HAMAS NELL’ERA DELLE RIVOLUZIONI ARABE


L’ondata di rivoluzioni arabe che dalla Tunisia si sono estese all’Egitto e poi ad altri paesi arabi, arrivando a far vacillare paurosamente il regime siriano, ha modificato radicalmente il panorama politico arabo, e con esso la situazione geopolitica di Hamas, il movimento islamico palestinese che dal 2007 governa a Gaza.
Le rivolte hanno dato maggior voce all’opinione pubblica araba ed hanno portato all’ascesa dei partiti islamici, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Libia al Marocco. Ciò ha senza dubbio dato respiro alla questione palestinese in un momento di totale stallo del processo di pace, per due ragioni: innanzitutto perché essa è considerata nel mondo arabo come una questione di giustizia e di libertà, e in quanto tale del tutto omogenea alle rivendicazioni avanzate dalle proteste popolari contro i regimi arabi tirannici e corrotti; in secondo luogo, perché i movimenti islamici hanno tradizionalmente ritenuto il sostegno alla lotta di liberazione del popolo palestinese come un punto fermo del loro programma politico.
La caduta di Mubarak ha considerevolmente alleviato l’assedio mortale alla Striscia di Gaza, in quanto il nuovo regime militare insediatosi in Egitto ha ritenuto utile per la propria immagine mostrarsi più misericordioso nei confronti degli abitanti dell’énclave palestinese di quanto non fosse stato l’ex presidente egiziano, il quale aveva pienamente collaborato con Israele e con gli Stati Uniti.
Ciò non significa affatto che i palestinesi di Gaza possano uscire ed entrare liberamente dalla Striscia, o che l’emergenza di Gaza sia finita; ma, perlomeno, un maggior quantitativo di merci entra in questo esile lembo di terra, in quanto la stessa Tel Aviv ha ritenuto inutile mantenere la pressione ai livelli soffocanti degli anni passati. Il contrabbando attraverso i tunnel che collegano la Striscia all’Egitto ha perfino permesso l’avvio di qualche forma di ricostruzione, a tre anni dal devastante attacco israeliano che provocò la morte di oltre 1.400 palestinesi e la distruzione di migliaia di abitazioni.
Ma, soprattutto, si è allentato l’isolamento politico di Hamas nel mondo arabo: il movimento islamico palestinese ha avviato nuovi e più amichevoli contatti con la giunta militare in Egitto, ma anche con il nuovo esecutivo giordano recentemente insediatosi ad Amman. Questo è stato possibile perché i regimi arabi, nuovi o vecchi che siano, hanno a loro volta bisogno di mantenere buoni rapporti con l’opinione pubblica interna, ed in particolar modo con le influenti correnti islamiche.
Sul fronte siriano, la brutale repressione portata avanti dal regime di Damasco ai danni della propria popolazione ha invece rappresentato un grosso inconveniente per i vertici di Hamas. Ospitati dal regime ormai da oltre un decennio, dopo che nel 1999 erano stati espulsi dalla Giordania, tali vertici hanno trovato crescenti difficoltà a sostenere le crudeli tattiche degli apparati di sicurezza siriani contro la popolazione e le sue legittime rivendicazioni, tanto più che nel mondo arabo diverse branche dei Fratelli Musulmani (il movimento a cui Hamas si richiama da un punto di vista ideologico) si sono apertamente schierate con la protesta popolare.
Sebbene ufficialmente la leadership del gruppo palestinese affermi di essere tuttora in buoni rapporti con il presidente siriano Assad e di non avere intenzione di lasciare Damasco, decine di membri di basso e medio livello hanno già abbandonato la Siria con le loro famiglie, seguiti da un numero crescente di dirigenti di alto livello (confermando come, rispetto al regime siriano, la posizione di Hamas stia divergendo da quella dell’altro grande “movimento di resistenza” arabo, Hezbollah, il quale per ragioni proprie continua invece a sostenere Damasco).
