Le rivoluzioni arabe , l’ascesa dell’Islam politico e Israele


   Nel giro di poco più di un mese, i partiti islamici si sono affermati in ben tre paesi arabi in cui si era assistito a delle rivoluzioni o comunque a proteste sociali che hanno portato a profonde (almeno sulla carta) riforme istituzionali: alla fine di ottobre il partito Nahda ha ottenuto oltre il 40% dei voti in Tunisia, imitato poche settimane dopo dal partito marocchino “Giustizia e Sviluppo” (PJD) che, aggiudicandosi 107 seggi, è divenuto il partito di maggioranza relativa in Marocco; infine, nella prima tornata elettorale egiziana svoltasi alla fine di novembre, la coalizione guidata dal partito “Libertà e Giustizia” dei Fratelli Musulmani ha ottenuto circa il 40% delle preferenze, seguita dall’Alleanza Islamica del partito salafita “al-Nour” con il 25%.
Ma non finisce qui, perché le rivolte arabe hanno portato alla ribalta gli islamici anche in Libia, dove hanno costituito la prima linea dei ribelli nella guerra civile contro Gheddafi, nello Yemen dove sono divenuti una componente fondamentale delle proteste di piazza, e in Siria dove sono un elemento chiave del Consiglio Nazionale Siriano, l’organizzazione ombrello che riunisce le principali correnti dell’opposizione al regime di Assad.
Ci si aspetta dunque che i prossimi sviluppi regionali vedranno i partiti islamici divenire in un modo o nell’altro un protagonista essenziale nella gestione del potere in diversi paesi arabi, modellando di conseguenza le scelte politiche ed economiche di molti di questi paesi.
In realtà è necessario fin da subito sottolineare come questa realtà complessiva si declini in modi che possono variare notevolmente da paese a paese.
Se in Tunisia il partito Nahda ha costituito una coalizione con alcuni partiti laici che avrà il compito di redigere la nuova Costituzione e plasmare il nuovo Stato tunisino, in Marocco il potere effettivo rimane ancora in gran parte nelle mani del re, e compito del PJD sarà quello di verificare fino a che punto il nuovo testo costituzionale introdotto dal sovrano offra spazi di manovra al governo eletto.
In Libia gli islamici mantengono un basso profilo nell’attuale governo ad interim, costruito sulla base degli equilibri tribali ed etnici, e contano di ottenere il potere alle prossime elezioni, in un paese la cui opinione pubblica è prevalentemente islamica.
In Egitto le elezioni parlamentari potrebbero non essere sufficienti a decidere lo scontro per il potere che ha come principali protagonisti l’esercito, i Fratelli Musulmani e la coalizione laica del Blocco Egiziano, ed in cui la prepotente ascesa dei salafiti potrebbe rappresentare un ulteriore elemento di divisione e di tensione.
Nello Yemen l’allontanamento del presidente Ali Abdullah Saleh lascia in piedi il vecchio apparato di potere, e non è escluso che nuove tensioni possano spingere ulteriormente verso il baratro un paese che già traballa pericolosamente sull’orlo della disgregazione.
In Siria il regime del presidente Assad ancora resiste, e la speranza dei Fratelli Musulmani di salire al potere attraverso una pacifica affermazione elettorale potrebbe essere spazzata via dal deflagrare di una tragica guerra civile.
IL DIBATTITO ATTORNO ALL’ASCESA DEI PARTITI ISLAMICI
Al di là di queste differenze, e delle notevoli incognite che si prospettano nella futura evoluzione della regione, il dato dell’ascesa complessiva dei movimenti politici di ispirazione islamica ha suscitato paure ed alimentato dibattiti, sia in Occidente che negli stessi paesi arabi, riguardo alle implicazioni che ciò potrebbe avere per le componenti laiche delle società arabe, per l’evoluzione democratica e lo sviluppo economico di questi paesi, e per i fragili equilibri regionali.
La principale preoccupazione delle correnti laiche arabe e di alcun ambienti occidentali riguarda l’effettivo radicamento delle convinzioni democratiche professate da questi movimenti, la sincerità della loro accettazione del principio della pacifica alternanza al potere, il loro livello di tolleranza sociale e di rispetto per le minoranze. Alcuni temono poi la nebulosità dei loro programmi in materia economica e di politica internazionale.
