ONU e OMS : a Gaza il più alto tasso di disoccupazione al mondo. Le fabbriche restano paralizzate

di Chiara PanzeriNel quinto anniversario dell'embargo imposto da Israele, la Striscia di Gaza registra un livello di disoccupazione tra i più alti del mondo, con una percentuale del 45,2 per cento durante la seconda metà del 2010. A denunciare lo stato in cui verte il mercato del lavoro nell'area è l'Agenzia Onu per il Soccorso e l'Occupazione dei profughi palestinesi (Unrwa), che ha pubblicato un rapporto lo scorso martedì.
Il documento analizza il quadro dell'occupazione nella Striscia sia rispetto al totale della popolazione sia in riferimento ai rifugiati, che da soli rappresentano i due terzi della collettività. Sono esaminati il settore pubblico e quello privato, e viene riservata un'attenzione particolare allo stato dei salari. Ne emerge un ritratto preoccupante di Gaza, che dalla prima metà del 2006 ha visto ridursi il livello medio dei salari del 34,5 per cento. Proprio nel 2006, infatti, Tel Aviv ha intensificato le sanzioni contro Gaza, a seguito della cattura di un soldato israeliano, Gilad Shalit. Una stretta ulteriore si è avuta l'anno successivo, quando Hamas ha preso il potere nella Striscia, sottraendone il controllo a Fatah.
I dati relativi al 2009/2010 rivelano uno scenario inaspettato. Nella seconda metà dell'anno passato il settore privato ha visto calare l'occupazione del 7,76 per cento, mentre in quello pubblico si è registrato un aumento del 2,91 per cento. Poiché l'impiego pubblico è direttamente legato ad Hamas, ne deriva un palese fallimento della strategia israeliana: nonostante l'embargo miri a indebolire il partito che governa la Striscia, proprio quest'ultimo ha generato un incremento a livello occupazionale. Ad oggi, Hamas registra nel suo libro paga circa 25.000 persone, mentre altre 65.000 sono pagate dall'Anp per non lavorare, in segno di protesta contro l'estromissione di Fatah dalla Striscia.
n crisi invece il settore privato, che risente delle forti limitazioni derivanti dall'embargo: le esportazioni si riducono a poche centinaia di carichi di fragole e fiori, mentre l'importazione di materie prime resta sostanzialmente impossibile. Questo nonostante un parziale alleggerimento dell'embargo ottenuto un anno fa grazie alle pressioni internazionali, dopo l'attacco israeliano alle navi della Freedom Flottilla. A compromettere la ricostruzione nel Paese, e con essa una spinta positiva al sistema economico, è in particolare il divieto di importare prodotti industriali e edili, che secondo Israele potrebbero essere utilizzati per costruire armi."É difficilmente comprensibile - commenta Chris Gunness, portavoce dell'Agenzia Onu - quale sia la logica di una politica che impoverisce deliberatamente così tante persone, e condanna a una vita di stenti centinaia di migliaia di potenziali lavoratori". E aggiunge: "I più poveri tra i poveri sono quelli più colpiti", spiegando che negli ultimi quattro anni sono aumentati da 100mila a 300mila coloro che si rivolgono all'Unrwa perché in gravi difficoltà (e s'intende lavoratori che guadagnano meno di due dollari al giorno).Da Tel Aviv non sono mancate le critiche nei confronti del rapporto Onu, accusato di aver dipinto volutamente un quadro della situazione che fosse il più desolato possibile. Il portavoce del ministro degli Esteri, Yigal Palmor, ha ribadito che la premessa per qualunque genere di trattativa con Hamas è che quest'ultimo riconosca lo Stato di Israele, un gesto "che potrebbe sicuramente contribuire ad alleviare la dura condizione di Gaza".Gaza, la piaga della disoccupazione
