. La strategia palestinese che unisce la costruzione delle istituzioni statali all’appello per il riconoscimento delle Nazioni Unite non mette la speranza al posto della pacema piuttosto riflette i venti nuovi che soffiano nel Medio Oriente. Porta al culmine un processo di pace durato troppo a lungo. Nascerà uno stato palestinese. Solo se saremo pronti a riconoscerlo, ad accoglierlo nella famiglia delle nazioni, potremo favorire l’avvento del giorno in cui i due stati si divideranno quel piccolo territorio tra il Giordano e il MarMediterraneo in condizioni di pace e buon vicinato. Allora il prossimo Settembre accogliamo lo stato della Palestina a braccia aperte!
Il Manifesto 
 17 giugno 2011


2     PALESTINA, APPELLO DI 21 INTELLETTUALI Israeliani all'Europa per il riconoscimento dello Stato palestinese

[Image]   In un lettera indirizzata all’Europa, l’ex presidente della Knesset Burg e altre 20 personalita’ dello Stato ebraico criticano duramente Obama e Netanyahu e chiedono riconoscimento dichiarazione unilaterale Stato palestineseDi   MICHELE GIORGIO*Gerusalemme, 27 maggio 2011, Nena News (nella foto l’ex presidente della Knesset Avraham Burg) – Ci sono anche l’ex presidente della Knesset Avraham Burg e il premio Nobel Daniel Kahneman tra i firmatari dell’appello a riconoscere la dichiarazione unilaterale di indipendenza palestinese, elaborato da un gruppo di 21 personalità d’Israele e intellettuali vicini al «Movimento di Solidarietà con Sheikh Jarrah» (Gerusalemme est),  rivolto all’Europa e alla comunità internazionale. Il documento, che verrà diffuso oggi dai media locali e cheil manifesto ha ottenuto ieri in anticipo, è una risposta ai discorsi pronunciati nei giorni scorsi negli Stati Uniti dal presidente Usa Barack Obama e dal premier israeliano Benyamin Netanyahu, contrari all’iniziativa annunciata dal presidente palestinese Abu Mazen di rompere l’impasse facendo ricorso all’Assemblea Generale dell’Onu il prossimo settembre«La dichiarazione palestinese d’indipendenza è allo stesso tempo una sfida e una oppotunità per entrambe le parti. E’ un momento decisivo», scrivono i firmatari dell’appello. «Il fallimento della comunità internazionale e in primo luogo degli Stati Uniti – proseguono – di rilanciare i negoziati evidenzia una realtà innegabile e sconcertante: la pace è stata presa prigioniera dal “processo di pace”. L’edificazione in corso di insediamenti (colonici israeliani) in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e il rifiuto (di Netanyahu) di congelare le costruzioni nell’interesse del negoziato, indica che l’attuale leadership di Israele usa il processo di pace come una manovra diversiva e non come un mezzo per la soluzione del conflitto». Pertanto – aggiungono Burg, Kahneman e gli altri firmatari tra i quali tre vincitori del Premio d’Israele: Avishai Margalit, Yirmiyahu Yovel e Menachem Yaari –  «di fronte al continui rinvii e alla sfiducia reciproca, la dichiarazione palestinese di indipendenza non solo è legittima ma rappresenta anche un passo positivo e costruttivo per entrambe la nazioni». I firmatari non si dicono contrari a scambi territoriali tra Israele e Palestina nel quadro di un accordo fondato sul ritiro israeliano alle linee del 1967 (antecendenti all’occupazione dei Territori) e sono favorevoli alla proclamazione di Gerusalemme come capitale dei sue Stati e anche al riconoscimento di Gaza come parte integrante della Palestina. Chiedono però che la «leader palestinese nella Striscia», ossia Hamas, accetti Israele (possibilità che il movimento islamico esclude).Da  parte sua Burg – per decenni alto dirigente del movimento sionista (è stato anche responsabile dell’Agenzia Ebraica) ma che qualche anno fa ha rotto con l’establishment politico israeliano – aggiunge che «Netanyahu sta trascinando la regione in un periodo di intransigenza e di spargimento di sangue ed è sottomesso agli elementi più estremisti della società israeliana…malgrado la scorsa settimana a Washington sia stata colma di retorica e priva di contenuto, noi non ci arrendiamo». L’ex presidente della Knesset perciò invita i leader mondiali a fare l’unica cosa che può aiutare concretamente la pace: riconoscere la dichiarazione d’indipendenza palestinese il prossimo settembre.L’appello delle 21 personalità israeliane, che chiederanno di incontrare gli ambasciatori europei, verrà certamente accolto con favore alla Muqata di Ramallah anche se Abu Mazen e il suo entourage, pur confermando di voler andare a settembre all’Onu,  hanno accusato il colpo dei ripetuti «no» di Obama ad una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Il presidente dell’Anp mercoledì aveva denunciato il discorso di Netanyahu, dinanzi al Congresso Usa come un «passo indietro». Il documento  riceverà ben altra accoglienza dal governo israeliano ma in ogni caso non pare destinato a turbare più di tanto Netanyahu. Il primo ministro ha trovato il consenso in ascesa al rientro dagli Usa. Un sondaggio pubblicato ieri dal giornaleHaaretz, indica che la popolarità complessiva di Netanyahu – precipitata al 38% negli ultimi mesi – ora è vicina al 50%. Anche Obama recupera molte posizioni nella classifica del gradimento degli israeliani. Il proseguimento dell’occupazione militare dei Territori palestinesi e della colonizzazione di Cisgiordania e Gerusalemme Est sembrano andare bene alla maggioranza del paese. D’altronde perché questi cittadini dovrebbero preoccuparsi di mettere fine dopo 44 anni all’occupazione quando gran parte della comunità internazionale, a partire dell’Amministrazione Obama, evita di fare la voce grossa con Netanyahu che invece usa con altri paesi della regione. Applaudono il premier persino gli incontentabili coloni che se da un lato criticano la disponibilità manifestata da Netanyahu al Congresso sulla possibile evacuazione di un paio di colonie israeliane in Cisgiordania, all’altro esprimono «una sostanziale comunanza di vedute». Nena News* dal quotidiano Il Manifesto del 27 maggio 2011PALESTINA, APPELLO DI 21 INTELLETTUALI ISRAELE

