Sefi Rachlevsky :Israele: i leader radicali premono per un attacco all'Iran


I leader israeliani radicali premono per un attacco all’Iran.
La presenza americana in Iraq potrebbe invogliare i leader israeliani radicali a trascinare Washington controvoglia in una guerra all’Iran, come se fosse l’obiettivo di un attacco. Di fronte alla storia, le forze della ragione devono porre un freno 
di Sefi Rachlevsky 
In circostanze normali, nel sistema politico i vertici militari si collocano a destra. La ragione è ovvia: la cantante vuole cantare, lo scrittore vuole scrivere, e il comandante di divisione intende impegnare le divisioni. Quando Moshe Dayan disse che avrebbe preferito trattenere cavalli al galoppo piuttosto che incitare muli indolenti, non si riferiva solo ai suoi generali. Si tratta di un modello comune sulla scena mondiale. Solo raramente per i militari i ruoli sono invertiti tanto da farli risultare essere più misurati e cauti della leadership politica. Nella stragrande maggioranza questi casi – tutti, in pratica, e non solo negli anni ‘30 – si sono conclusi con un disastro. La causa è semplice: l’esercito non è istituito per fungere nel corso del tempo da freno per una classe dirigente politica estremistaPurtroppo, Israele, nel colmo dell’inverno del 2011, si trova in questa insolita e pericolosa situazione. Questo vale anche per ciò che riguarda l’Autorità Palestinese: i vertici militari tutti, inclusi i leader attuali e quelli del passato, raccomandano di giungere a un compromesso con il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. Riconoscono il “miracolo” degli ultimi anni, con un governo che gode di una maggioranza nella West Bank e svolge un’azione decisiva contro il terrorismo. La classe dirigente politica di Israele, invece, procede coscientemente con i proclami del colono Avigdor Lieberman, e facendo tutto il possibile per ferire il nostro partner palestinese moderato. Si sa che l’unico modo per conservare le colonie e il loro mondo messianico sta nel rafforzare la leadership palestinese estremista, con la quale “ogni dialogo è impossibile”. 
Questo vale, a maggior ragione, quando si tratta dell’ Iran. Tutti i capi delle forze armate – il capo di stato maggiore, i capi del Mossad, dei servizi segreti militari e del servizio di sicurezza Shin Bet, e il capo della Commissione Energia Atomica, sia quello in carica, che quelli di un paio di generazioni addietro – si sono opposti accanitamente a colpire l’Iran ora. Ma due persone, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak per conto proprio si ritengono in grado di trascinare l’intera nazione in una guerra lunga e con molte vittime. 
Nella settimana scorsa, l’immagine della settimana è rappresentata dall’ultimo incontro di Netanyahu avvenuto dopo la mezzanotte di domenica con il leader spirituale del partito religioso radicale Shas, il rabbino Ovaia Yosef, il leader del partito e ministro degli interni Eli Yishai e il ministro della edilizia abitativa e delle costruzioni Ariel Atias. I cellulari sono stati messi da parte come si conviene a un incontro riservato, e il braccio destro di Netanyahu, Natan Eshel, del campo nazional-religioso, è stato temporaneamente sloggiato dal suo nascondiglio vicino alla biblioteca. Non è stato il novantenne rabbino estremista che Netanyahu ha dovuto convincere della necessità di dover attaccare l’Iran ora, ma piuttosto gli ufficiali più alti in grado del paese, in servizio e in pensione, così come la maggioranza dei cittadini israeliani e gli amici di Israele in Occidente. 
Gente con profondo spirito di contraddizione, o che non si guarda allo specchio, si è lamentata della situazione in Tunisia, dove un partito islamico moderato ha conquistato il 41% dei seggi parlamentari e ha formato una coalizione con i partiti radicali e di sinistra. Ma oltre il 45% dei membri del parlamento israeliano ha del mondo punti di vista religiosi radicali, messianici, antidemocratici o razzisti. Metti insieme i 23 seggi di Shas, United Torah Judaism, Habayit Hayehudi e la National Union; metti Yisrael Beiteinu e la metà dei parlamentari del Likud, com Danny Danon, Yariv Levin e compagnia. E, a differenza della Tunisia, nella coalizione non c’è modo di trovare elementi liberali. Un motivo c’è sul perché il ministro della giustizia Yaakov Neeman ha dichiarato che stava lavorando per far sì che la legge religiosa ebraica divenga legge di Israele, e perché la maggior parte dei collaboratori del primo ministro provengono dai sostenitori delle colonie, dal mondo religioso integralista guastato da messianismo. 
A Barak piace parlare di un terzo degli israeliani che prestano servizio nelle forze armate, lavorano e pagano le tasse. Che un terzo ora sia a rischio di missili e che il ministro del fronte interno di difesa, Matan Vilnai, faccia le previsioni di migliaia di vittime. L’enorme e costoso rifugio nucleare capace di proteggere tutti i ministri del governo e, forse, le loro famiglie e compari non è un’opzione valida per i normali cittadini. Ne lo sono le protezioni che vengono approntate nelle colonie che non dovrebbero essere obiettivo dei missili. I siti che sono stati individuati nel centro di Israele per divenire cimiteri di massa in condizioni di emergenza, per prevenire la diffusione di malattie, non rappresentano certamente una soluzione allegra. 
C’è una possibilità minima che i rapporti che ci piovono dall’alto sulla possibilità di un intervento prima dell’inverno siano solo una presa in giro, volta a mettere il mondo in preda al panico. Fuorché farci abituare pure all’idea di un attacco. Ancor peggio: si sta tentando di aggirare l’opposizione della classe dirigente militare, per mezzo di una decisione urgente, affrettata e interessata, presa “all’ultimo minuto prima che arrivino le nuvole in gran numero” – secondo il faccia a faccia con il rabbino Yosef. Nel frattempo, la presenza statunitense in Iraq potrebbe invogliare i leader israeliani radicali a trascinare Washington in una guerra, contro la sua volontà, come se fosse l’obiettivo di un attacco. Di fronte alla storia, le forze della ragione devono porre un freno. 
(tradotto da mariano mingarelli)

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