Per Hamas si prospetta dunque il problema di trovare ospitalità in un altro paese arabo, o forse in diversi paesi.
Infine, la generalizzata pressione popolare nel mondo arabo a favore di governi più giusti e democratici, e contro la corruzione ed il malgoverno, si è tradotta in Palestina in una forte spinta dal basso verso una riconciliazione tra Fatah e Hamas, nella speranza che un ricompattamento del panorama politico palestinese e l’eventuale nascita di un governo di unità nazionale potessero dar vita a forme più efficaci di amministrazione e di lotta contro l’occupazione israeliana.
Dal canto suo Fatah, di fronte all’evidenza dello stallo del processo negoziale e del parziale fallimento della sua campagna per ottenere un riconoscimento palestinese all’ONU, aveva bisogno a sua volta di mettere a punto nuove strategie per ritrovare un minimo di credibilità e di legittimazione agli occhi del popolo palestinese.
IL NUOVO CORSO PALESTINESE
Tutti questi fattori hanno determinato un “nuovo corso” palestinese, che ha gradualmente preso forma nei mesi scorsi ed è sfociato alla fine di dicembre in un accordo per la ristrutturazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), al fine di permettere ad Hamas e ad altri gruppi palestinesi attualmente esclusi di diventarne membri.
E’ stata perciò costituita una commissione allo scopo di discutere i “modi” della ristrutturazione dell’OLP. Di tale commissione fanno parte per la prima volta Hamas, la Jihad Islamica ed altri gruppi non membri dell’OLP.
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha anche emesso un decreto presidenziale per l’insediamento di una nuova Commissione elettorale palestinese che avrà il compito di organizzare le elezioni presidenziali e legislative in Cisgiordania e a Gaza. E’ stata anche fissata una possibile data per le elezioni: il 4 maggio 2012 (anche se è ancora del tutto prematuro affermare che le consultazioni si terranno effettivamente entro quella data).
In occasione dei recenti colloqui tenutisi al Cairo fra Mahmoud Abbas e il capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal, quest’ultimo ha anche annunciato che a partire da questo momento il movimento islamico palestinese si concentrerà sulla “resistenza popolare” – ovvero sulle manifestazioni popolari come strumento di lotta – piuttosto che sulla resistenza armata, ribadendo anche che Hamas accetta la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, con capitale Gerusalemme Est.
Lo spostamento dell’attenzione verso la “resistenza popolare”, e il conseguente allontanamento dalla lotta armata, segnano certamente un cambiamento importante da parte di Hamas. Tale cambiamento è anch’esso frutto di un accordo con Abbas – accordo che prevede fra l’altro un cessate il fuoco con Israele sia in Cisgiordania che a Gaza.
Sebbene alcuni analisti sostengano che la decisione annunciata da Meshaal costituirebbe un semplice cambiamento “tattico” da parte di Hamas, piuttosto che un mutamento dei suoi obiettivi strategici, e sebbene lo stesso Meshaal abbia sottolineato che il movimento non intende certo disarmarsi, non è escluso che la nuova linea pragmatica di Hamas possa tradursi in una scelta strategica sul medio e lungo periodo. Molto tuttavia dipenderà dall’evoluzione della situazione regionale.
L’attuale svolta pragmatica di Hamas è infatti in buona parte il risultato della sua mutata situazione geopolitica.
LA MUTATA SITUAZIONE GEOPOLITICA DI HAMAS
Posto di fronte alla necessità di trovare ospitalità presso altri paesi arabi a causa dell’aggravarsi della crisi siriana, il movimento ha dovuto adottare una linea più flessibile, anche per non alienarsi i regimi che potrebbero accogliere i suoi leader. Khaled Meshaal, ad esempio, potrebbe finire ospite del Qatar, anche se alcune voci nei mesi scorsi avevano lasciato intendere che egli avrebbe potuto trovare accoglienza in Egitto. Altri paesi, fra cui lo stesso Egitto, il Libano, la Turchia, e forse la Giordania e la Tunisia (che ospitò Arafat negli anni ’80), potrebbero dare asilo ad altri leader del gruppo. Alcuni esponenti, poi, stanno facendo ritorno nella Striscia di Gaza.
