Jonathan Cook : smentito il mito del liberalismo della Corte Suprema di Israele


Poco più di un decennio fa, in un breve intermezzo di esaltante ottimismo a proposito delle prospettive della pace regionale, la Corte Suprema d’Israele emise due sentenze epocali che, si suppose diffusamente, annunciavano l’avvento di una nuova era post-sionista per Israele.  Ma con due altre sentenze cruciali emesse nell’inverno 2011-2012 la stessa corte ha decisamente invertito tale corso.
I palestinesi, sia nei Territori Occupati sia all’interno di Israele, pagheranno i costi maggiori e più immediati delle nuove decisioni. In una la Corte Suprema ha creato il nuovo concetto di “occupazione prolungata” per giustificare l’ulteriore rifiuto israeliano delle tutele fondamentali alla popolazione palestinese che vive sotto un’amministrazione militare belligerante. Nell’altra, ha sostenuto il diritto dello stato d’Israele di spogliare la minoranza palestinese entro Israele di uno dei suoi fondamentali diritti di cittadinanza.
Entrambe queste due nuove pronunce minacciano di scatenare un torrente di leggi e misure amministrative ancor più aggressive contro i palestinesi, su entrambi i lati della Linea Verde che separa i Territori Occupati dall’Israele formale, mentre il centro politico di gravità in Israele si sposta costantemente a destra.
Reputazione di attivismo
L’umore giudiziario di oggi è tutt’altra cosa rispetto agli entusiasmi dei tardi anni ’90, quando la Corte Suprema era guidata da Aharon Barak, celebrato dai suoi omologhi negli Stati Uniti come un modello di liberalismo illuminato. A Barak viene diffusamente riconosciuto il merito di aver rafforzato nella giurisprudenza israeliana la filosofia dell’ “attivismo giudiziario”. In pratica l’attivismo di Barak si traduceva nel fatto che egli riservava alla Corte Suprema il diritto sia di interpretare creativamente la legge quando essa mancava di chiarezza sia di valutare criticamente e, se necessario, stroncare misure approvate dalla Knesset quando esse contrastavano con una delle 11 Leggi Fondamentali di Israele.
Israele non ha una Costituzione, ma Barak aveva cercato ispirazione per quella che lui ed altri chiamavano una “rivoluzione costituzionale” in due Leggi Fondamentali liberali approvate nel 1992, una sulla Libertà e la Dignità Umana, l’altra sulla Libertà di Occupazione. Egli trattava queste leggi come affini a una carta dei diritti.
Fu la Corte Suprema attivista di Barak che nel 1999 – tardivamente, dopo anni di petizioni dei gruppi per i diritti umani – emise una sentenza contro la pratica comune della tortura dei prigionieri palestinesi. I giudici proibirono ai servizi di sicurezza israeliani di utilizzare “moderate pressioni fisiche”, come Israele le chiamava, salvo che in caso di palestinesi che erano “bombe a orologeria”, cioè detenuti ritenuti celare informazioni necessarie rapidamente per poter salvare delle vite.
E fu un attivismo analogo ad essere ritenuto responsabile, nel maggio 2000, di una sentenza della Corte a favore dei Kadaan, una famiglia palestinese con cittadinanza israeliana che era stata bandita cinque anni prima da Katzir, una comunità rurale nel nord di Israele. Il comitato di accettazione di Katzir aveva giustifica l’esclusione della famiglia in base al fatto che la comunità – come altre 700 simili – era destinata ai soli ebrei. Descrivendola come “la decisione più difficile della mia vita”, Barak ordinò a Katzir di riconsiderare la richiesta di ammissione dei Kadaan.
Molti osservatori ritennero che queste sentenze aprissero la strada a un Israele più tollerante e democratico, con il paese che finalmente cominciava a scrollarsi di dosso il fardello dello sciovinismo etnico, delle ossessioni per la sicurezza e della fissazione demografica. Tenuta ora a rispondere a una corte più attivista, l’occupazione si sarebbe meritata l’aggettivo di “benevola” proprio mentre il processo di pace inaugurato a Oslo nel 1993 la avviava all’oblio.  E la sentenza Kadaan prometteva di por fine a decenni di segregazione comunitaria tra cittadini ebrei e palestinesi; allentava il sistema oppressivo di controllo etnico sul territorio israeliano, la maggior parte del quale era stato nazionalizzato a vantaggio dell’ebraismo mondiale piuttosto della popolazione israeliana in generale ed erodeva la natura di seconda classe della cittadinanza per i non ebrei.  Anche mentre una sentenza preannunciava la fine dell’occupazione, l’altra prometteva di dare forma concreta alla descrizione che Israele dava di sé stesso come di uno “stato democratico ed ebraico”, considerata da molti, e da allora, un ossimoro.
“Come se annessa”
Ma l’aura di speranza che consentì agli osservatori dell’epoca di interpretare queste sentenze come rivoluzionarie, svanì lentamente negli anni della seconda intifada, che iniziò nell’autunno del 2000.  I nadir fu raggiunto a dicembre e gennaio quando la Corte Suprema formulò due importanti sentenze, di nuovo relative, separatamente, ai palestinesi dei Territori Occupati e a quelli entro Israele.  In entrambe i giudici mostrarono che, lungi dal cercare di rimodellare lo stato ebraico, la Corte aveva scelto con enfasi in ruolo di apologeta di quello stesso sionismo che sembrava un tempo aver deciso di sradicare.