2  OMS :Il blocco di Israele tiene in ginocchio Gaza  (Milano) - Salute ed economia nei Territori palestinesi occupati, versano in condizioni di estrema gravità. A dirlo è l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha redatto una ricerca sulla situazione economica e sociale nei Territori, rendendola pubblica nel mese di maggio. La ricerca è un approfondimento voluto dall’Assemblea mondiale della salute che, nel 2009 aveva chiesto a Israele di «interrompere subito il blocco agli accessi che portano ai Territori occupati e, in particolare, alla Striscia di Gaza; blocchi che – secondo l’Oms – stavano causando una preoccupante carenza di medicine e materiale medico».Secondo il rapporto, l’economia in ginocchio, l’incapacità a governare, le carenze mediche e degli impianti igienici, sono fattori che hanno contribuito a un continuo peggioramento della salute della popolazione, soprattutto a Gaza. In seguito al blocco dei confini voluto da Israele, il 98 per cento delle attività industriali della Striscia si sono interrotte. La proibizione di far entrare a Gaza materiale edile (che Israele blocca per ostacolare la realizzazione di strutture sotterranee), ha impedito la ricostruzione di 6.500 case distrutte durante le operazioni militari israeliane dell’inverno 2008/09; nonché di costruire ex novo 7.500 abitazioni di cui la popolazione di Gaza, in continua crescita ha bisogno. In questo modo almeno 3.500 famiglie della Striscia non vivono in casa propria.«Molto spesso i giornalisti mi chiedono se considero quella di Gaza una crisi umanitaria – commenta Filippo Grandi, commissario generale dell’Unwra, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi –. In realtà si tratta di una crisi molto più seria. Una crisi umanitaria si affronta portando cibo e medicine. Questa, invece, è innanzitutto una crisi economica. E poi è una crisi delle istituzioni e delle infrastrutture. Per risolverla ci vorranno anni». La crisi economica, poi, colpisce duramente anche le grandi istituzioni: l’Unwra, che si occupa di 4,7 milioni di palestinesi rifugiati tra Giordania, Libano, Siria e Territori Palestinesi, dovrà probabilmente affrontare un taglio del 25 per cento del proprio bilancio di previsione.
3  Gaza: il disastro dell’embargo israeliano in cifre l blocco imposto da Tel Aviv dal giugno 2007, ha messo l’economia della Striscia in ginocchio.La Striscia di Gaza, una stretta striscia di sabbia con circa 370 miglia quadrate ospita 1,6 milioni di persone ed è soggetta a un rigoroso embargo da parte di Israele fin dalla sua acquisizione da parte del movimento islamista di Hamas nel giugno 2007, nel corso di un colpo di stato contro l’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha imposto lo scorso 18 maggio, la fine del blocco ad Israele, con una risoluzione adottata nel corso della riunione annuale dei suoi membri. Un mese prima, durante una visita verso l’enclave palestinese, il Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon aveva detto che l’embargo israeliano “non era più sostenibile“. E Le Figaro fa il conto in cifreDISOCCUPAZIONE - L’ultima Relazione della Commissione europea sulla Striscia di Gaza, pubblicata nel marzo 2009, stima i danni causati dal blocco sull’economia del territorio in tutti i settori economici e sociali insieme, per un totale di 514.300.000 di euro. Il PIL nei territori palestinesi è sceso dal 5% nel 2006 al 3% nel 2007 e 2,7% nel 2008. Il tasso di disoccupazione era pari al 38,6% della forza lavoro nel 2009, secondo l’ufficio di statistica palestinese. Era al 37% nel 2008, secondo la CIA, che pone la Striscia di Gaza in tutto il mondo al 188esimo posto in termini di numero di disoccupati.POVERTA’ - Il 70% della popolazione di Gaza viveva sotto la soglia di povertà già nel 2009, secondo la CIA. L’ UNRWA (United Nations Relief and Works Agency) ha constatato che il numero di rifugiati che vivono in estrema povertà a Gaza è triplicato dall’inizio del blocco nel 2007, da circa 100.000 a circa 300.000 persone. D’altra parte, l’insicurezza alimentare ha coinvolto il 60,5% delle famiglie lo scorso anno, contro il 56% del 2008, secondo la Food and Agriculture Organization (FAO). Nella sua relazione, la Commissione sottolinea che oltre il 90% della popolazione dipende dagli aiuti alimentari da parte delle agenzie delle Nazioni Unite. Nel febbraio 2009, le Nazioni Unite avevano lanciato un appello per aiuti di emergenza per la Striscia di Gaza, volto a raccogliere 613 milioni di dollari (479 milioni di euro) da parte della comunità internazionale.AGRICOLTURA E PESCA - Secondo la relazione della Commissione europea, il 46% dei terreni agricoli nella regione sono stati ritenuti “inaccessibili” e la produzione è stata interrotta a fine