Saleh al-Naami :Israele: la profondità strategica araba nel mirino


Operare nel cuore dei paesi arabi sarà uno dei più importanti strumenti della mobilitazione militare e di intelligence israeliana finalizzata a contenere le ricadute delle rivoluzioni nel mondo arabo – scrive il giornalista e ricercatore palestinese Saleh al-Naami
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Tutti i segnali indicano che Israele non sia affatto disposta a lasciare che si realizzino le fosche previsioni formulate dai suoi vertici politici e militari riguardo ai possibili esiti delle rivoluzioni democratiche nel mondo arabo ed alle loro ricadute sulla sicurezza nazionale israeliana.
Tel Aviv ha già preso l’iniziativa per cercare di contenere i danni previsti tramite preparativi militari senza precedenti, rappresentati essenzialmente dall’introduzione di modifiche strutturali nell’esercito israeliano.
Forse l’elemento che riflette in maniera più evidente il tipo di preparativi militari che gli israeliani stanno approntando per la fase araba post-rivoluzionaria è la decisione dello stato maggiore israeliano, a metà dello scorso dicembre, di costituire un nuovo comando militare specificamente dedicato alla pianificazione ed esecuzione di operazioni militari all’interno degli Stati arabi. Il nuovo comando è stato denominato “Depth Command”, in riferimento alla natura delle missioni che gli saranno affidate nel cuore della profondità strategica araba.
L’esercito israeliano ha sempre avuto unità speciali per compiere missioni segrete all’interno dei paesi arabi, come avvenne in Siria alla fine del 2006, in Sudan ultimamente, e in Libano e in Tunisia in passato. Ma si trattava di compiere operazioni militari specifiche e localizzate.
Tuttavia la costituzione di un nuovo comando, e la nomina di un generale alla sua guida, sono la conseguenza della maturata convinzione, da parte dei vertici dell’esercito israeliano, che le sfide militari a cui dovrà far fronte Israele a seguito delle rivoluzioni arabe saranno talmente grandi e complesse da richiedere questo passo senza precedenti.
A testimoniare fino a che punto Israele scommetta sul nuovo “Depth Command” vi è la decisione dello stato maggiore di porre agli ordini di tale comando gli ufficiali e i soldati delle migliori unità d’élite dell’esercito.
Rischi in grande quantità
L’assunto principale su cui si basano i dispositivi di valutazione strategica in Israele è che la Primavera Araba porterà con sé abbondanti rischi per la sicurezza israeliana, che potrebbero trasformarsi nel tempo in vere e proprie minacce esistenziali.
I vertici militari israeliani temono che gli Stati che hanno registrato delle rivoluzioni democratiche al loro interno possano trasformarsi in basi di partenza per l’esecuzione di operazioni militari contro obiettivi israeliani fuori dai confini della Palestina.
Nel contesto di queste valutazioni, i ‘decision makers’ israeliani ritengono che sarà necessario prepararsi ad operare all’interno di paesi molto lontani dai confini della Palestina, come lo Yemen e l’Iraq.
Sebbene gli ambienti politici e militari israeliani non abbiano cercato di classificare l’insieme dei rischi presi in considerazione, senza dubbio lo Yemen è uno dei paesi che suscitano le maggiori preoccupazioni dei vertici decisionali in Israele.
E’ noto che circa il 30% del commercio israeliano passa attraverso il Mar Rosso, diretto verso il sudest asiatico, e che le navi e i sottomarini da guerra israeliani solcano le acque di questo mare nel corso delle loro esercitazioni militari. Perciò gli israeliani temono che gruppi armati possano partire dallo Yemen, che si affaccia sullo Stretto di Bab el-Mandeb, per prendere di mira le navi commerciali e militari israeliane. Dal punto di vista israeliano ciò rende necessario prepararsi ad agire contro qualunque attore cerchi di compiere operazioni del genere.
Ciò che vale per lo Yemen, vale anche per l’Egitto. E’ vero che sia la giunta militare sia i partiti egiziani, compresi i movimenti islamici che hanno vinto le elezioni, hanno inviato messaggi tranquillizzanti riguardo alla loro intenzione di rispettare il trattato di Camp David, ma i vertici decisionali israeliani partono dall’assunto che l’ascesa al potere degli islamici in Egitto determinerà un clima ostile a Israele nel paese.