La prima sentenza, emessa il 26 dicembre 2011, quando ha avuto buona probabilità di passare inosservata nelle capitali occidentali, ha riguardato lo sfruttamento di antica data da parte di un pugno di società israeliane di una delle principali risorse naturali palestinesi nella West Bank: le cave.  Yesh Din, un gruppo israeliano per i diritti umani, aveva rivolto appello tre anni prima alla corte sostenendo che Israele stava violando la legge internazionale appropriandosi della pietra sotterranea della cosiddetta Area C, i quasi due terzi della West Bank assegnati dagli Accordi di Oslo a controllo temporaneo israeliano. I benefici del commercio della pietra estratta – stimati dall’Autorità Palestinese (PA) del valore di 900 milioni di dollari all’anno – venivano accreditati non ai locali abitanti palestinesi ma “alle necessità dello Stato d’Israele, la potenza occupante”, segnalava lo Yesh Din. Undici società israeliane gestivano le cave, esportando in Israele il 94% del materiale.
Il caso avrebbe dovuto essere chiaro e semplice. In base all’articolo 55 della Convenzione dell’Aia del 1907, alla potenza occupante è prescritto di “salvaguardare il capitale” delle risorse naturali della parte occupata e di “amministralo secondo le regole dell’usufrutto”, i principi che regolano l’uso equo.  Ma una giuria di giudici della Corte Suprema, guidata da Dorit Beinisch, succeduta a Barak ed erede del suo fare attivistico, ha deciso diversamente.
La corte ha accettato la posizione dello stato d’Israele che l’utilizzo israeliano delle cave è contenuto e non corrisponde a una distruzione del loro “capitale”. Piuttosto, ha osservato, lo sviluppo economico del territorio occupato non poteva essere congelato indefinitamente considerato che l’occupazione era “prolungata”. Era necessario “adattare la legge alla realtà sul terreno”, ha osservato la Beinisch, e aprire le cave era parte degli sforzi di sviluppo dell’esercito israeliano nella West Bank. I palestinesi ne traevano beneficio perché le società minerarie fornivano addestramento e occupazione e parte della pietra era venduto a loro. Inoltre, osservava la Beinisch, il consenso dell’Autorità Palestinese alle operazioni di estrazione era implicito nella firma degli Accordi di Oslo del 1993, e il destino delle cave sarebbe stato deciso definitivamente nei negoziati di pace.
I giudici sono stati anche apparentemente colpiti da due concessioni fatte dallo stato dopo che lo Yesh Din avevo sottoposto la sua petizione. Una consisteva nel non aprire cave nuove. L’altra era un impegno a che tutti i diritti pagati allo stato dalle società minerarie statunitensi, ammontanti a circa 7,5 milioni di dollari all’anno, sarebbero stati destinati all’Amministrazione Civile, l’amministrazione militare israeliana che governa i palestinesi della West Bank.
La sentenza ha naturalmente suscitato alcuni problemi , come numerosi osservatori sono stati rapidi nel far notare.  Valutando la sentenza come un esempio del “colonialismo” israeliano, Aeyal Gross, professore di diritto all’Università di Tel Aviv, ha osservato che i giudici non potevano trovare supporto legale nel processo di Oslo per lo sfruttamento delle risorse palestinesi.  Gli accordi erano intesi a portare a un accordo finale entro il 1999, più di 12 anni fa, e secondo i loro termini la responsabilità delle miniere e delle cave era prevista gradualmente da trasferire ai palestinesi.
Analogamente gli avvocati dello Yesh Din hanno fatto notare che gli Accordi di Oslo non indicavano il consenso della PA alla sfruttamento israeliano della ricchezza minerale della West Bank più di quanto segnalassero la sua accettazione della legalità degli insediamenti. In ogni caso, hanno aggiunto, la PA non aveva autorità, in termini di legge internazionale, per consentire alla violazione dei diritti della popolazione palestinese.  Ovvero, nelle parole di Gross, “la legge internazionale non consente che i diritti dei residenti in un territorio occupato siano limitati da accordi firmati con lo stato occupante.” Inoltre è stata una tesi straordinaria quella della corte di ritenere che i palestinesi beneficino del saccheggio delle risorse naturali palestinesi da parte di Israele in considerazione del fatto che diritti minori – fissati a meno dell’1% del valore annuale del commercio delle pietre – sono pagati all’Amministrazione Civile. Israele ha in tal modo assegnato i diritti alla copertura dei costi dell’occupazione militare.
Ma c’è stata un’implicazione ancora più grave. In una dichiarazione lo Yesh Din ha osservato che la sentenza della corte “rivoluziona l’applicazione israeliana della legge internazionale sulla occupazione belligerante”, creando la dottrina della “occupazione prolungata” che non era possibile ritrovare in alcuna altra corte mondiale o in qualsiasi testo accademico.  Gross, al riguardo, ha sostenuto che la sentenza ha rivelato che “sotto la copertura di  un’occupazione temporanea, Israele sta conducendo una annessione strisciante della West Bank e delle sue risorse” e la corte ha in effetti messo il suo sigillo su ciò.
“L’occupazione prolungata”, ha aggiunto lo Yesh Din, ha creato un “pericoloso” precedente che potrebbe essere utilizzato da Israele per legittimare i suoi molti altri atti di sfruttamento, quali il suo ricorso “a pompare acqua di quei territori, a trasferire ritrovamenti archeologici fuori dal territorio occupato, a sfruttare spazi liberi per la discarica di rifiuti, a vendere proprietà pubbliche e ad altri atti irreversibili simili che danneggiano o alterano il patrimonio delle proprietà pubbliche.”  In parole semplici, come ha osservato il commentatore Yossi Gurvitz, “Israele può continuare a depredare la West Bank come se fosse stata annessa.”