giugno 2009. I lavoratori agricoli rappresentavano solo il 7,4% della forza lavoro nel quarto trimestre del 2009, contro il 12,7% nel secondo trimestre del 2007, secondo l’ufficio di statistica palestinese. L’organizzazione commerciale Palestina Trade Center (Paltrade) ha scritto in un recenterapporto che, senza le restrizioni sul trasporto merci l’esportazione di prodotti agricoli dalla Striscia di Gaza potrebbe arrivare a 2.300 tonnellate di lamponi, 55 milioni di fiori recisi e 714 tonnellate di pomodori ciliegia all’anno. Anche la pesca soffre. Dal gennaio 2009, le aree accessibili ai pescatori sono statE nuovamente ridotte, a 3 miglia al largo. Di conseguenza, il totale della catture di pesce è diminuito del 47% tra il 2008 e il 2009, secondo il Ministero dell’Agricoltura palestinese.INDUSTRIA, COMMERCIO, SERVIZI - Secondo la relazione della organizzazione Paltrade il 95% di 3750 aziende nella Striscia di Gaza sono state chiuse o distrutte, rendendo circa 40.000 lavoratori disoccupati (94% dei loro dipendenti). Nel 2009, il settore industriale pesava solo il 5% della forza lavoro, secondo la CIA. Paltrade aggiunge che il 5% delle aziende ancora operanti nel territorio palestinese, non ruota che tra il 20 e il 50% della loro capacità produttiva totale. L’industria alimentare, per esempio, ha registrato perdite di 37,1 milioni dollari a causa di una completa cessazione delle esportazioni nel 2009. Aveva solo 16 fabbriche l’anno scorso, contro le 30 nel 2008 e le 100 nel 2005. Altri settori sono stati duramente colpiti, in particolare come fa notare la Commissione europea, le costruzioni, l’energia, i trasporti e le telecomunicazioni. Così, circa 10.000 abbonati hanno visto i loro servizi di telefonia fissa interrotti, mentre 330 mila utenti di telefonia mobile sono stati colpiti da questi tagli.LE INFRASTRUTTURE - Le infrastrutture di Gaza sono state devastate dalla mancanza di materiali e attrezzature per la costruzione. Una mancanza che deriva direttamente dal blocco imposto sul territorio secondo quanto sottolinea il Programma di sviluppo dell’ONU (UNDP). Inoltre, un anno dopo l’operazione militare “Piombo fuso” condotta dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, i tre quarti delle infrastrutturedistrutte o danneggiate non sono ancora state ricostruite o ripristinate, afferma il rapporto UNDP. Il programma delle Nazioni Unite lo scorso anno ha stimato che il costo dei danni causati su strade e ponti nella Striscia di Gaza è salito a 18.600.000 di euro. La relazione sottolinea anche che l’82,5% delle scuole sono ancora in rovina.da Giornalettismo, 3 giugno 2010     Gaza: il disastro dell’embargo israeliano in cifre
4 Amira Hass : ritorno a Gaza
Care International: “A Gaza situazione catastrofica
6  Le fabbriche di Gaza restano paralizzate nonostante la promessa di Israele di ridurre il blocco  di Donald Macintyre     The Independent, 26 giugno 2010 Gaza City - La Tropika fredda che Salama al-Kishawi serve orgogliosamente ai suoi ospiti nel suo ufficio sa davvero di arancia, cosa inusuale per un succo confezionato – ed è particolarmente rinfrescante in una giornata di mezza estate a Gaza, quando ci sono 35 gradi. Ma il prodotto di punta della Gaza Juice Factory ha un’importanza che va ben oltre il suo sapore.Nella fabbrica lavorano 65 operai ed è una delle poche industrie operative nonostante l’assedio di Gaza imposto da Israele dopo che Hamas ha preso il pieno controllo del territorio ormai tre anni fa, questo mese.Per quanto tempo continuerà ad essere attiva potrebbe dipendere in gran parte da come funzionerà, in pratica, l’accordo che allenterà il blocco israeliano annunciato domenica scorsa. Il futuro della Tropika è diventato la prova del nove per l’economia reale di Gaza.In termini diplomatici, l’accordo negoziato tra Israele e l’inviato internazionale Tony Blair è stato un punto di svolta. Israele si sta ancora rifiutando – a parte eccezioni supervisionate a livello internazionale – di consentire l’accesso di qualsiasi cosa, compreso il cemento che è assolutamente necessario per la ricostruzione delle case distrutte dai bombardamenti, in quanto ritiene che Hamas possa utilizzarlo per