Se alcuni di questi dubbi e timori sono certamente legittimi, va però sottolineato che gli interrogativi posti non sono necessariamente limitati ai movimenti islamici ed alla loro ascesa politica, ma si estendono più in generale a gran parte delle forze e delle dinamiche politiche di una regione che sta a fatica emergendo da un passato di dittatura e di oppressione.
Come hanno osservato numerosi commentatori arabi, l’affermazione politica dei partiti e delle correnti di ispirazione islamica non è affatto un elemento inaspettato o imprevedibile della tumultuosa trasformazione politica attualmente in atto nella regione.
I movimenti islamici hanno giocato un ruolo di primo piano nella politica araba fin dai primi decenni del secolo scorso. Sebbene siano stati principalmente dei movimenti di opposizione (essenzialmente perché i regimi al potere hanno impedito loro di prendere parte alla gestione del governo), essi hanno interagito a più riprese con le forze laiche e nazionaliste arabe.
Spesso tali movimenti sono stati vittime di persecuzioni e repressioni, come negli anni successivi alla rivoluzione degli “ufficiali liberi” in Egitto, o dopo l’affermazione elettorale del Fronte Islamico di Salvezza in Algeria, o a seguito della lotta per il potere con il regime di Hafez al-Assad in Siria.
Per decenni gli attivisti islamici sono stati imprigionati, torturati e uccisi. Negli anni successivi all’11 settembre i regimi arabi hanno approfittato della “guerra al terrore” per reprimere indiscriminatamente le correnti islamiche, anche quelle di ispirazione più democratica.
Più in generale, le attuali elezioni nei paesi arabi si svolgono dopo decenni di fallimenti dello Stato-nazione arabo, essenzialmente manifestatosi nella forma di regimi dittatoriali, repubblicani o monarchici, emersi direttamente dall’epoca coloniale e mai pienamente emancipatisi dall’egemonia delle ex potenze coloniali.
Questi regimi sono stati dominati da forze laiche o nazionaliste che si sono dimostrate tutt’altro che democratiche, e la cui eredità rappresenta un pesante fardello per le attuali forze laiche e liberali dei paesi arabi, le quali a loro volta devono tuttora dimostrare di essere realmente devote ai principi democratici e di essere pronte ad anteporre tali principi al loro antagonismo nei confronti delle forze di islamiche.
Queste ultime, dal canto loro, spesso hanno compiuto un’analisi abbastanza superficiale dei regimi che hanno governato nei passati decenni, attribuendo in maniera semplicistica il loro fallimento al fatto che non hanno governato “in base ai principi dell’Islam”. Di fronte a questa conclusione sbrigativa, i movimenti islamici hanno tradizionalmente adottato uno slogan altrettanto superficiale secondo cui “l’Islam è la soluzione”.
I loro detrattori affermano, non senza qualche ragione, che dietro questo nebuloso slogan non vi sia alcuna strategia politica chiara e nessun programma economico definito. In altre parole, di fronte all’oppressione dei regimi ed all’aggressione occidentale, i movimenti islamici avrebbero adottato un discorso religioso e identitario che spesso ha assunto caratteristiche dominanti a scapito del dibattito interno sulla giustizia sociale, sullo sviluppo economico e sulle libertà politiche.
L’affermazione elettorale di questi partiti rappresenta dunque una grande sfida, in primo luogo per la loro stessa evoluzione politica. Di fronte al difficile compito di prendere parte attiva al processo decisionale, questi partiti dovranno definire meglio programmi e strategie riguardo a temi come il lavoro, la povertà, la disoccupazione e l’emarginazione giovanile.
Tali sfide potrebbero però contribuire a far evolvere positivamente queste formazioni politiche, spingendole a mettere in secondo piano le loro concezioni puramente ideologiche in favore di un approccio più concreto ed improntato alla risoluzione di problemi pratici.