Contro la riunificazione delle famiglie
La ratifica, da parte della Corte, del duraturo sfruttamento israeliano delle risorse naturali palestinesi nei Territori Occupati è stata rispecchiata da una sentenza ugualmente inquietante di poco tempo dopo sui diritti della minoranza di 1,3 milioni di palestinesi detentori di cittadinanza, un quinto della popolazione.
A metà gennaio la Corte Suprema ha finalmente emesso il suo verdetto sulla legalità di una legge transitoria del 2003 sulla riunificazione familiare che nella maggior parte dei casi aveva vietato a un cittadino israeliano di crescere la sua famiglia in Israele con un coniuge palestinese proveniente dai Territori Occupati.  La controversa legge era stata introdotta come emendamento alla legge del 1952 sulla cittadinanza che stabilisce la cittadinanza per i non ebrei; una diversa fonte di legge, la Legge sul Ritorno, del 1950, conferisce a tutti gli ebrei del mondo il diritto a immigrare e a ricevere automaticamente la cittadinanza israeliana.
E’ stata la seconda volta che la Corte si è pronunziata su questa materia. I gruppi per i diritti umani, guidati da Adalah, il centro legale della minoranza araba in Israele, avevano inoltrato nel 2006  una petizione alla Corte contro la legge.  Lo stato affermava che l’emendamento era stato necessario per chiudere una scappatoia che comprometteva la sicurezza dello stato consentendo a terroristi palestinesi di condurre i loro attacchi in Israele dopo aver sposato un coniuge palestinese.  Gli appellanti avevano controbattuto che lo stato non aveva offerto alcuna prova statistica verificabile di una simile minaccia e che altre misure, quali le esistenti verifiche di polizia circa i richiedenti la residenza,  erano sufficienti e potevano essere migliorate per garantire che chiunque avesse probabilità di condurre un attacco fosse identificato in anticipo.
Il vero obiettivo della legge del 2003, ha sostenuto il gruppo per i diritti umani, era demografico, e precisamente proteggere la maggioranza ebraica in via di riduzione in Israele propriamente detto e la pure minore pluralità ebraica tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano.  E’ stato un’escrescenza, hanno affermato, della filosofia di Israele della “separazione unilaterale” dai palestinesi, che aveva chiuso fuori Gaza e la West Bank con mura di cemento e acciaio.  L’emendamento era inteso a prevenire quello che era stato definito un “diritto di ritorno dalla porta sul retro”, con riferimento ai palestinesi dei Territori Occupati che acquistavano cittadinanza israeliana per matrimonio con un/una cittadino/a israeliano/a.
Nel 2006 Aharon Barak che stava per andare in pensione da giudice capo, si è trovato superato di poco dai suoi colleghi giudici che avevano confermato la norma. Ciò nonostante, anche se sei degli undici membri della giuria avevano appoggiato la legge, Barak ha comunque potuto caratterizzare la sconfitta semplicemente come una “perdita tecnica”. Una magra maggioranza – di nuovo sei su undici – si era anche detta d’accordo che l’emendamento violava le Leggi Fondamentali di Israele.  Il giudice indeciso, Edmond Levt, è passato con quelli che appoggiavano la legge soltanto perché riteneva che essa fosse temporanea.  La corte, ha affermato Levy, non doveva interferire visto che il governo stava promettendo di sostituire la legge con una politica di immigrazione formulata correttamente.
In una email a un professore di diritto di Yale, non nominato, che è stata fatta trapelare e che era chiaramente mirata a limitare i danni causati dalla sentenza alla sua reputazione e a quella di Israele, Barak è stato cristallino sul fatto che l’emendamento non sarebbe sopravvissuto molto più a lungo. Il ministro della giustizia, Haim Ramon, asseriva Barak, stava per stilare una legge sull’immigrazione che avrebbe incluso “principi universali”. La corte non se ne sarebbe rimasta oziosa se l’emendamento del 2003 fosse stato rinnovato ancora una volta: “Se il parlamento tentasse di attuare di nuovo la norma senza alcuna modifica, c’è un’elevata probabilità, in base alle idee della Corte, che la norma sarebbe anticostituzionale.”
In realtà il governo non ha prodotto una politica di immigrazione, come Barak avrebbe potuto prevedere, a motivo della natura quasi sacra della Legge sul Ritorno per la maggior parte degli israeliani. La legge temporanea del 2003 è stata invece prorogata regolarmente dalla Knesset e la sua portata è stata ampliata da un ulteriore emendamento del 2007 a comprendere nelle restrizioni non solo i palestinesi dei Territori Occupati ma anche tutti i “cittadini di uno stato nemico”.  E’ stata lanciata una seconda petizione da Adalah e dall’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e sostenuta da molti appellanti singoli.
Le nuove udienze hanno avuto luogo in un clima di sicurezza molto diverso da quello precedente. Nel 2006 gli attacchi suicidi della seconda intifada erano ancora una ferita aperta per gli israeliani; nel 2012 erano sono un ricordo lontano. Ciò nonostante lo stato ha esercitato pressioni sostenendo che ogni attenuazione della politica di riunificazione familiare avrebbe posto una minaccia enorme alla sicurezza.
