Palestina: la forza della non violenza


 il prossimo 18 febbraio nei Territori Palestinesi si celebrerà un anniversario denso di significati. Nel 2005, il villaggio di Bil’in iniziò ad essere teatro di una protesta popolare permanente. L’occupazione è violenza, sovente giustificata attraverso un uso “selettivo” della religione. Il movimento di Bil’in mirava ad esporla e a minarla attraverso una lotta partecipata all’insegna della non violenza. A distanza di sette anni ciò che sembrava un progetto velleitario è oggi una realtà ben presente.
 di Lorenzo Kamel da Ramallah
 Ampi settori della società palestinese hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti della sciagurata lotta armata che ha scandito la Seconda Intifada (2000-2005).
La violenza genera violenza, indipendentemente dalla validità o meno delle ragioni che la sottendono.
Anche per via di questa maturata consapevolezza sono nate negli ultimi anni decine di forme di resistenza non violenta. Come ogni potente movimento prodotto dalla storia, comporta un prezzo alto da pagare.
Il prezzo che quotidianamente pagano Ni’lin, Nabi Saleh e le altre decine di villaggi che hanno intrapreso lo stesso percorso.
Il prezzo che sta pagando Khader Adnan, il panettiere, detenuto dalle autorità israeliane in amministrazione detentiva (dunque senza alcun processo o accusa a suo carico), in sciopero della fame da ormai 56 giorni: “L’occupazione vuole dimostrarti che sei sotto il suo assoluto controllo – ha dichiarato di recente un amico di Adnan, Mousa Abu Maria – Per questo si inizia uno sciopero della fame. Ciò che mangi è l’unica cosa che puoi ancora decidere. È il modo per dimostrare che nonostante tutto riesci ancora a resistere” .
Esistono per fortuna esempi meno estremi a testimonianza dello Zeitgeist che sta avvolgendo i Territori Palestinesi.
Chiunque risieda o abbia vissuto in loco si sarà imbattuto decine di volte in forme più o meno nuove di resistenza popolare non violenta.
Un caso che ho seguito da vicino riguarda Khaled, un ragazzo di circa trent’anni che possiede un piccolo appezzamento di terra – coltivato con insalata, menta e olive – “incastrato” a metà strada tra una base militare israeliana e il villaggio di ‘Anata (Cisgiordania).
Khaled non ha dubbi, il suo modo di resistere all’occupazione è l’unico possibile: “Un terreno coltivato – spiega – è molto più difficile da confiscare. È questa la ragione per la quale invece di costruirmi una casa ho scelto di coltivare prodotti agricoli. Le ho provate tutte per evitare che mi portassero via la mia terra, imparando anche a convivere con le quindici telecamere che sono puntate sul mio campo. Oggi ho capito che non c’è alternativa se non quella di opporsi a ciò che subiamo attraverso forme intelligenti di resistenza. In questo senso la mia è a tutti gli effetti una forma di resistenza intelligente [“muqauame kwayse, muqauame shatra”]”.
Al di là della carica simbolica degli esempi accennati, esiste un problema evidente legato alla visibilità.
In altre parole una Rosa Parks palestinese passerebbe pressoché inosservata. La Rosa Parksamericana viaggiava su un autobus in transito nella capitale dell’Alabama. La Rosa Parkspalestinese, mutatis mutandis, non avrebbe la stessa prerogativa.
È questa la ragione per la quale oggi più che mai è necessario che quella stessa resistenza popolare non violenta possa diventare sempre più visibile all’interno della società israeliana.
Solo se resterà non violenta avrà la forza di cambiare il corso della storia. A quel punto molti palestinesi resteranno sorpresi nel vedere quanti uomini e donne presenti al di là della barriera solidarizzano con la loro sofferenza.

Clicca qui per individuare l’appezzamento di terra di Khaled .
10 febbraio 2012

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