A suscitare maggiormente la preoccupazione di Israele è forse l’evoluzione della situazione nel Sinai. Gli israeliani temono infatti che il Sinai possa trasformarsi in un punto di partenza di azioni militari contro lo Stato ebraico. Ciò significa che al nuovo comando israeliano verrà richiesto di compiere operazioni speciali all’interno del Sinai e altrove in Egitto.
L’ex capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale israeliano, Uzi Dayan, ha dichiarato che la possibilità di compiere operazioni militari nel Sinai non deve essere esclusa.
Ma ad urtare la suscettibilità degli israeliani è soprattutto l’evoluzione della situazione in Giordania, essendo opinione unanime in Israele che il contributo del regime giordano alla sicurezza dello Stato ebraico sia essenziale. Tale contributo si esplica garantendo la sicurezza del confine con la Palestina, che è il confine più lungo.
Vi sono però grossi dubbi all’interno di Israele sul futuro del regime giordano. I ‘decision makers’ israeliani operano sulla base dello “scenario peggiore”, che equivale al crollo del regime attuale o quantomeno alla sua trasformazione da monarchia assoluta in monarchia costituzionale.
Da ciò segue che gli israeliani si preparano a far fronte alle conseguenze di un eventuale crollo del regime giordano, ed alla possibile trasformazione della Giordania in una base di partenza di azioni di resistenza contro Israele. Questo significa che le unità speciali agli ordini del nuovo comando militare dovranno prepararsi ad operare in pieno territorio giordano.
Far fronte alle conseguenze del ritiro americano dall’Iraq
Gli esperti strategici in Israele hanno espresso grande preoccupazione per le conseguenze del ritiro americano dall’Iraq. Essi postulano che tale ritiro rafforzerà la determinazione di attori ostili a Israele – soprattutto l’Iran e i suoi agenti in Iraq – a prendere di mira lo Stato ebraico in un ambiente ideale.
La cosa che preoccupa maggiormente gli israeliani è che questo permetta agli iraniani di piazzare basi missilistiche in territorio iracheno – in particolare nella parte occidentale del paese – e di utilizzarle per colpire Israele qualora quest’ultima attaccasse le installazioni nucleari iraniane.
Perciò, fra i compiti del nuovo comando israeliano vi sarà quello di far fronte a questa minaccia qualora si realizzassero simili previsioni.
I vertici militari israeliani ipotizzano inoltre che il ritiro americano possa permettere di trasformare alcune regioni dell’Iraq in una base di partenza per gruppi sunniti che in futuro potrebbero agire contro Israele.
Allo stesso tempo, il nuovo comando israeliano giocherà un ruolo essenziale in qualunque campagna militare Israele dovesse lanciare contro le installazioni nucleari iraniane. Lo stato maggiore israeliano presuppone che nessuna campagna di incursioni lanciata dall’aeronautica militare israeliana sarà sufficiente, da sola, ad infliggere danni seri e profondi a tali installazioni. Vi sarà perciò bisogno di unità speciali che operino sul terreno perché la missione abbia successo. La presenza di tali unità sul territorio iraniano permetterà di ampliare lo spettro degli obiettivi raggiungibili.
Le implicazioni della fase successiva alla caduta di Assad in Siria
Gli ambienti strategici israeliani ritengono che la possibilità che il regime siriano sfugga al destino seguito dai regimi di Gheddafi, Mubarak e Ben Ali si stia riducendo, e dunque si stanno preparando a far fronte alle serie conseguenze che deriveranno dalla caduta di Assad.
In cima alle preoccupazioni di Israele vi è la consapevolezza che, qualunque regime prenda il posto di Assad, esso non sarà in grado – almeno in un primo momento – di impedire che le alture del Golan diventino un punto di partenza di azioni di resistenza contro Israele. I vertici di Tel Aviv sanno bene che questa trasformazione porterà con sé un mutamento radicale nel contesto strategico israeliano. Questo altopiano, infatti, domina su molti centri urbani e industriali ebraici nella Galilea e sulle rive del Mediterraneo.