Nell’ultima udienza davanti alla Corte, nel marzo 2010, Yochi Gnessin, il procuratore capo dello stato, ha affermato che 130.000 palestinesi avevano chiesto la riunificazione familiare tra il 1994, inizio del processo di Oslo ed epoca in cui alla maggior parte dei palestinesi era prescritto di avere un permesso per entrare in Israele, e il 2008.  Di questi, 54 palestinesi che avevano ricevuto il permesso di residenza mediante matrimonio erano stati coinvolti in attacchi terroristici. Dal punto di vista dello stato questa cifra provava che le organizzazioni terroristiche palestinesi sceglievano i palestinesi solo dopo che essi avevano ottenuto di diritto di stare in Israele, rendendo impossibile ai servizi di sicurezza ideare controlli nel corso della procedura per la residenza che valutassero chi poteva costituire una minaccia.
Adalah, tuttavia, ha fatto presente che le statistiche erano fuorvianti. La categoria dei palestinesi coinvolti in attacchi terroristici appariva molto meno minacciosa una volta analizzata in dettaglio. In realtà, secondo le stesse cifre dello stato, solo 7 di questi 54 casi sono finiti con una condanna e una sentenza di incarcerazione e due di tali persone sono state rilasciate poco tempo dopo, il che suggerisce che le accuse non erano serie.  Adalah ha anche osservato che più di 20.000 lavoratori palestinesi della West Bank dispongono di permessi per entrare legalmente in Israele per recarsi ogni giorno al lavoro, facendo apparire ancor più speciosa la tesi della sicurezza dello stato.
La grande esibizione fatta dai dirigenti della cifra di 130.000 domande di riunificazione familiare, tuttavia, ha lasciato intendere il significato sottinteso della posizione statale riguardo alla legge. I media israeliani hanno costantemente citato questa cifra elevata, con editorialisti preoccupati delle implicazioni demografiche di un tale afflusso per lo stato ebraico.
Non sorprendentemente, questo è stato anche il senso delle tesi prodotte da quattro eminenti gruppi di destra cui è stato consentito dallo stato di partecipare come co-convenuti riguardo alla petizione. Ilan Tzion, un avvocato rappresentante ‘Fence for Life’ [Barriera per la Vita] ha chiarito il tema chiave del caso: “La nostra tesi non è demografica [sic] bensì sionista. Gli appellanti affermano che Israele non deve dare preferenza all’immigrazione israeliana rispetto a quella araba. Ciò significa che la Legge sul Ritorno è anche razzista. Stanno formulando la stessa accusa formulata dalle Nazioni Unite quando hanno deliberato che Israele era uno stato razzista.” Tzion ha sottolineato uno studio di Amon Sofer, un professore di geografia dell’Università di Haifa, che prevede che, se incontrollata, la crescita della minoranza palestinese di Israele la trasformerebbe in maggioranza in Israele nel giro di due generazioni.
In realtà anche la stessa cifra di 130.000 è fuorviante. Essa ha compreso il gran numero di riunificazioni familiari a Gerusalemme Est i cui residenti, diversamente dai palestinesi all’interno di Israele, sono sotto un’occupazione illegale.  Le famiglie sono spesso separate dalle aggressive procedure burocratiche israeliane, compresi molti figli di matrimoni tra residenti di Gerusalemme Est e dei villaggi vicini della West Bank. Raggiunti i 14 anni di età devono presentare domanda, spesso senza successo, per il diritto di restare con il loro genitori. La cifra comprendeva anche richieste reiterate dalle stesse persone, il che significa che il numero vero dei richiedenti era certamente molto inferiore.
Pensare demograficamente
L’11 gennaio 2012, dopo quasi due anni di procrastinazioni, i giudici della Corte Suprema hanno emesso il loro verdetto. Come nel 2006 la Corte ha appoggiato la legge e lo ha fatto di nuovo con lo scarto minimo, sei giudici contro cinque.
Gli appellanti avevano cercato rimedio nella Legge Fondamentale del 1992 sulla Libertà e la Dignità Umana, sostenendo che l’emendamento alla Legge sulla Cittadinanza violava la Legge Fondamentale privando i cittadini del diritto a una vita di famiglia in basa all’etnia del  coniuge.  I giudici hanno concordato sul fatto che le famiglie godevano del diritto costituzionale a vivere unite ma erano divise se era applicabile una clausola limitativa prevista dalla Legge Fondamentale.  La clausola consente al parlamento di approvare una legge che viola la Legge Fondamentale se è ritenuto “coerente con i valori dello stato d’Israele, messa in atto per uno scopo corretto e in una misura non superiore a quella richiesta.”
Dal punto di vista della minoranza, la limitazione non poteva essere invocata perché l’emendamento offendeva il principio di uguaglianza: il suo effetto sarebbe stato avvertito quasi esclusivamente dai cittadini palestinesi. Dorit Beinisch, alla quale mancavano poche settimane dal pensionamento da presidente della Corte, ha scritto nel suo parere di minoranza: “La domanda che abbiamo affrontato è stata quali rischi siamo disponibili ad assumere e quali azioni siamo disponibili a perseguire per garantire la nostra sicurezza senza compromettere i diritti umani o causare danni sproporzionati.”