scopi militari. Ma l’annuncio ha significato un vero cambiamento della politica: almeno in teoria tutti gli altri beni potranno entrare per la prima volta dopo tre anni Ma circa una settimana dopo l’annuncio, le persone a Gaza, sebbene siano contente della prospettiva di un aumento dei beni di consumo da Israele, stanno chiedendo che il fulcro della promessa dell’accordo, cioè consentire l’espansione dell’ “attività economica”, venga anch’essa onorata."Se è permesso l’ingresso dei beni di consumo ma, allo stesso tempo, non possono entrare materiali e mezzi di produzione, la cosa avrà effetti negativi”, afferma Amr Hamad, direttore della Federazione palestinese delle industrie di GazaLa Gaza Juice Factory, situata alla periferia est di Shajaia, in bella vista davanti al confine israeliano, è un’immagine perfetta del problema. I suoi giardini ben curati e l’andirivieni dei carrelli elevatori che caricano sui camion le bottiglie appena imballate per consegnarle ai supermarket locali testimoniano che questa – cosa insolita per Gaza - è una preoccupazione attuale.I suoi sono segni lasciati dai carri armati israeliani che sfondarono la recinzione perimetrale di metallo verde durante l’offensiva militare del 2008/2009 e i resti di quello che il capo della società Ayed Abu Ramadan pensa sia stato un missile Apache, è stato appeso al muro di ingresso come memento di tutto quello che la fabbrica ha passato.La sua storia si intreccia in modo complicato con quella della politica turbolenta e macchiata di sangue del territorio nel corso degli ultimi 15 anni e oltre.Una targa imponente ricorda ai visitatori che la fabbrica è stata aperta da Yasser Arafat due giorni prima del suo rientro trionfale a Gaza dall’esilio di Tunisi, nel luglio 1994. La fabbrica fu un successo, esportando in Egitto, Stati Uniti, Europa e nello stesso Israele per oltre un decennio.Tuttavia, nel 2006 le esportazioni arrivarono a un punto morto. Hamas aveva vinto le elezioni, la maggior parte dei valichi era stata chiusa. Da allora i famosi agrumeti di Gaza sono stati quasi tutti distrutti dall’esercito israeliano durante le sue frequenti incursioni a partire dallo scoppio della seconda Intifada nel 2000."Qui a Gaza abbiamo sempre avuto le migliori arance del mondo”, afferma Kishawi. “Ora la maggior parte non esiste più”.Oggi le bottiglie diTropika da sei shekel [circa 1 euro, ndt.] esposte sugli scaffali dei negozi di Gaza sono un testamento della notevole adattabilità dell’azienda. I suoi dirigenti hanno diversificato la produzione con Tropika, succhi di fragola e pomodoro, insieme a ketchup, marmellate e una vasta scelta di frutta canditaDa che esportava il 100 per cento dei prodotti, la società ora soddisfa il 100 per cento del mercato nazionale. E nonostante preferisse di gran lunga acquistare le materie prime a un prezzo molto più esiguo da Israele, è stata obbligata dall’embargo a introdurre bottiglie, imballaggi, additivi coloranti e aromatizzanti dall’Egitto attraverso i tunnel, pagando quelli che Ramadan chiama con delicatezza i“ pedaggi sotterranei”, chiesti da coloro i quali gestiscono questi traffici nei tunnel per sostenere i loro costi – comprese le imposte al governo de facto di Hamas. Il primo problema era rappresentato dalla scarsità di frutta. “Lo scorso anno avevamo bisogno di 9mila tonnellate di agrumi per far fronte alla domanda”, afferma Kishawi, “ma sono riuscito a procurarne solo mille tonnellate”. Le arance provenienti da Israele costavano la metà rispetto ai prezzi di Gaza ma le autorità israeliane consentivano solo l’ingresso delle arance da mangiare.A sottolineare l’economia di Gaza in stile “Alice nel paese delle meraviglie”, era anche possibile importare dall’Egitto, attraverso i tunnel, lo stesso identico concentrato che si esportava in Egitto. “Nel giugno 2007 vendevo il concentrato a 1.350 dollari a tonnellata ma ora far entrare la stessa quantità mi costa 4mila dollari”, spiega Kishawi. “Dov’è la concorrenza in questo?”Come se non fosse abbastanza, diciotto mesi dopo la fabbrica subì danni devastanti a causa degli assalti israeliani via terra e aria durante l’offensiva del 2008/20099, che colpì centinaia di siti