Ma né l’Egitto né la Giordania, tanto per fare un esempio, accetteranno di ospitare i leader di un’organizzazione votata alla “resistenza armata”, diventando di fatto retrovie di attacchi armati contro Israele (giacché l’ascesa dei partiti islamici nei paesi che sono stati investiti dalle rivoluzioni, e nei paesi arabi in generale, non significa affatto che tali paesi siano pronti a scendere in guerra con Tel Aviv).
L’abbandono del territorio siriano da parte di Hamas, inoltre, rischia di determinare una crisi non solo nei suoi rapporti con il vacillante regime di Damasco, ma anche con il potente alleato di quest’ultimo – l’Iran – il quale aveva sostenuto Hamas in maniera sempre più decisa dopo che il sanguinoso divorzio con Fatah aveva portato, oltre che all’assedio di Gaza da parte di Israele (con l’aiuto dell’Egitto di Mubarak), ad un più generale isolamento del movimento islamico palestinese nel mondo arabo.
Secondo alcune fonti, Teheran avrebbe già sospeso i propri finanziamenti ad Hamas in conseguenza della sua prospettata partenza dalla Siria.
Tuttavia, come già accennato, non è stato solo l’emergere di queste “difficoltà” ad aver determinato l’evoluzione pragmatica e la maggiore flessibilità di Hamas, ma anche il profilarsi di nuove opportunità.
Le elezioni che hanno portato all’affermazione dei partiti islamici in Tunisia, Egitto e Marocco hanno rappresentato un’iniezione di ottimismo per il movimento, il quale appare più fiducioso di potersi integrare in un panorama politico islamico in ascesa nel mondo arabo.
La scorsa settimana il primo ministro del governo Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, ha lasciato la Striscia per la prima volta dal 2007 (quando il gruppo prese il potere nella piccola énclave), per compiere un viaggio che lo avrebbe portato non solo in diversi paesi arabi (Egitto, Sudan, Qatar, Bahrein e Tunisia) ma anche in Turchia.
Come già detto, nessuno di questi Stati sarà certamente disposto a sostenere una lotta armata contro Israele, ma molti sarebbero probabilmente disponibili a sostenere la causa palestinese nella sua qualità di “questione politica”.
In altre parole, come ha scritto l’accademico Larbi Sadiki sul sito di al-Jazeera, il vantaggio maggiore che la Primavera Araba ha offerto ad Hamas è quello di fornire alla questione palestinese una profondità strategica ed “etica” nel mondo arabo, soprattutto nel contesto delle emergenti forze politiche islamiche presso le quali il movimento può trovare nuovi ascoltatori attenti alle sue istanze.
Quanto Israele tema questo scenario è confermato dai commenti di molti osservatori israeliani, i quali sostengono che quella che alcuni avevano ottimisticamente definito “Primavera Araba” avrebbe lasciato il passo a un “inverno islamico”.
Avendo preso coscienza delle nuove opportunità, alcuni esponenti di Hamas starebbero lavorando allo scopo di trasformare il conflitto con Israele da uno scontro di natura “bilaterale” incentrato su un duello militare asimmetrico (in cui le forze palestinesi che accettano questo tipo di scontro hanno inevitabilmente la peggio) in un confronto “multilaterale” di natura politica che veda Israele contrapposta a un ampio fronte arabo.
A tal fine è però necessario che Hamas si integri nel nascente ordine arabo, ritenuto più democratico ma al tempo stesso più islamico. Ciò implica, in particolare, che il movimento abbandoni la “resistenza armata” e si evolva in direzione di un movimento politico sulla falsariga dei Fratelli Musulmani, e che allo stesso tempo porti a termine il processo di riconciliazione con Fatah.
RITORNO DI HAMAS NELL’ALVEO ARABO?