La maggioranza, per contro, ha sostenuto che la limitazione era applicabile in quanto il danno causato alle famiglie con il rifiuto di riunificazione era necessario e proporzionato. I giudici hanno basato il loro ragionamento su preoccupazioni per la sicurezza dello stato. Asher Grunis, che avrebbe dovuto sostituire la Beinisch alla fine di febbraio, ha intitolato il suo parere “I diritti umani non sono una ricetta per il suicidio nazionale”. Elyakim Rubinstein ha concluso che i cittadini palestinesi “devono pagare un prezzo alto per una maggiore sicurezza per tutti gli israeliani, compresi la loro.” E Miriam Naor ha sostenuto che anche se i cittadini palestinesi di Israele avevano un diritto costituzionale a una vita familiare unita quel diritto non si estendeva al dover essere esercitato in Israele.  La maggioranza ha anche cercato di trovare conforto nell’affermare che la legge aveva paralleli nelle leggi di altri paesi, compresi alcuni stati europei. Ma di nuovo Agalah ha evidenziato nelle prime udienze – e ha fornito tre pareri di esperti legali al riguardo – che tali restrizioni si applicavano, diversamente dal caso di Israele, solo quando entrambi i coniugi interessati alla procedura di riunificazione familiare erano non-cittadini. L’indifferenza dei giudici a tali distinzioni e la priorità da loro data alla sicurezza rispetto ai diritti fondamentali dei cittadini nonostante la posizione debole dello stato, hanno suggerito a molti che la decisione di confermare la legge sia stata in realtà motivata da considerazioni demografiche.
E’ stato certamente così che la sentenza è stata interpretata pubblicamente. Dan Margalit, uno dei giornalisti più popolare di Israele, teme che i matrimoni tra palestinesi di Israele e dei Territori Occupati facciano parte di una “invasione ben pianificata”. Ronen Shoval, capo del movimento giovanile di destra Im Tirtzu, ha affermato che la decisione della Corte Suprema “eviterà che centinaia di migliaia di palestinesi inondino Israele.” E Ze’ev Elkin, un parlamentare del Likud e presidente della fazione della coalizione di governo alla Knesset ha fustigato i giudici di minoranza per aver voluto aprire “gli argini” a migliaia di palestinesi consentendo loro un “diritto al ritorno” mediante matrimonio.
Molti dei giudici hanno anche alluso all’argomento demografico nei loro pareri, come Yoram Rabin, decano di una scuola di diritto a Tel Aviv, ha osservato nel numero del 15 gennaio del giornale Ha’aretz. “E’ chiarissimo che almeno alcuni dei giudici del parere di maggioranza ‘hanno parlato di sicurezza’ mentre ‘pensavano demograficamente’”.  Miriam Naor aveva osservato che la legge del 2003 aveva implicazioni sia demografiche sia di sicurezza e che tali due fattori erano “indivisibili”.  Un altro giudice, Eliezer Rivlin, comparando la legge israeliana a quella di altri stati, aveva osservato: “Gli stati europei stanno rendendo più severe le condizioni dell’immigrazione per motivi demografici.” E Edmond Levy, schierato con la minoranza, aveva sostenuto che gli ebrei devono essere maggioranza nello stato, aggiungendo che la sua opinione “avrebbe potuto essere diversa” se lo stato avesse basato la sua tesi sulla “composizione della popolazione israeliana o su appropriate soluzioni per l’immigrazione.”
Hassan Jabareen, direttore di Adalah, ritiene che il caso abbia toccato il tema “più sensibile” per la Corte Suprema. Israele si è ufficialmente descritto come uno stato “ebraico e democratico” fin da metà degli anni ’80, ma tale concetto è stato raramente analizzato in dettaglio. Questo caso ha rivelato che i due principi – ebraismo di Israele e sua democraticità – sono in stridente contraddizione.  In effetti i giudici hanno dovuto scegliere a quale componente dell’identità statale dare maggiore priorità. La maggioranza ha preferito privilegiare l’ebraismo anche se ciò ha significato confermare una legge che violava le pretese di democraticità dello stato.
Naor, in particolare, ha esposto le conseguenze della sentenza in termini forti. Spogliando i palestinesi del paese di uno dei diritti fondamentali della cittadinanza, la decisione della maggioranza li ha costretti a scegliere tra dividere la famiglia o trasferirsi fuori da Israele con il coniuge per vivere insieme sotto l’occupazione belligerante israeliana.  Dal punto di vista del giornalista di Ha’aretz  Gideon Levy, anch’egli in uno scritto del 15 gennaio, la sentenza è stata un altro asse di una politica di lungo termine dello stato per attuare la pulizia etnica dei palestinesi dalle loro terre ogniqualvolta se ne presenti il pretesto.  “Qui si tratta di trasferimento. Non da parte dell’esercito, dei coloni o dell’estrema destra, bensì di espulsione sotto l’egida della legge e con il sigillo di approvazione della Corte.”
Adalah, nel contempo, ha osservato che la Corte ha “approvato una legge di cui non esistono analogie in alcuno stato democratico del mondo … La sentenza dimostra quanto la situazione dei diritti civili della minoranza araba di Israele stia deteriorandosi a una situazione senza precedenti e molto pericolosa.” Jabareen e Sawsan Zaher, che hanno presentato ricorso alla Corte per conto di Adalah, hanno osservato che il pericolo si manifesterebbe in due modi. Primo: abbandonando il principio di eguaglianza per i palestinesi di Israele sulla questione della riunificazione familiare, la Corte ha sottinteso che la non-discriminazione era una questione che doveva essere soppesata caso per caso. La sospensione dello stato di diritto, hanno sostenuto i due legali, “legittima la messa in atto, da parte del governo e della Knesset, di altre leggi discriminatorie nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele.” E, secondo: “Quando il tema dell’eguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele viene visto con un problema politico piuttosto che costituzionale, allora si è a un passo dal considerare i gruppi per i diritti umani che lottano per ottenere i diritti alla dignità e all’uguaglianza per i cittadini palestinesi come organizzazioni politiche, e la giurisprudenza della Corte Suprema in tali casi come politica, e dunque soggetta all’intervento della Knesset.  Comunque l’interferenza della Knesset nel lavoro della Corte Suprema minaccia il principio fondamentale della separazione tra poteri.”