Va detto che segnali incoraggianti in questo senso esistono per alcuni di questi movimenti. Ad esempio, il partito Nahda in Tunisia si è evoluto verso posizioni di tolleranza e di crescente apertura nei confronti dei partiti laici e di sinistra del panorama politico tunisino. Esso ha dichiarato di voler rispettare i principi di laicità introdotti dal precedente regime, che in particolare garantiscono i diritti e la partecipazione delle donne.
Sia il Nahda tunisino che il PJD marocchino hanno mostrato un approccio pragmatico all’indomani delle elezioni, affermando di voler rispettare le libertà personali e di non essere intenzionati a intromettersi nella vita privata dei cittadini, ponendo invece al primo posto la battaglia per la giustizia sociale e per garantire una vita dignitosa a tutte le fasce della popolazione.
Secondo il giornalista palestinese Abdel Bari Atwan, il prevedibile successo di questi partiti è dovuto al fatto che l’elettore arabo medio è un musulmano moderato che ripone la propria fiducia nei partiti islamici avendo lungamente sofferto della corruzione e dell’oppressione di regimi laici dittatoriali che hanno saccheggiato le risorse e le finanze dei loro paesi.
I PARTITI ISLAMICI E L’ECONOMIA DI MERCATO
Dal punto di vista economico, tuttavia, non si prevede che l’ascesa di partiti come il Nahda, il PJD, e lo stesso partito “Libertà e Giustizia” dei Fratelli Musulmani egiziani, cambierà molto l’attuale scenario – se si esclude una maggiore attenzione alle classi più svantaggiate, dettata dai principi musulmani della carità e della solidarietà.
Sia il Nahda che il PJD hanno chiaramente affermato di rifarsi all’esperienza del partito “Giustizia e Sviluppo” (AKP) guidato da Recep Tayyip Erdogan in Turchia, un partito notoriamente conservatore dal punto di vista sociale, ma devoto al principio della laicità dello Stato, e soprattutto votato all’economia di mercato – la Turchia capitalista, pur nell’attuale fase di crisi economica a livello globale, rimane tra i paesi con il più alto tasso di crescita del PIL in Europa (esso dovrebbe attestarsi intorno al 5,5% nel 2011 dopo aver sfiorato il 9% nel 2010).
Naturalmente il successo economico della Turchia risale a ragioni storiche che vanno al di là dell’approccio economico dell’AKP (sebbene il boom economico turco fu conseguenza proprio dell’arrivo al potere di questo partito nel 2002), ed è questo il motivo per cui l’esperienza turca è difficilmente riproducibile nei paesi arabi.
Tuttavia il fatto che il Nahda e il PJD si rifacciano al modello turco è indicativo dei loro orientamenti, non solo a livello sociale, ma anche sotto il profilo economico. I leader del Nahda hanno più volte ribadito di essere favorevoli al libero mercato, sebbene temperato dall’ingrediente della solidarietà sociale. Per quanto riguarda il PJD, va invece sottolineato che le principali scelte economiche, al pari di quelle politiche, rimangono nelle mani del re.
Quanto ai Fratelli Musulmani egiziani, la loro accettazione di politiche di orientamento liberista probabilmente si spinge ben oltre quella del Nahda e del PJD. Alla testa del movimento islamico egiziano vi sono uomini d’affari del calibro di Khairat El-Shater e Hassan Malek, che – come ha scritto il settimanale egiziano al-Ahram Weekly – sostengono un approccio che alcuni definirebbero “fideistico” all’iniziativa privata, al mercato finanziario ed al pieno coinvolgimento nell’economia globale.
Hassan Malek ha recentemente dichiarato che le politiche liberiste adottate dal passato regime di Mubarak erano appropriate, ed hanno fallito solo a causa della corruzione e del clientelismo. Egli ha detto di condividere le scelte economiche dell’ultimo ministro del commercio e dell’industria del passato regime in materia di liberalizzazione del settore industriale e di misure volte ad attrarre gli investimenti esteri.
L’ascesa dei partiti islamici potrebbe poi favorire un’espansione del settore della finanza islamica – improntato ad un approccio più “etico” e solidale nell’erogazione dei prestiti e nella condivisione dei rischi rispetto al sistema bancario tradizionale – ma nulla indica che ciò andrà a scapito di quest’ultimo.