Tutto ciò prefigurerebbe un possibile ritorno di Hamas nell’alveo arabo e un suo conseguente allontanamento dall’Iran.
La maggiore incognita in questa trasformazione sta tuttavia nel fatto che il nascente ordine arabo è tutt’altro che consolidato. La situazione della maggior parte dei paesi in cui si è assistito ad un crollo – o comunque ad un’evoluzione – dei vecchi regimi, ed in cui le elezioni hanno portato a un’ascesa delle forze islamiche, rimane tuttora instabile e incerta, con enormi sfide interne da affrontare che potrebbero far desistere i neonati governi da gravosi impegni in politica estera.
Un paese chiave come l’Egitto – da cui dipendono strettamente sia il destino di Hamas (a causa del suo legame con i Fratelli Musulmani egiziani, e della contiguità fra Gaza e il territorio egiziano) sia quello dell’intera questione palestinese (a causa dello storico ruolo di mediazione del Cairo nei colloqui di pace) – è impantanato in una transizione dagli esiti tutt’altro che scontati.
Inoltre la reintegrazione di Hamas nel mondo arabo è ostacolata dalla latente rivalità tra il Qatar e il regno saudita: il primo sta appoggiando con forza l’ascesa regionale dei Fratelli Musulmani (e dei partiti che ruotano nella loro orbita), mentre il secondo guarda con diffidenza a tale ascesa e non vede di buon occhio l’attivismo del Qatar.
Infine lo stesso processo di riconciliazione tra Hamas e Fatah non è affatto garantito. Sebbene fonti del movimento islamico palestinese affermino che Meshaal e Abbas avrebbero raggiunto un accordo anche per il rilascio dei prigionieri di Hamas e Fatah detenuti rispettivamente nelle prigioni della Cisgiordania e della Striscia, le forze di sicurezza affiliate a ciascun gruppo continuano ad arrestare membri appartenenti alla fazione rivale.
A ciò si aggiunga che un’escalation di violenza a Gaza è sempre possibile. Mentre nelle ultime settimane si sono intensificati i raid israeliani e i lanci di razzi diretti da Gaza in Israele, i vertici militari israeliani ripetono con crescente insistenza che una nuova operazione bellica in grande stile nella Striscia è inevitabile.
In realtà Hamas in questo momento non ha alcun interesse a creare le premesse per una simile operazione, ed anzi sta facendo di tutto per mantenere il controllo della Striscia e impedire il lancio dei razzi, ma si trova stretto fra l’incudine della sempre più potente e agguerrita Jihad Islamica e il martello delle sempre più provocatorie incursioni israeliane.
Anche alla luce di ciò si comprende la reazione a prima vista sorprendente della leadership di Hamas a Gaza (tradizionalmente più moderata dei dirigenti residenti a Damasco), la quale ha inaspettatamente criticato la svolta pragmatica annunciata da Khaled Meshaal.
Queste critiche non indicano che i leader di Gaza siano divenuti più intransigenti di quelli di Damasco, ma sono per l’appunto motivate da due semplici ragioni: la crescente competizione che Hamas sta subendo a Gaza da parte della Jihad Islamica, la quale con il suo atteggiamento bellicoso nei confronti di Israele sta sottraendo militanti al movimento, e l’irritazione per il fatto che Meshaal ha apparentemente preso la sua decisione senza consultare i dirigenti di Gaza (in accordo con la tradizionale tendenza dei leader residenti a Damasco a “scavalcare” la leadership nella Striscia, considerata in qualche modo subordinata poiché emersa solo all’indomani delle elezioni palestinesi del 2006).
In ogni caso, l’adozione di una forma di “resistenza popolare” e la riconciliazione interpalestinese rappresentano al momento l’unica via praticabile sia per Hamas che per Fatah; ma l’esito di questo processo dipenderà inevitabilmente dall’incerta evoluzione delle rivolte arabe e dalla tutt’altro che scontata sopravvivenza della fragile tregua in Palestina.

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