3  Israele, l’ora dello strappo. Intellettuali israeliani a favore dei confini del 1967  Decine di intellettuali israeliani hanno annunciato il loro favore per il riconoscimento di uno stato palestinese entro i confini del 4 Giugno 1967.Decine di intellettuali israeliani hanno annunciato il loro favore per il riconoscimento di uno stato palestinese entro i confini del 4 Giugno 1967. Secondo il  quotidiano”Haaretz” terranno una conferenza stampa vicino al luogo della celebrazione dell’Indipendenza dello Stato d’Israele , sotto il titolo “dichiarazione di indipendenza dall’occupazione “. I partecipanti all’iniziativa, tra i quali figurano 16 vincitori e vincitrici del Premio Israele, dichiarano il loro convincimento a riconoscere l’indipendenza prevista di uno Stato palestinese nei confini del 1967 e lanciano una petizione in tal senso tra la popolazione Israeliana, che accolga con favore la creazione dello stato palestinese .
L’annuncio è arrivato in via preliminare, sottolineando “in Terra d’Israele c’è stata la nascita  del popolo ebraico,. In Palestina c’è stata la nascita del popolo palestinese.”
Nel comunicato si legge anche: “Noi sottoscritti, invitiamo tutti gli amanti della pace e della libertà e tutte le nazioni ad accogliere la dichiarazione d’ indipendenza palestinese, il sostegno e il lavoro per una pace tra i due popoli sulla base dei confini del 1967, con dei concordati tra di loro: la fine dell’occupazione è una condizione imprescindibile  per la liberazione dei due popoliIsraele, l’ora dello strappo.http://www.haaretz.com/news/national/left-and-right-clash-at-tel-aviv-rally-to-support-palestinian-state-1.357368


4  GERUSALEMME, 4. 500 IN MARCIA PER STATO PALESTINESE (AGI) Gerusalemme - Oltre 4.500 attivisti israeliani e palestinesi hanno preso parte, a Gerusalemme, ad una marcia in sostegno del riconoscimento di uno Stato palestinese. Il corteo, ribattezzato "Marcia per l'indipendenza", ha preso il via dalla porta di Jaffa, nella citta' vecchia, seguendo un percorso che - simbolicamente - ricalca la linea verde che divideva Gerusalemme prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967. GERUSALEMME, 4. 500 IN MARCIA PER STATO PALESTINESE
Gerusalemme, Marcia degli attivisti per il riconoscimento dello ...
 Marcia per l’indipendenza della Palestina a Gerusalemme
Articolo in 
inglese

5,000 protestors in Tel Aviv say YES to 1967 borders

5  Ari Shavit :Netanyahu e i confini del 1967  La comunità internazionale è nervosamente in attesa di ascoltare il primo ministro Benjamin Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti ,ma se non menzionerà il numero 1967, il mondo respingerà il suo discorso fin dall'inizio. Netanyahu ritiene che per garantire il futuro di Israele, i palestinesi devono riconoscerlo come Stato ebraico e accettare una Palestina smilitarizzata.Netanyahu ritiene che per garantire il futuro di Israele, Israele deve controllare la Valle del Giordano. Netanyahu ritiene che per garantire il futuro di Israele, Israele deve comprendere i blocchi di insediamenti di grandi dimensioni.Netanyahu ritiene che soluzioni creative devono essere trovate per i coloni, i luoghi santi e Gerusalemme. Netanyahu ritiene che il conflitto israelo-palestinese non può essere portato a termine senza affrontare le sfide regionali e strategiche che minacciano l'Occidente e Israele.Tutto molto bello. Ma Netanyahu dovrebbe anche capire che deve dare qualcosa in cambio.Questo qualcosa è noto : confine sulle linee del 1967. A partire da ora, i palestinesi non sono i partner, il mondo è il partner. E l'accordo con il mondo è semplice: Israele dà un pegno su come il gioco finirà e riceve in cambio un pegno sulle regole del gioco.Il ritiro sarà graduale e assecondato dalla Comunità internazionale , ma alla fine del processo, il ritiro sarà completo. Il ritiro concluderà l'occupazione, dividerà il paese e creerà due stati-nazione tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano. A Netanyahu non piace pagare. Ma lui deve capire che le persone che non pagano non acquisteranno nulla. Persone che non fanno compromessi non sopravvivono. Parsimonia politica non equivale a grandezza politica.Se Netanyahu pronuncerà il numero "1967" a Washington, darà speranza al suo paese e a se stesso. Ma se si esiterà e il discorso al Congresso sarà vago, ciò costituirà l'inizio della sua rovina.

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