Libano: in viaggio tra i 'disperati' di Bourj el-Barajneh


 I fili della corrente sono praticamente ad altezza d’uomo. Quando piove qui si scatena l’inferno. Alzo gli occhi al cielo. Oggi c’è il sole a Beirut, ma il tempo qui cambia molto velocemente. Muhammad, la nostra guida, ci conduce attraverso strade strettissime, che a volte ci impongono di camminare in fila indiana. Superiamo centinaia di case, più spesso baracche, e piccoli negozi le cui finestre sono decorate con immagini di Hassan Nasrallah, Yasser Arafat e anche di vari personaggi di Hamas. La guerra del 2006 è un ricordo vivo. Muhammad ci dice: non abbiamo combattuto è vero, ma eravamo pronti.  
testo e foto di Marco Di Donato (CISIP)

A primo impatto il campo di Bourj el-Barajneh, venti minuti e circa 20 dollari di taxi dalla lussuosadowntown voluta da Rafiq Hariri, sembra uno squallido insieme di case che si reggono ancora in piedi per chissà quale miracolo ingegneristico.
C’è un palazzo al confine fra l’area palestinese e quella occupata dai libanesi. Un palazzo praticamente distrutto per metà, ma la gente ci abita. Qui, a Bourj el-Barajneh, la miseria e la disperazione la respiri ogni istante.
Qualcuno si ferma a parlare con noi: “E’ meglio vivere sotto occupazione che rimanere nel campo”. Guardo il giovane ragazzo e mi dico, mi convinco, che non ho capito bene il suo arabo. Guardo Muhammad chiedendo una spiegazione con gli occhi. Nessuna risposta.
“Qui non abbiamo acqua potabile, le condizioni igieniche sono pessime. Possiamo fare la doccia solo con acqua salata fredda. Sembra di andare al mare". E il mare d’inverno non deve essere particolarmente piacevole.
Passiamo davanti a un piccolo caffè. Muhammad insiste per farci sedere: vuole offrirmi un thè. La televisione è accesa. Trasmette immagini della Moschea di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia. Il canale si chiama Ouda: il ritorno. Mi spiegano che trasmette dalla Giordania.
Inizio ad osservare meglio il campo. Scopro tanti graffiti e murales che rappresentano la Palestina e molti altri che hanno soggetti religiosi: la Ka’aba soprattutto.
Rifletto e mi dico che la religione deve ricoprire un ruolo importantissimo qui. Deve essere molto più potente di una semplice dose di oppio per risollevare gli animi di questa disperata popolazione.
A Bourj el-Barajneh capisci la resistenza. Non dico che la si debba condividere o giustificare o anche fornirle un valore positivo o negativo. La si comprende, nulla più.
Se ne comprendono le radici, le motivazioni, le ragioni. Molte volte in Occidente ci chiediamo come si possa sacrificare la propria vita. Poi entri nei campi, li vedi, li respiri e tutto cambia.
Qui, semplicemente, non c’è niente da perdere. Il tasso di disoccupazione fra i palestinesi in Libano è quasi a quota  70%. Ma non sono i dati economici, pur disastrosi, ad essere la realtà più sconcertante. Anche avendo un lavoro, una famiglia, una casa, la vita nel campo sarebbe comunque insopportabile.
Come Nahr el-Bared, che al confronto adesso mi sembra un campo di lusso, si tratta di una piccola prigione, i cui confini però sono invisibili. Non so se sia peggio o meno, e non credo sia importante stabilirlo: entrambe le situazioni sono disumanizzanti.
Che piaccia o meno, questa volta la colpa non è di Israele. O meglio, non solo di Israele.
I palestinesi certo sono qui in Libano a causa della Nakba e della Naksa e non possono tornare a casa perché Tel Aviv non riconosce il loro diritto al ritorno, perché sono senza documenti.
Poi però ti guardi intorno e ti chiedi quali siano le responsabilità arabe, e specificamente del Libano, nel mantenere una realtà tanto evidente quanto drammatica.
Bourj el-Barajneh è a non più di 15 minuti di taxi, traffico permettendo, da Gemmayzeh, Ashrafieh, dallo sfrenato lusso del centro città.
Lo stesso si può dire di Sabra e Chatila. Sono come ferite aperte e sanguinanti all’interno della città. E non sono nemmeno le uniche.
Bourj el-Barajneh è una delle tante espressioni di un paese, il Libano, che non ha fatto i conti con uno scomodo passato: quello della guerra civile.
I palestinesi sono ancora qui, come nel 1975. Aspettano di tornare e nel frattempo vivono in uno Stato che, nemmeno troppo velatamente, non li vuole. Sono causa di tensione nel dibattito politico e sono causa di tensione nella vita quotidiana della popolazione. Come nel 1975.
Dopo due ore nel campo ho bisogno di uscire, di prendere aria, di allontanarmi dalle claustrofobiche stradine per le quali abbiamo girato.
Saluto Muhammad il quale ricambia con un abbraccio. Lui si ferma alla soglia del campo, mi chiama un taxi, pattuisce il prezzo per me e mi guarda andar via.
Volendo potrebbe uscire, andare in centro, fare una passeggiata in riva al mare. Forse però, a volte, i confini invisibili, quelli che non vedi ma sai benissimo che esistono, sono anche più duri da superare di quelli fisici.
Muhammad preferisce rimanere lì, dinanzi ai graffiti dei suoi più giovani amici, a guardare la Moschea di Al-Aqsa sperando un giorno, che lui dice non essere lontano, di poter toccare il suo pavimento con la fronte e recitare le preghiere all’ombra delle sue colonne di marmo.

1 febbraio 2012

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