QUEI SOLDATI CHE ROMPONO LA LEGGE DEL SILENZIO


  Le Monde diplomatique, settembre 2011
«Vi dirò quando mi sono davvero angosciato. Stavamo intervenendo a Gaza, ci trovavamo in una trincea e alcuni bambini si sono avvicinati e hanno iniziato a lanciarci contro delle pietre. Le istruzioni precisavano che quando [un palestinese] si fosse trovato in un perimetro entro cui poteva raggiungerci con una pietra, ci avrebbe potuto colpire anche con una granata; allora gli ho sparato. Doveva avere tra i 12 e i 15 anni. Non penso di averlo ucciso, cerco di convincermene per avere l’anima in pace, per dormire meglio la notte. Mi sono angosciato quando, preso dal panico, sono andato a raccontare ai miei amici e alla mia famiglia che avevo mirato a qualcuno e che gli avevo sparato alle gambe o alle spalle. Erano tutti contenti: sono diventato un eroe, e hanno raccontato tutto in sinagoga. Io ero in stato di shock (1)
«Che cosa volete che i genitori di questo soldato dicano al loro figlio?, dice Avihai Stoler, un ex soldato che ha raccolto alcune delle testimonianze contenute nel libro Occupation of the Territories. «Non preoccuparti, figliolo; hai ucciso un ragazzino, e allora?» I genitori preferiscono non interessarsi al suo tormento.
Occupation of the Territories è una raccolta di testimonianze di soldati e soldatesse che prestano servizio o hanno prestato servizio in diverse unità dell’esercito israeliano, in Cisgiordania e a Gaza, dall’inizio della seconda Intifada, nel 2000. È di gran lunga l’opera più completa sul modus operandi israeliano nei territori occupati. Non vi si trova alcuna rivelazione sulle decisioni prese al più alto livello o dietro le quinte, ma degli elementi sulla realtà bruta e quotidiana del controllo militare sulle case e i campi dei palestinesi, sui loro vicoli e le loro strade, i loro beni e i loro tempo, sulla vita e la morte di ogni abitante di Cisgiordania e di Gaza.
«È la storia di una generazione, della nostra generazione»
Secondo fonti attendibili, fra i quaranta e i sessantamila israeliani hanno fatto parte di unità di combattimento nel corso degli ultimi dieci anni. Per fare questo libro ne sono stati intervistati settecentocinquanta. Calcolando che tutti questi soldati combattenti siano passati in un momento o in un altro nei territori occupati (il che può non essere il caso dei soldati dell’aviazione o della marina), risulta dunque che fra l’1 e il 2% di loro hanno fornito delle testimonianze schiaccianti. Vale a dire un campione notevole, di gran lunga superiore a quello richiesto per la realizzazione di un sondaggio o di uno studio universitario. Ognuno è libero di confutare le conclusioni degli autori, e di sostenere che lo stretto controllo di ogni aspetto della vita dei palestinesi sia vitale per la sicurezza di Israele, ma nessuno può negare che le cose funzionino così.
Il collettivo Shovrim Shtika («Rompere il silenzio») è stato fondato nel 2004 da alcuni soldati che avevano prestato servizio a Hebron e desideravano mostrare il loro punto di vista sull’occupazione. Le testimonianze evocano maltrattamenti, violenze gratuite o massacri arbitrari che talvolta rasentano i crimini di guerra: un handicappato mentale pestato, coperto di sangue, alcuni passanti inviati sulla cima di un minareto per fare esplodere degli oggetti sospetti che il robot non riesce a raggiungere... Vi si legge il racconto dell’omicidio di un uomo disarmato il cui unico crimine era stato l’essere appollaiato su un tetto («Oggi mi chiedete perché ho sparato? È proprio a causa della pressione, ho ceduto alla pressione degli altri», racconta un soldato). O ancora quello dell’esecuzione di poliziotti palestinesi disarmati, per vendicarsi di un attacco contro un vicinocheckpoint. Gli ordini di un alto ufficiale sulla condotta da tenere davanti a un presunto terrorista che giace a terra, ferito o morto: «Vi avvicinate al corpo, gli piantate la vostra arma fra i denti, e sparate». E scene multiple di furto, di saccheggio o di distruzione di mobili e di auto.
«Non è un “horror show” di Tsahal – spiega Stoler. È la storia di una generazione, della nostra generazione.» Durante i tre decenni seguiti alla guerra del 1967, una gran parte dei dibattiti in Israele verteva sulla necessità o la mostruosità dell’occupazione. In seguito, questo termine è quasi sparito dalle conversazioni. Per indicare i territori palestinesi, un israeliano utilizzerà i termini «Giudea», «Samaria», «Cisgiordania», o «territori», ma mai «territori occupati». Il termine «occupazione» è diventato quasi tabù, una parola di cattivo auspicio, da non pronunciare mai in pubblico. L’ho constatato io stesso nell’ambito del mio lavoro quando ho avuto la supervisione di una trasmissione televisiva in cui uno degli invitati ha affermato che la violenza aumentava in seno alla società israeliana «a causa dell’occupazione». È stato il panico totale fra i miei colleghi della regia. Hanno supplicato: «Dì al presentatore di chiedere al suo invitato di ritirare quello che ha appena detto».
