Washington si inchina alle monarchie mediorientali


Una forte contraddizione è alla base della politica americana in Medio Oriente: gli sforzi di rafforzare le transizioni democratiche in alcune parti della regione vengono portati avanti parallelamente a un fermo appoggio alla maggior parte dei rimanenti governi non democratici – scrive l’analista americano Thomas Carothers
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Subito dopo il primo anniversario dell’inizio della Primavera Araba, l’amministrazione Obama ha annunciato a fine dicembre un enorme accordo per la vendita di armi all’Arabia Saudita, con un prezzo superiore al prodotto interno lordo annuo di più della metà dei paesi nel mondo. L’amministrazione ha salutato questa vendita come un “risultato storico” che “rafforza il saldo e duraturo rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita”. La stretta giustapposizione fra il summenzionato anniversario e l’evidente tentativo di porre fine a un momentaneo ‘brutto periodo’ nei rapporti americano-sauditi mette in evidenza trascurate realtà fondamentali riguardo alla Primavera Araba ed alla risposta degli Stati Uniti.
Sebbene solitamente le narrazioni relative alla Primavera Araba facciano riferimento a un’ondata di cambiamento politico che avrebbe investito tutto il Medio Oriente, la realtà è un’altra. Quest’ondata ha diviso in due la regione, sommergendone metà e sfiorandone appena la restante parte. I governi della maggior parte delle repubbliche della regione, cioè Tunisia, Egitto, Libia, Siria e Yemen, sono stati rovesciati o hanno dovuto fronteggiare un grave assedio interno. In un sorprendente contrasto, tuttavia, tutte le monarchie della regione appaiono al sicuro, con la possibile eccezione del Bahrein. La maggior parte di esse ha petrodollari a sufficienza per garantire ai propri cittadini un accettabile livello di benessere, ed alcune hanno una particolare legittimazione religiosa.
Dovremmo però tenere a mente che i vari autocrati della regione che hanno perso il potere lo scorso anno apparivano solidi anch’essi, per una serie di valide e spesso elaborate ragioni, proprio fino al momento in cui sono caduti. In quest’epoca di sorprese politiche, che spesso derivano da improvvise e turbolente proteste popolari, scommettere su ‘affidabili’ autocrati è più pericoloso che mai.
Il presidente Obama afferma di riconoscere questa realtà. Egli ha dichiarato a maggio che “dopo decenni in cui abbiamo accettato il mondo così com’è nella regione, abbiamo una possibilità di perseguire il mondo così come dovrebbe essere”, e che “promuovere le riforme in tutta la regione” sarà “la politica degli Stati Uniti”. E in effetti, dove si sono verificati sconvolgimenti politici, gli Stati Uniti hanno alla fine appoggiato il cambiamento democratico, a volte attivamente, come in Libia, a volte in maniera esitante, come in Egitto. Ma dove la stabilità autocratica continua a regnare, l’amministrazione USA continua ad attenersi alla decennale politica americana di sostegno acritico a dittatori ‘amichevoli’, che risultano utili in materia di sicurezza ed economia.
Quando il governo del Bahrein ha duramente represso il massiccio movimento di protesta all’interno dei propri confini la scorsa primavera, l’amministrazione americana non ha praticamente battuto ciglio. Gli Stati Uniti non erano disposti a rischiare di compromettere la comoda sede della Quinta Flotta nel Golfo Persico per il proprio impegno a favore della democrazia araba. La partecipazione militare dell’Arabia Saudita alla repressione in Bahrein e la ferma opposizione di Riyadh a qualsiasi barlume di liberalizzazione all’interno dei propri confini non ha dissuaso l’amministrazione dal riaffermare con entusiasmo l’intimità di rapporti americano-sauditi. Si consideri inoltre che, pur non avendo preso alcun provvedimento serio in direzione di una riforma democratica di fronte alle richieste popolari di cambiamento, il re Abdullah di Giordania ha ricevuto solo elogi e aiuti da parte di Washington.
Una forte contraddizione è alla base della politica americana in Medio Oriente. Seri sforzi di rafforzare le transizioni democratiche in alcune parti della regione vengono portati avanti parallelamente a un fermo appoggio alla maggior parte dei rimanenti governi non democratici. Questo atteggiamento ipocrita, poco sottolineato a Washington, ma palesemente evidente nella regione, compromette gravemente la capacità di persuasione dei nostri sforzi di promozione della democrazia.
La logica della realpolitik che guida il nostro continuo attaccamento alle monarchie arabe amiche è sufficientemente chiara. Gli interessi in gioco – dal petrolio all’antiterrorismo, al contenimento dell’Iran – sono pesanti. Ma questa logica è così chiara proprio perché è così familiare. E’ esattamente la stessa logica che abbiamo frettolosamente sconfessato lo scorso anno, dopo che improvvisamente è apparsa terribilmente vacua in un paese dopo l’altro.
Gli Stati Uniti si rammaricarono allora di essere stati colti così impreparati allo storico cambiamento, e di aver fatto così poco per spianare la strada a un Medio Oriente più democratico. Ci lamentammo della nostra incapacità di spingere maggiormente i nostri ‘amici’ autocratici a prendere sul serio le riforme, di estendere e rafforzare il nostro sostegno agli attivisti democratici della società civile, e di approfondire la nostra conoscenza e il nostro dialogo con nuove forze sociali che abbiamo compreso solo vagamente.
Se solo avessimo preso sul serio la sfida – tremenda, ma non insormontabile – di trovare un modo di abbinare alle utili partnership con gli autocrati regionali una reale attenzione alle loro responsabilità politiche.
Così, mentre oltrepassiamo il primo anniversario della Primavera Araba, dovremmo astenerci dal brindare compiaciuti per il fatto di aver rimesso a posto i rapporti americano-sauditi, e riflettere su come evitare possibili futuri rimpianti in una regione in cui uno storico periodo di cambiamento ha appena avuto inizio.
Thomas Carothers è un esperto di democratizzazione e promozione della democrazia, ed in generale della politica estera americana; è vicepresidente del Carnegie Endowment for International Peace, dove dirige il programma “Democracy and Rule of Law”
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

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