E’ poi opinione diffusa che l’ascesa al governo di partiti islamici potrebbe contribuire a rafforzare i legami commerciali e finanziari di questi paesi con i ricchi Stati arabi del Golfo e con altri paesi islamici.
Infine, molti temono che l’affermazione di tali partiti possa influenzare il settore del turismo, attraverso l’imposizione di norme più rigide in materia di abbigliamento e di comportamenti; ma anche in questo caso alcuni leader del Nahda hanno rivelato un approccio assolutamente pragmatico affermando di non essere intenzionati a proibire il bikini o le spiagge promiscue.
Più rigido potrebbe invece rivelarsi l’atteggiamento del partito “Libertà e Giustizia”, i cui esponenti si sono detti intenzionati a mettere al bando il bikini e il consumo di bevande alcoliche.
IL PRINCIPIO DELLO STATO CIVILE ISLAMICO
Se un partito come il Nahda sembra in buona parte intenzionato a seguire il modello turco anche riguardo ai principi che sanciscono la laicità dello Stato, altre formazioni politiche islamiche sono invece molto restie ad adottare uno Stato laico sulla falsariga di quello occidentale.
L’appello rivolto dal primo ministro turco Erdogan, nel corso di una sua recente visita in Egitto, affinché i paesi arabi adottino il modello dello Stato laico, è stato accolto con freddezza, se non addirittura con delusione, dai Fratelli Musulmani egiziani.
Rispetto a questo modello, essi hanno mostrato di preferire quello del cosiddetto “Stato civile islamico”.
Nel pensiero politico islamico, lo Stato civile si differenzia dallo Stato religioso per il fatto che coloro che lo governano non pretendono di essere intermediari della volontà divina sulla terra. Inoltre lo Stato civile non è governato da un clero né da dotti religiosi, ma da governanti eletti dal popolo. Infine l’appartenenza allo Stato non è basata sull’appartenenza religiosa.
Uno Stato civile, tuttavia, può avere differenti ideologie di riferimento: ad esempio può basarsi su un’ideologia laica socialista, comunista o capitalista; oppure può fare riferimento a un’ideologia fondata sui principi dell’Islam. In quest’ultimo caso va sotto il nome di Stato civile islamico.
Secondo il pensatore islamico egiziano Muhammad Salim al-‘Awwa, i valori islamici a cui si deve ispirare uno Stato civile islamico sono: 1) al-shura (il principio di consultazione, sulla base del quale, fra l’altro, esiste l’equivalente del nostro parlamento, il majlis al-shura), 2) al-‘adl (la giustizia), 3) al-hurriyya (la libertà), 4) al-musawah (l’uguaglianza), 5) musa’alat al-hukkam wa ta’atihim (il principio di responsabilità dei governanti e la loro obbedienza allo Stato).
Lo stesso Yusuf al-Qaradawi, uno dei dotti islamici più influenti ed ascoltati, afferma che lo Stato civile islamico “non è uno Stato religioso né uno Stato teocratico che governa il popolo sulla base di una legge divina”.
Lo Stato civile islamico, dunque accetta il modello del moderno Stato nazionale, con un proprio territorio ed un concetto di cittadinanza slegato dall’appartenenza religiosa, purché tale modello si richiami ai summenzionati valori islamici.
E’ a questo modello che si ispirano i Fratelli Musulmani egiziani, pur con diverse sfumature al loro interno. Tale modello è tuttavia visto con sospetto dalle correnti laiche, sebbene molti tra le loro file non si oppongano a un generico riferimento alla sharia (la legge islamica) all’interno della Costituzione, intesa come fonte del diritto (questo riferimento è presente nella Costituzione attuale).
Il timore che le correnti laiche nutrono nei confronti dei Fratelli Musulmani sta più che altro nell’eventualità che essi, qualora giungano al potere, possano limitare le libertà individuali sulla base di una visione conservatrice della società.
Vi sono poi i cristiani della minoranza copta che temono che all’interno di uno Stato islamico, sebbene “civile” e non teocratico, essi rimarrebbero dei cittadini discriminati.