A spiegare questa evoluzione vi sono diversi fattori. Innanzitutto, per gli israeliani, gli attentati suicidi della seconda Intifada hanno quasi dato carta bianca all’esercito per «sradicare il terrorismo». Inoltre, il processo di pace, interminabile e infruttuoso, è diventato una sorta di musica di sottofondo della scena pubblica, sulla quale ha avuto due effetti opposti. Da una parte, gli israeliani non sentivano più l’urgenza di risolvere il conflitto – poichè era già stato risolto, avendo noi, gli israeliani, accettato di cedere i territori, di optare per una soluzione a due stati, e di accordare l’autodeterminazione ai palestinesi. «La storia dei territori è finita», scriveva recentemente il più influente editorialista israeliano, Nahum Barnea. «Perché Israele se ne infischia della pace», titolava dal canto suo il settimanale americano Time nel settembre 2010 (2).
D’altra parte, a questi dati politici si aggiunge anche un fattore militare. Dall’inizio della seconda Intifada, e a maggior ragione da quando è stato costruito il muro di separazione, il controllo esercitato sui palestinesi è diventato più metodico, più sistematico, e più «scientifico». Occupation of the Territories tenta di analizzare questi metodi, e di mettere a nudo il gergo impiegato dai militari. Sulla base delle testimonianze raccolte, il collettivo Rompere il silenzio si sforza di trovare termini nuovi più adatti alla realtà. Così, è meglio parlare di «seminare la paura in seno alla popolazione civile» piuttosto che di «misure di prevenzione contro il terrorismo» in Cisgiordania e a Gaza; di «appropriazione e annessione» piuttosto che di «separazione»; di «controllo di tutti gli aspetti della vita dei palestinesi» piuttosto che del «tessuto vivo» («life fabric», formula militare che indica la rete stradale che serve da collegamento per la popolazione palestinese); di «occupazione» piuttosto che di «controllo». «La nostra missione era di destabilizzare – era il termine utilizzato – la vita dei cittadini e di tormentarli – rivela uno dei soldati interrogati. Era la definizione della nostra missione, perché i terroristi sono dei cittadini e noi volevamo destabilizzare le loro attività. Per riuscirci, bisognava perseguitarli. Sono sicuro di questo, e penso che sia la formula utilizzata ancora oggi, se gli ordini non sono cambiati.»
Testimonianze queste che ci fanno capire come la destabilizzazione e le persecuzioni a danno della popolazione locale non siano prettamente il frutto della negligenza o di un maltrattamento puro e semplice (pur esistendo anche questi): sono la chiave di volta della gestione dell’occupazione in Cisgiordania e a Gaza. «Se il villaggio è un luogo attivo, voi rendeteli insonni.»
Stoler è rimasto circa tre anni nella regione di Hebron. Vi ha incontrato soldati che hanno fatto saltare bombe nel centro di un villaggio «perché sappiano che ci siamo». «Pattuglia rumorosa», «pattuglia violenta», «manifestazione di presenza», «attività discreta», sono questi i termini per designare un solo e abituale modo di agire: penetrare in forze in un villaggio o in una città, lanciare granate, installare checkpoint improvvisati, perquisire le case in modo arbitrario, installarvisi per ore o per giorni, «creare [fra i palestinesi] un senso di persecuzione, affinché non si sentano mai tranquilli». Questi erano gli ordini a cui doveva obbedire.
La consegna è tormentare i palestinesi
Stoler e Avner Gvaryahu hanno prestato servizio in un’unità di élite la cui attività veniva valutata, secondo un alto ufficiale, dal numero dei cadaveri di terroristi accumulati. Entrambi deplorano il fatto che la società rifiuti di ascoltare ciò che hanno da dire. Per il lancio del loro libro, non si è mosso alcun canale televisivo israeliano, c’erano solo i media stranieri, il che lascia pensare che lo sconforto dei soldati israeliani interessi solo ai giapponesi o agli australiani. «Mio padre appartiene alla seconda generazione della Shoah – confida Gvaryahu. Per lui, i perseguitati, gli sventurati della storia, siamo noi.»
Ciò nonostante, tanto l’uno che l’altro rimangono stranamente ottimisti: la società finirà per comprendere ciò che si fa in suo nome, e si evolverà. Perché è la società che deve cambiare e non l’esercito. «Un giorno sono stato intervistato da una giornalista colombiana – ricorda Stoler. Mi ha chiesto perché tutto questo ci creasse dei problemi. In Colombia, i soldati ogni giorno decapitano ribelli nell’indifferenza più totale. Ma io penso che la società israeliana voglia conservare una certa moralità. È questo che ci spinge in avanti. Senza questa volontà collettiva, le nostre azioni non hanno più senso.»
«La società israeliana è stata presa in ostaggio – afferma da parte sua Gvaryahu. Gli interessi dei sequestratori sono diversi dai nostri, e tuttavia ci siamo innamorati di loro, come se fossimo colpiti dalla sindrome di Stoccolma. E’ facile appiccicare su queste malefatte il volto dei coloni, ma io non ci credo. Il vero volto dei sequestratori è il nostro.»
note:
* Giornalista di Haaretz, Tel Aviv. 
(1) Collettivo Breaking the Silence («Rompere il silenzio»), Occupation of the Territories: Israeli Soldier Testimonies 2000-2010, capitolo I, testimonianza 45, www.breakingthesilence.org.il 
(2) Karl Vick, «Why Israel doesn’t care about peace », Time, New York, 13 settembre 2010. (Traduzione di O. S.)

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