“Semplici raccomandazioni”    
Viste le cose in questa luce la Corte Suprema ha firmato una condanna a morte del ruolo attivista originariamente creato da Barak e apparentemente realizzato nella forma più concreta più di un decennio prima nel caso della tortura e in quello dei Kadaan.  Zahava Gal-On, leader del minuscolo partito sionista Meretez, che aveva anch’egli aderito all’appello, ha ammonito: “La Corte si è stancata di combattere il razzismo. La decisione di respingere il mio appello è il risultato della campagna per indebolire la Corte Suprema.” Ella di riferiva ai due fronti della campagna populista avviata dalla destra israeliana negli anni recenti per indebolire la Corte suggerendo che le sue sentenze, quando andavano contro le leggi della Knesset, erano antidemocratiche.  Mentre il clima politico in Israele  si spostava ancora più a destra nel corso del primo decennio del 2000, la Corte era diventata sempre più isolata, con la destra deliziata nel presentare le inclinazioni ideologiche dei giudici come in contrasto con la società israeliana tradizionale.
La debolezza della Corte è stata particolarmente evidente in una quantità di casi in cui le sue sentenze attiviste – che dichiaravano illegali le leggi e le politiche israeliane – venivano semplicemente ignorate dai dirigenti. Il governo è sembrato spesso sbandierare il suo disprezzo, nel modo più spettacolare con il suo rifiuto di smantellare gli avamposti degli insediamenti non autorizzati e segmenti del muro di separazione costruito su terra privata palestinese nella West Bank; con il suo assegnare uno status prioritario, e i relativi fondi preferenziali, quasi esclusivamente a comunità ebraiche, compresi gli insediamenti, anziché alle comunità palestinesi molto più povere all’interno di Israele; col non assegnare alle scuole palestinesi in Israele bilanci equi o col non costruire centinaia di aule scolastiche per i bambini palestinesi a Gerusalemme Est e con la sua negazione di servizi essenziali ai villaggi beduini del Negev. In una seduta particolarmente contrastata del 2009 la Beinisch ha accusato lo stato di prendersi “la legge nelle proprie mani” e di trattare le sue sentenze come “semplici raccomandazioni”.
Ma questi scontri di alto profilo hanno rafforzato il messaggio della destra, espresso sinteticamente dal membro della Knesset Yariv Levin, del Likud: “La Corte Suprema è stata preda della minoranza estremista di sinistra che sta cercando di dettare i propri valori alla società intera,” uno sviluppo, ha aggiunto, che pone “in grande pericolo la nostra capacità di garantire la nostra esistenza”.
A tale accusa è stata data una forza extra dall’intensificazione della campagna governativa contro i gruppi per i diritti umani che li dipingeva come organizzazioni politiche finanziate da governi stranieri e, per implicazione, operanti come agenti di un’influenza straniera. Il sostegno della corte a tesi proposte dai gruppi per i diritti umani è stato visto come prova della sua sottomissione a un programma straniero, ovvero anti-israeliano.
Aryeh Rattner, professore di legge all’Università di Haifa, ha osservato che la Corte era popolarmente percepita come una che preferiva “un coinvolgimento eccessivo” quando posta di fronte a problemi di sicurezza, sociali e religiosi controversi.  Un esame da lui condotto nel 2010 ha dimostrato che tra gli ebrei israeliani che non si identificano né con gli ultra-ortodossi né con i coloni – gruppi entrambi che tendono a rifiutare l’autorità della Corte – solo il 36% ha espresso grande fiducia nelle sentenze di quest’ultima.  Tale percentuale era crollata dal 61% di un decennio prima. Tra  i coloni il dato era del 20%, sceso dal 46% del 2000.
In parallelo, i partiti di destra hanno utilizzato il tema della riforma fondamentale della Corte come un modo per intimidirla. Nel decennio scorso i giudici hanno vissuto all’ombra di una proposta della destra di sostituire al Corte Suprema con una cosiddetta Corte Costituzionale, costituita da rabbini, politici ed “esperti” nominati dalla Knesset.  A gennaio l’influente leader dei coloni Israel Harel, un giornalista diHa’aretz il cui figlio sta sfidando un sentenza della Corte Suprema vivendo in un insediamento avanzato, chiamato Migron, ha spinto di nuovo l’idea di tale riforma, sostenendo che ciò eviterebbe la cooptazione della Corte da parte di “organizzazioni estremiste finanziate da governi stranieri”, un riferimento ai finanziamenti ricevuti dall’Unione Europea da gruppi quali Adalah e ACRI.
Pressioni sono venute anche dai governi di Israele. L’assalto è iniziato dapprima sotto Daniel Friedmann, ministro della giustizia dal 2007 al 2009 nel governo di centrodestra di Ehud Olmert.  Egli ha tentato, senza successo, di far approvare diverse proposte di legge per frenare l’attivismo dei giudici limitando il diritto del pubblico ad appellarsi alla Corte Suprema e riducendo severamente i soggetti su cui la Corte poteva pronunciarsi.