Del resto, perfino alcune correnti islamiche egiziane, come il partito Wasat o quella del candidato presidenziale Abdel Moneim Aboul Fotouh (entrambe fuoriuscite dal movimento dei Fratelli Musulmani), si rifanno apertamente all’idea di uno Stato laico basato su principi liberali.
LO SPAURACCHIO DEI SALAFITI EGIZIANI
A complicare notevolmente le cose in Egitto è giunto l’inaspettato successo dei salafiti nella prima tornata elettorale. Essi hanno ottenuto circa il 25% dei voti piazzandosi al secondo posto dietro i Fratelli Musulmani.
Se questi risultati dovessero essere confermati nelle prossime consultazioni elettorali, un’eventuale coalizione tra i Fratelli Musulmani e i salafiti nel futuro parlamento avrebbe più del 60% dei voti – uno scenario che terrorizza i laici e i cristiani egiziani, così come molti in Occidente, sebbene al momento non appaia fra i più probabili.
I salafiti, infatti, hanno concezioni molto più intransigenti rispetto ai Fratelli Musulmani. Se, ad esempio, i Fratelli Musulmani intendono promuovere i valori della famiglia e valorizzare i ruoli tradizionali della donna, ma prevedono anche che le donne abbiano un ruolo attivo in politica, i salafiti sono invece per la segregazione dei sessi e l’adozione di un rigido codice di abbigliamento. Sebbene abbiano dovuto candidare delle donne perché la legge glielo imponeva, hanno sostituito le loro foto elettorali con immagini di fiori o con le foto dei loro mariti.
I salafiti prediligono una lettura letterale delle sacre scritture dell’Islam, il che rende il loro pensiero fondamentalista e dogmatico; in alcuni casi essi adottano la pratica del “takfir”, ovvero della “scomunica” di altri musulmani quando non si conformano ai principi del “vero Islam” inteso secondo l’interpretazione salafita.
Se i Fratelli Musulmani chiedono l’introduzione di uno Stato civile ispirato ai principi generali della sharia, i salafiti chiedono invece l’applicazione letterale della legge islamica comprese le pene corporali, ed appoggiano l’idea che i dotti religiosi abbiano un potere di supervisione sull’attività del parlamento.
L’idea dei salafiti (fondata sul principio della hakimiyyah, la supremazia della legge divina su quella umana) si avvicina dunque molto a quello Stato teocratico che è in opposizione al concetto di Stato civile islamico generalmente appoggiato dai Fratelli Musulmani.
I salafiti, dunque, rappresentano una sfida per gli stessi Fratelli Musulmani, e la rivalità emersa fra i due gruppi nel ballottaggio della prima tornata elettorale lascia intendere che essi si trovino più che altro su posizioni antagoniste.
Tuttavia, il fatto che i Fratelli Musulmani si vedano “scavalcati” dai salafiti sul fronte del “fervore islamico” non va sottovalutato, poiché rischia di sottrarre voti al partito “Libertà e Giustizia” che fa capo alla Fratellanza. Ciò a sua volta potrebbe spingere i Fratelli Musulmani su posizioni più intransigenti, nel tentativo di combattere i salafiti sul loro terreno.
Inoltre qualora dovesse inasprirsi il confronto tra i Fratelli Musulmani e il fronte laico, o lo scontro per il potere con l’esercito, essi potrebbero essere tentati di cercare un’alleanza “islamica” per soverchiare questi avvversari – un’eventualità che a livello teorico non può essere esclusa, tanto più se si pensa che i partiti salafiti inizialmente facevano parte della coalizione elettorale guidata dal partito “Libertà e Giustizia”, dalla quale sono poi usciti.
Un’alleanza del genere (che al momento appare remota) non lascerebbe di certo ben sperare per l’evoluzione democratica dell’Egitto, perché significherebbe da un lato un inasprimento delle posizioni islamiche, e dall’altro uno scontro con le correnti laiche, e una probabile esplosione delle tensioni confessionali con i cristiani.