industriali. Il danno ha spinto Amr Hamad della Federazione delle industrie a sottolineare che: “Quello che [Israele] non è riuscito a raggiungere con il blocco, lo ha ottenuto con i suoi bulldozer”Il tubo principale dell’evaporatore centrale della fabbrica di succhi, che aveva subito dei danni a causa di un missile, fu riparato rapidamente, ma l’enorme freezer, della capacità di 2mila tonnellate, insieme al suo contenuto, andò distrutto. Poi, verso la fine dello scorso anno, l’azienda si trovò davanti a un altro ostacolo. Pensava di aver concluso un affare con i fornitori israeliani per il rifornimento di cinquecento tonnellate di pompelmi, assolutamente necessari in quel momento."Ma poi, quando capirono che la merce stava finendo in una fabbrica di succhi anziché nei supermercati, bloccarono l’ingresso dei pompelmi”, afferma Kishawi. Due settimane fa, sulla scia delle proteste internazionali che sono seguite alla crisi delle flottiglie pro-palestinesi, si è arrivati al primo atto dell’attenuazione dell’embargo e, in modo perverso, con essa, a una nuova minaccia per laTropika. La società era felice di sapere che il blocco era stato allentato – anticipando che finalmente avrebbe potuto importare da Israele materie prime a un costo molto più basso.Invece, la società scoprì che si trovava a dover affrontare un nuovo concorrente. Per la prima volta in tre anni, Israele aveva permesso l’ingresso di un succo di frutta confezionato - al prezzo concorrenziale di cinque shekel a bottiglia. Infine, ironia della sorte, la società (sebbene i suoi soci non siano sicuri di quanto questo possa durare) - che effettivamente è proprietà dell’Autorità Palestinese a Ramallah e ha un consiglio di amministrazione nominato dal Presidente palestinese Mahmoud Abbas - ora dipende da un’ancora di salvezza da parte del governo de facto di Hamas.L’azienda ha già ridotto preventivamente il prezzo dellaTropika, da sei a cinque shekel a bottiglia e non dovrebbe avere problemi a fare concorrenza al prodotto israeliano se potesse importare a un prezzo molto più contenuto le materie prime disponibili in Israele. “Se abbiamo un mercato veramente aperto, possiamo competere con chiunque, Israele compreso”.Tuttavia, sottolineando l’attuale squilibrio, il principale acquirente dell’azienda, Haitham Kanna, afferma: “Israele può produrre una bottiglia di succo per circa 25 centesimi – che è lo stesso costo che noi dobbiamo sostenere per una bottiglia”.Per dirla con le parole del suo capo, Ramadan: “É come legare le mani a qualcuno e dirgli di salire sul ring. Dopo tutto quello che abbiamo passato – blocco, guerra e carenze di vario genere - sarebbe pazzesco se adesso perdessimo l’azienda”.Tuttavia, per adesso, la Gaza Juice Factory è ancora in funzione. Più comune è il destino dellaAziz Jeans Factory, all’estrema periferia di Jabalya, dove adesso regna il silenzio, quattro anni dopo essere stata attiva con il chiasso di cento impiegati che cucivano jeans alla moda per i giovani, per il riconoscente partner commerciale israeliano della famiglia Aziz. Non riuscendo né a importare il tessuto né – cosa anche più importante – a esportare jeans finiti, la fabbrica, come molte altre centinaia, si fermò inaspettatamente quasi subito dopo l’inizio del blocco.La sua forza lavoro, altamente qualificata, si disperse – “ molta”, secondo Aziz Aziz, sul libro paga di Hamas. L’ultima volta che l’Independet era stato qui, Aziz aveva creato un certo reddito assemblando spine elettriche – ma la concorrenza delle spine già fatte, contrabbandate attraverso i tunnel, l’aveva reso un compito senza speranzaAziz dice che se il grande valico di Karmi, un terminale di carico – attraverso il quale lui e suo fratello erano soliti importare denim ed esportare indumenti finiti – fosse riaperto, lui rimetterebbe in funzione le sue macchine da cucire e sarebbe pronto a riavviare la fabbrica in una settimana.Aziz non è amico di Hamas e vorrebbe un cambio di governo a Gaza. Ma aggiunge che mantenendo il blocco – compreso quello sulle importazioni – nel corso degli ultimi tre anni, “Israele deve sapere che questo non equivale ad assediare Hamas; è un assedio al popolo di Gaza”.Questa