Da capo di una coalizione ancor più di destra Binyamin Netanyahu è stato ugualmente determinato nel cercare un modo sia per ridurre la capacità della Corte di interferire con il programma legislativo della destra sia per modificare la composizione della Corte per renderla più ideologicamente più ben disposta nei confronti del governo. Ha nominato ministro della giustizia Yaacov Neeman, uomo di destra non eletto che si oppone a una corte attivista e che manifestato sostegno rendere vincolante per Israele la halakha, la legge religiosa ebraica. Neeman e la destra hanno velocemente proposto una legge per consentire a un giudice al quale mancano solo due anni al pensionamento di essere nominato presidente della Corte Suprema.  Asher Grunis, un giudice conservatore noto per la sua opposizione alla filosofia attivista di Barak e della Beinisch, era il beneficiario implicito di tale modifica.  La legge è stata approvata a gennaio, in tempo per garantire che Asher sostituirà la Beinisch quando si ritirerà alla fine di febbraio.
Ma il principale bersaglio di Neeman era il Comitato per la Nomina dei Giudici, che sceglie i giudici dell’intero sistema giudiziario, compresi quelli della Corte Suprema. Nel 2011 ha avviato una proposta di legge per garantire una maggioranza di destra nel Comitato che avrebbe promosso giudici che condividessero le posizioni ideologiche della destra.  Neeman ha intensificato gli sforzi per far approvare la legge proprio mentre tre posti alla Corte Suprema, compreso quello della stessa Beinisch, erano prossimi a finire vacanti agli inizi del 2012.  Ritardi procedurali, tuttavia, si sono tradotti nel fatto che la legge non ha potuto essere approvata prima che avessero luogo le elezioni per il comitato a fine 2011.  Quando Neeman ha semplicemente riformulato la proposta di legge per renderla retroattiva, minacciando in tal modo di forzare nuove elezioni del comitato, numerosi ministri del governo e il procuratore generale hanno protestato. Un nervoso Netanyahu ha stracciato la proposta.
Un analista di Ha’aretz, Yossi Verter,  ha suggerito che la sconfitta di Neeman può essere stata solo apparente. Ha sostenuto che i propositi principali dei patrocinatori della legge erano a lungo termine. Essi hanno voluto evidenziare ai giudici di livello più basso nella magistratura che la destra era in ascesa e che, se volevano sperare di essere nominati a tribunali più elevati, avrebbero dovuto adeguare le loro sentenze su temi controversi. “Un messaggio simile verrebbe interiorizzato dai giudici che gestiscono casi di violenze e infrazioni alla legge da parte di coloni,” ha osservato Verter il 6 gennaio.
Nonostante la sconfitta della legge, la selezione, da parte del comitato, di tre nuovo candidati per la Corte ha riflesso la nuova tendenza contraria ai giudici attivisti. Uno di essi, Noam Sohlberg, è stato una scelta particolarmente controversa in quanto si tratta di un colono ideologico.
Sohlberg si è ripetutamente dimostrato contrario alle tesi proposte dai gruppi per i diritti umani. Le sue controverse sentenze comprendono la negazione a due gemelli quindicenni del diritto di risiedere a Gerusalemme Est anche si i loro genitori vi hanno la residenza; l’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo di un poliziotto che affermava di aver agito per autodifesa quando ha sparato, uccidendolo, a un palestinese in fuga; il rigetto di un’accusa di diffamazione contro tre membri del movimento illegale di estrema destra Kach che avevano interrotto il processo del membro arabo della Knesset Ahmad Tibi chiamandolo “nazista”; l’approvazione del diritto del Ministero dell’Interno di negare il passaporto a un cittadino israeliano che viveva all’estero e che non era rientrato per assolvere al servizio militare. Una delle sue sentenze è divenuta causa di particolare imbarazzo in seguito alla sua nomina alla Corte Suprema. Un giornalista televisiva, Ilana Dayan, ha fatto ricorso contro una pesante condanna per diffamazione decisa da Sohlberg per un suo servizio d’inchiesta che accusava un ufficiale dell’esercito israeliano di aver giustiziato – o “confermato l’uccisione”, nel gergo militare israeliano – di una ragazza palestinese tredicenne a Gaza nel 2004. A febbraio tre giudici della Corte Suprema, all’unanimità,  hanno cassato la sentenza di Sohlberg e hanno pesantemente criticato le sue argomentazioni riguardo al caso.
Cinquantenne, Sohlberg è giovane per gli standard della Corte Suprema e quasi certamente ne diverrà un giorno presidente. Immediatamente dopo la sua nomina, Yesh Gvul, un gruppo che rifiuta il servizio militare nei Territori Occupati, ha fatto ricorso alla Corte Suprema per ottenere la radiazione di Sohlberg in base al fatto che egli, da residente nell’insediamento di Alon Shvut, violava la legge internazionale e si sarebbe trovato in conflitto d’interessi nel valutare casi contro i coloni. I giudici hanno respinto il ricorso.
L’atmosfera montante contro i magistrati attivisti ha spinto la Beinisch ha reagine nel suo discorso di commiato. Ha affermato che l’umore del pubblico stava cambiando a causa di una “campagna per danneggiare la Corte, una campagna di delegittimazione.” In precedenza i media israeliani avevano riferito dell’avvertimento di “collaboratore stretto” della Beinisch circa il fatto che “è stata attraversata una linea rossa [dai critici della Corte]. Questa è una discesa molto scivolosa che potrebbe portare alla Germania degli anni ’30, quando calpestò brutalmente i diritti delle minoranze.”