IL RUOLO DEI PAESI DEL GOLFO
Ci si potrebbe chiedere quale sia l’origine dell’inaspettato successo dei partiti salafiti in Egitto, visto che la corrente salafita è stata tradizionalmente molto minoritaria nel paese, e addirittura non appartiene alla storia culturale egiziana.
A questo proposito, bisogna qui chiarire che si sta parlando del salafismo di marca wahhabita (essendo il wahhabismo una corrente rigorista affermatasi nella penisola araba nel XVIII secolo e poi divenuta l’ideologia ufficiale dello Stato saudita), poiché il salafismo nella sua accezione più ampia comprende correnti fra loro molto differenti, fra cui anche i movimenti riformatori e modernisti del XIX secolo.
I primi episodi di “wahhabizzazione” dell’Islam egiziano si ebbero quando alcuni Fratelli Musulmani egiziani subirono l’influenza del wahhabismo, allorché si rifugiarono in Arabia Saudita negli anni ’50 per sfuggire alle persecuzioni di Nasser.
Successivamente, a partire dagli anni ’70, il wahhabismo si espanse al di fuori dei confini del regno saudita grazie soprattutto agli ingenti finanziamenti del governo di Riyadh. Negli anni ’80 esso influenzò in Egitto gruppi violenti come al-Gama’a al-Islamiyya.
Il salafismo wahhabita, però, sebbene estremista nelle concezioni, è generalmente nonviolento, e addirittura spesso ha predicato il disinteresse dalla politica sconsigliando la partecipazione alla vita pubblica. Proprio per questa ragione Mubarak ne incoraggiò la diffusione, affinché costituisse un contrappeso ai Fratelli Musulmani, politicamente attivi e nemici del regime.
L’ex presidente egiziano concesse diverse licenze per la creazione di canali satellitari ai gruppi salafiti, negandole invece ai Fratelli Musulmani. In un paese con un alto tasso di analfabetismo, questi canali televisivi, spesso finanziati con denaro proveniente dai paesi del Golfo, ed in particolare dall’Arabia Saudita, hanno rappresentato un potente mezzo di propaganda per il salafismo wahhabita, permettendogli di influenzare il pensiero religioso e politico dell’Egitto.
Quando a gennaio scoppiò la rivoluzione, i salafiti inizialmente vi si opposero, in accordo con il loro tradizionale approccio che scoraggia la partecipazione politica attiva e l’ingerenza nelle attività di governo.
Tuttavia, in pochi mesi le cose sono enormemente cambiate, dimostrando quanto facilmente il carattere apolitico di questi movimenti possa trasformarsi in un dinamismo politico di forza insospettata (un tragico precedente in questo senso è dato dall’attivismo – violento, oltre che politico – del salafismo jihadista di al-Qaeda).
Dotti religiosi wahhabiti hanno emesso pareri religiosi (fatwa) che affermano che la partecipazione politica in questa fase è un obbligo religioso, al fine di implementare la sharia.
Le fasce più povere e meno istruite della popolazione egiziana sono facile preda di questa propaganda salafita dai toni spesso accesi (in cui non sono infrequenti affermazioni del tipo: “coloro che si oppongono all’applicazione della sharia sono adulteri e ladri”, o “se neghiamo questo dovere [della partecipazione politica finalizzata all’applicazione della sharia], ne renderemo conto davanti a Dio nel giorno del giudizio”).
Molti in Egitto accusano i partiti salafiti di ricevere finanziamenti dagli Stati del Golfo, ed in primo luogo da Riyadh. Sebbene non esistano prove a sostegno di un coinvolgimento di tali paesi a livello delle politiche di Stato, è abbastanza probabile che istituzioni “caritatevoli” e “filantropiche” del Golfo finanzino questi partiti così come finanziano i canali satellitari.
IL DINAMISMO ISLAMICO DEL QATAR
In generale, al di là del ruolo saudita a sostegno di alcuni gruppi come i salafiti egiziani, è certamente il piccolo Stato del Qatar ad aver giocato una parte di primo piano nella promozione dei movimenti islamici nel quadro delle rivoluzioni della cosiddetta “Primavera Araba”.