Allo stesso tempo, il precipitare della situazione in Siria determinerebbe un deterioramento delle condizioni di sicurezza degli insediamenti ebraici sulle alture del Golan, i quali avevano goduto di una situazione di calma e di sicurezza nell’era del governo della famiglia Assad – un fatto confermato dal grande aumento del numero di ebrei che negli ultimi due decenni hanno espresso il desiderio di insediarsi sulle alture del Golan.
A complicare ulteriormente la situazione vi è il fatto che sarà impossibile per Israele, in particolare ricorrendo a operazioni militari tradizionali, avere un effetto deterrente nei confronti dei gruppi e dei movimenti che, secondo le previsioni israeliane, organizzeranno operazioni di resistenza dal territorio siriano.
Gli israeliani si rendono conto che rimpiangeranno i giorni in cui era al potere il regime di Assad. Tel Aviv era riuscita infatti ad accumulare un grande potere deterrente nei confronti di questo regime, che ormai ingoiava qualsiasi umiliazione proveniente da Israele senza nemmeno accennare ad una reazione.
Israele bombardò un reattore nucleare di ricerca nel nordest della Siria alla fine del 2006, e il Mossad liquidò diversi responsabili del programma nucleare siriano, e liquidò anche il comandante militare di Hezbollah Imad Mughniyeh, senza che il regime siriano accennasse a una sola reazione concreta (o perlomeno a livello mediatico).
Gli ambienti strategici israeliani ritengono che, perfino se il regime non dovesse cadere e la Siria entrasse invece in una fase di guerra civile, sviluppi di questo genere comporterebbero numerosi rischi poiché permetterebbero la costituzione di gruppi e di bande armate, che in un secondo momento potrebbero rivolgere le proprie armi contro Israele.
Da qui è emersa, agli occhi di Tel Aviv, la necessità di costituire un nuovo comando militare in grado di far fronte a queste minacce nel momento in cui dovessero realizzarsi. Allo stesso tempo, Israele ipotizza che il regime di Assad, allorché dovesse rendersi conto che i suoi giorni sono contati, cercherebbe di trasferire il suo arsenale di armi pesanti a Hezbollah, e ciò richiederebbe un intervento da parte di Israele per colpire i convogli per il trasporto degli armamenti, o per attaccare i depositi in cui tali armamenti sono stoccati.
Il tentativo di prosciugare le fonti di approvvigionamento di armi della resistenza palestinese
Dal dibattito israeliano sorto attorno alla costituzione del nuovo comando traspare che i vertici militari israeliani partono dal presupposto che le rivoluzioni arabe rafforzeranno la capacità della resistenza palestinese di entrare in possesso di armi che potrebbero alterare l’equilibrio esistente fra essa e Israele.
I vertici decisionali israeliani sono pressoché unanimi nel ritenere che le condizioni prevalenti in molti dei paesi arabi che hanno registrato rivoluzioni democratiche al loro interno faciliteranno l’afflusso di armi nella Striscia di Gaza. Questo perché i governi di tali paesi saranno – nel migliore dei casi – incapaci di controllare in maniera adeguata il proprio territorio e i propri confini. Ciò vale in particolare per la Libia e l’Egitto.
A complicare ulteriormente le cose per Israele vi è il fatto che essa deve far fronte al rompicapo del flusso di armi verso la Striscia di Gaza all’ombra di una riduzione del livello di cooperazione nel settore della sicurezza fra Tel Aviv e alcuni Stati della regione. Ciò a sua volta aumenterà la necessità di intensificare l’azione delle unità speciali all’interno di quei paesi da cui, o attraverso cui, avviene il traffico di armi.
Sebbene sia ormai praticamente assodato che Israele ha agito più volte contro il traffico di armi che passa per il Sudan, si può supporre che la missione di contrastare il flusso di armi verso la Striscia di Gaza si estenderà, e ciò significa che il nuovo comando militare avrà molto da fare a questo riguardo.
In breve, mettere nel mirino la profondità strategica araba e operare nel cuore dei paesi arabi sarà uno dei più importanti strumenti della mobilitazione israeliana finalizzata a contenere le conseguenze e le ricadute delle rivoluzioni democratiche nel mondo arabo.
Saleh al-Naami è un giornalista e ricercatore palestinese; è corrispondente dalla Palestina per diversi giornali arabi, tra cui il settimanale  egiziano al-Ahram Weekly
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)


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