Decisioni di non decidere
Ma, certamente nel caso della Legge sulla Cittadinanza, sembra che nel proteggere i diritti della minoranza anche le mani della Beinisch sembra non siano state poi così pulite come ha preteso lei e hanno preteso i suoi sostenitori. A dire il vero la presidente della Corte Suprema è stata tra quei magistrati che hanno difeso il diritto dei cittadini palestinesi di vivere con un coniuge proveniente dai Territori Occupati.  Ma fonti giudiziarie vicine al caso hanno segnalato ad Ha’aretz che, nonostante la sua posizione ufficiale, la Beinisch ha in realtà consegnato la maggioranza della corte ai sostenitori della legge.
Lo ha fatto ritardando la sentenza per due anni dopo le udienze finali, un periodo di tempo in cui la giudice Ayala Procaccia, veemente critica della legge, è andata in pensione.  Ella ha poi scelto di sostituire la Procaccia con un giudice della destra religiosa, Neal Hendel, piuttosto che con un giudice più liberale. Prima del pensionamento della Procaccia nel luglio 2011 c’era stato tempo più che sufficiente perché i giudici stilassero i loro verdetti. La decisione della Beinisch di prorogare la scadenza per arrivare a sentenza e la sua decisione di nominare Hendel ne ha predeterminato l’esito, hanno osservato le fonti in un articolo su Ha’aretz del 13 gennaio. Una di tali fonti ha aggiunto: “Risulta che, con la Corte Suprema attualmente sotto attacco, la Beinisch temesse di destare un putiferio politico e pubblico con un verdetto che revocasse la Legge sulla Cittadinanza. E così, anche se appoggiava la rottamazione della legge, in realtà non ha voluto che fosse revocata … La Beinisch non vuole terminare il suo mandato sotto un temporale di contrasti con la Knesset.” Gideon Levy, nel frattempo, ha apertamente definito il ruolo della Beinisch una “mascherata”.
In verità, nel giocare questa grande partita di inganni, la Beinisch ha seguito le orme del suo mentore Aharon Barak.
Un editoriale di Ha’aretz del 27 novembre 2011 osservava che la Corte Suprema era forse “la forza più significativa per la difesa della reputazione di Israele nel mondo.” Sia Barak sia la Beinisch hanno coltivato l’immagine dell’attivismo giudiziario precisamente per incoraggiare in occidente l’idea che la Corte operava come intransigente guardiana della democrazia israeliana.  Ma hanno fatto ciò di solito concedendo il minimo possibile alla protezione dei diritti di quei palestinesi i cui diritti erano in conflitto o con i principi centrali del sionismo o con il primato dell’occupazione.
Questa tendenza è stata evidente in entrambi i casi che hanno segnato lo zenit dell’attivismo della Corte Suprema alla fine degli anni ’90.  Nel caso delle torture i giudici sono sembrati vietare le torture – è così che la sentenza è stata interpretata nel mondo – mentre in realtà le autorizzavano nella misura in cui i servizi di sicurezza ne giustificavano l’utilizzo affermando che un sospetto era una “bomba a orologeria”.  Le organizzazioni dei prigionieri hanno osservato che le torture dei detenuti palestinesi sono proseguite con la stessa violenza nel corso della seconda intifada.
E nel caso dei Kadaan – il più difficile della lunga carriera giudiziaria di Barak  – il presidente della corte non ha compiuto un passo rivoluzionario, come diffusamente pubblicizzato, per por fine alle politiche segregazioniste di Israele a proposito dell’allocazione della terra.  Piuttosto egli ha sollecitato il comitato di ammissione di Katzir a riconsiderare la sua decisione relativa alla richiesta dei Kadaan.  La Corte non ha fatto nulla di sostanziale per far valere i diritti dei cittadini palestinesi a un uguale accesso alla terra o all’appartenenza alla comunità negli anni a seguire.  E per evitare qualsiasi danno derivante dalla sentenza Kadaan, la Knesset ha reagito nel 2011 cambiando la legge per dare un sostegno legale a tali comitati.  In larga misura come aveva fatto che strascinare il passo della Corte nel sentenziare sulla Legge sulla Cittadinanza, la Beinisch è anche sembrata non avere fretta di decidere sulla legalità della legge sui Comitati di Ammissione. Quel compito sarà lasciato alla corte presieduta dall’antiattivista Grunis.
I partiti di destra nella Knesset hanno ora approvato un’infornata di leggi palesemente antidemocratiche contro cui viene fatto ricorso alla Corte Suprema.  A gennaio la prima è finita davanti ai giudici. La legge sulla Nakba punisce gli organismi pubblici, scuole comprese, che ricordano l’espropriazione dei palestinesi nel 1948.  Tutti e tre i giudici che si sono occupati del caso, Beinisch inclusa, hanno respinto il ricorso utilizzando una nuova via di scampo giudiziaria: non erano in grado di decidere sulla costituzionalità della legge fino a quando non fosse stato possibile constatare come essa veniva attuata, o fino a quando il “ricorso non fosse maturo per il dibattito in giudizio”, secondo la formulazione della Beinisch.
La decisione di evitare le decisioni – o la decisione di apparire attivisti mentre in realtà si è conservatori – è stata la principale eredità degli anni Barak-Beinisch alla Corte Suprema.  Mentre la destra passa a attuare nuove leggi che circoscriveranno ulteriormente i diritti dei palestinesi di Israele e dei Territori Occupati, indubbiamente risulterà più futile che mai aspettarsi soccorso dalla Corte.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Middle East Research and Information Project
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2012 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
Smentito il mito del liberalismo della Corte Suprema di Israele

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