L’emittente Al-Jazeera ha svolto un ruolo essenziale nel diffondere le notizie delle rivolte in paesi come l’Egitto, la Libia e la Siria. Doha ha ospitato leader islamici come Yusuf al-Qaradawi, il religioso libico Ali al-Salabi, e il capo dell’ufficio politico di Hamas Khaled Meshaal.
Il Qatar ha finanziato e addestrato le milizie islamiche che hanno combattuto contro Gheddafi in Libia, e sostiene l’opposizione che in Siria si è sollevata contro il regime di Assad. Finanziamenti qatarioti sarebbero giunti anche a gruppi islamici in Egitto in occasione della recente campagna elettorale.
Sebbene non sia da escludere, non è tuttavia certo che tali finanziamenti siano giunti anche ai partiti salafiti. Secondo alcuni, l’appoggio dato dal Qatar ai movimenti islamici sarebbe più “pragmatico” rispetto a quello saudita, ritenuto più “ideologico”.
Il Qatar promuove un’ideologia che è un misto di panarabismo e islamismo, il cui fine ultimo è in ogni caso la proiezione dell’influenza del piccolo emirato nel mondo arabo.
Il potere finanziario di questo piccolo paese e di altri Stati del Golfo appare dunque legato a doppio filo con l’ascesa di molti movimenti islamici nella regione araba.
LE PAURE DI ISRAELE E LE INCOGNITE REGIONALI
L’affermazione dei partiti islamici apre infine nuove incognite a livello degli equilibri regionali, ed in particolare ha suscitato le paure di Tel Aviv.
Gli israeliani guardano con preoccupazione soprattutto all’Egitto. Sebbene diversi commentatori riconoscano che i Fratelli Musulmani “non sono un gruppo di religiosi fanatici pronti a dichiarare una guerra totale contro l’Occidente o ad abrogare il trattato di pace con Israele”, la prospettiva che lo Stato ebraico si trovi circondato da paesi in cui i partiti islamici sono una componente essenziale dei governi fa paura.
In un articolo intitolato “I risultati elettorali della Primavera Araba: ha vinto Allah”, un commentatore come Ari Shavit, non certo classificabile tra quelli più intransigenti, ha scritto che “la decisione di Obama di pugnalare alla schiena Hosni Mubarak ha dato un risultato, quello di far uscire il ‘genio’ della religione dalla ‘lampada’ mediorientale. Sotto gli auspici dell’Occidente in declino”, prosegue Shavit, “Allah sta tornando, Allah governa”.
Tuttavia Shavit ammonisce che “Allah non è solo. Il potente Dio di Israele sta anch’egli facendo ritorno”, sotto forma di “un’ondata senza precedenti di razzismo contro gli arabi, di odio nei confronti dei laici e di oppressione nei confronti delle donne”, la quale minaccia di trasformare lo Stato ebraico in un “tetro e sinistro Israele”.
Shavit sembra dunque prefigurare un tragico scontro tra fondamentalismi in Medio Oriente.
Naturalmente un punto di vista israeliano non è certo il più imparziale o generoso giudizio che si possa prendere in considerazione riguardo ai movimenti islamici, ed anzi si può dire che esso è per molti versi sbagliato, come dimostra quanto scritto sopra.
Tuttavia, alla luce dell’estremismo che certamente domina l’attuale governo israeliano, e alla luce delle enormi tensioni politiche che le rivoluzioni arabe hanno risvegliato nella regione rinfocolando altri estremismi di natura settaria, in particolare fra l’Arabia Saudita baluardo del sunnismo e l’Iran sciita, un simile scenario drammatico non è da escludere, soprattutto se dovesse esplodere la bomba della guerra civile siriana.
Una possibilità del genere appare tanto più preoccupante se dovesse affermarsi una lettura che sta prendendo piede presso un numero crescente di commentatori mediorientali, secondo cui le attuali rivoluzioni nel mondo arabo segnano la crisi dei regimi del nazionalismo arabo, che potenze regionali ed occidentali starebbero cercando di rimpiazzare con regimi islamici sunniti, appoggiati da un lato dalla Turchia neo-ottomana e dall’altro da paesi del Golfo come il Qatar e l’Arabia Saudita, affinché si oppongano all’Iran sciita.

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