idea ora ha il consenso del quartetto internazionale. Israele sta ancora resistendo, per motivi di sicurezza, alla riapertura di Karni contando, invece, su un’espansione della capacità, molto più limitata, del valico di Kerem Shalom.La maggior parte degli esperti è convinta che Karni dovrà essere riaperto qualora si riuscisse a ristabilire la capacità industriale produttiva che c’era in precedenza a Gaza, o almeno una parvenza di essa.Nonostante ciò, la promessa espansione di Kerem Shalom dovrebbe essere un modesto avvio se ciò dovesse accadere – sempre a condizione che Israele sia anche pronto a consentire una ripresa delle esportazioni.Lo stesso Israele sta affrontando pressioni contrastanti; ieri è stato il quarto anniversario dell’incarcerazione del sergente Gilad Shalit, rapito, al quale vengono negate anche le visite della Croce Rossa – da un lato – e la prospettiva di ulteriori flottiglie pro-palestinesi, dall’altroMa senza una scossa per l’economia di Gaza, in ginocchio, Israele rischia di dare l’idea di usare Gaza come mercato prigioniero per i suoi beni di consumo non facendo nulla, o quasi, per ridare lavoro alle persone.Sari Bashi, direttrice di Gisha, agenzia israeliana per i diritti umani, afferma che questa settimana è stata leggermente incoraggiata dall’esplicito accenno all’“attività economica”, fatto nella dichiarazione settimanale del governo, ma avverte che potrebbe non accadere “ a meno che Karni non fosse riaperto e le esportazione fossero permesse”.E aggiunge: “Israele deve abbandonare la politica della guerra economica e accettare il suo fallimento”.Come il blocco sta cambiando la vita a GazaSecondo i coordinatori palestinesi il numero di camion che ogni giorno da Israele portano merci nella Striscia di Gaza non è ancora aumentato, cosa che invece è avvenuta per la gamma dei beni trasportati – compresi libri e giocattoli per bambini, che erano da tempo vietatiGiovedì, nel supermarket di Hazem Hasuma nel quartiere di Rimal, situato nella zona ovest di Gaza City, i rasoi egiziani, contrabbandati attraverso i tunnel, sono stati rimpiazzati in toto dai rasoi Gillette Fusion, importati legalmente da Israele. Ma la gamma completa di merci contrabbandate ha reso cinici alcuni abitanti di Gaza verso le nuove importazioni. “Non è cambiato nulla in realtà”, afferma Hasuna, 38 anni. “Alle persone non sono mancati il ketchup e la maionese [due dei prodotti nuovamente permessi]. L’unico vero cambiamento avverrà se inizieranno a far entrare il cemento per ricostruire e ciò di cui le fabbriche necessitano per dare lavoro alle persone”A una dei suoi clienti, Rasha Farhat, 33 anni, i suoi parenti sauditi e che sono venuti a trovarla dopo l’apertura del valico di Rafah questo mese, hanno chiesto di cosa avesse bisogno. “Gli ho risposto ‘Di niente’”. Aggiunge che, grazie ai tunnel, “non abbiamo mai avuto tanti prodotti quanti ne abbiamo adesso”.Fino a un certo punto. Sebbene siano ancora attivi, i tunnel hanno visto un calo notevole dell’attività nel corso delle ultime due settimane, dato che i grossisti sono in attesa di stimare la nuova lista nera dei beni che mettono a repentaglio la sicurezza, che Israele ha promesso di sostituire nel corso della prossima settimana nella sua lista, molto restrittiva, di “merci consentite”, come parte del nuovo regime “liberalistico” delle importazioni.Riconoscendo che gli abitanti di Gaza si sono abituati ai “ prodotti dei tunnel” nel corso degli ultimi tre anni, un eminente economista di Gaza, che ha preferito mantenere l’anonimato, afferma: “Naturalmente Israele è capace di dire una cosa e poi di agire diversamente. Dovremo aspettare per vedere quali siano le conseguenze della nuova politica”. Ma confessando che aveva appena fatto il pieno di diesel israeliano, preferendolo a quello egiziano, aggiunge: “I palestinesi hanno ricevuto merci israeliane per quaranta anni. E considerano i prodotti provenienti da Israele di qualità nettamente superiore rispetto agli equivalenti egiziani”.articolo (Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq)


7   Gisha : il blocco di Gaza non è finalizzato alla sicurezza


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