Palestina :Due donne raccontano l’opposizione non violenta all’occupazione di Giorgio Canarutto


All’inizio di febbraio, in una tappa a Torino di un giro di conferenze, Manal e Marimal al Tamimi hanno raccontato della lotta non violenta di Nabi Saleh contro l’occupazione.
Vicino a Nabi Saleh, villaggio di 550 abitanti fondato durante il periodo del Mandato Britannico, è sorta una colonia, Halamish. Dapprima sono arrivate un paio di roulotte, poi i coloni hanno occupato tutta la collina, fino alla vallata vicina al villaggio. Sono quindi cominciate le incursioni e la confisca dei terreni. I coloni tentano di impedire che gli abitanti del villaggio raggiungano le loro terre. Se riescono ad impedire loro l’accesso, la terra può essere dichiarata abbandonata e diventare confiscabile.
Oltre alla terra - raccontano - si sequestra l’acqua, che è garantita alla colonia in continuazione, mentre a Nabi Saleh è concessa due volte alla settimana. Gli abitanti di Nabi Saleh hanno chiesto permessi per ampliare delle costruzioni già esistenti. La risposta è stata no perché questo metterebbe in pericolo l’insediamento. (L’aggressore motiva i propri soprusi sul più debole con la necessità di difendersi). Le costruzioni permesse non sono sufficienti a dare un tetto ai nuovi nati. Marimal paventa che dovranno andarsene e che gli israeliani (a dire il vero li denomina ‘ebrei’; in un altro contesto aggiunge peraltro che i palestinesi rispettano l’ebraismo in quanto religione monoteista) potranno sostenere che se ne sono andati via spontaneamente. Racconta che vicino a più di metà dei villaggi palestinesi è stata costruita, allo scopo di bloccarne lo sviluppo, una colonia.
La lotta contro gli insediamenti è l’obiettivo principale dei palestinesi di Nabi Saleh. La confisca dell’acqua è stata la scintilla che ha innescato la lotta che, coordinata da comitati spontanei, è pacifica come in altri villaggi quali Budrus, Ni’lin, Bi’lin.
La protesta pacifica a loro parere è molto scomoda per l’occupazione israeliana. La polizia e l’esercito cercano di fermarla in tutti i modi e di impedire il più possibile che venga ripresa dai media. Per evitare un danno d’immagine si reprime la stampa, l’autorità israeliana cerca di impedire che si effettuino riprese video. Vi sono moltissimi arresti, anche Manal e Marimal sono state arrestate e sono rimaste in carcere per dieci giorni; sono state rilasciate solo dopo aver pagato 2000 euro a testa, fra cauzione e spese legali. Questa è una spesa che, se ripetuta, non è sostenibile.
Bassem, marito di Manal, è in carcere da undici mesi. Il tribunale israeliano gli rinnova di tre mesi in tre mesi la condanna alla detenzione amministrativa, senza accuse specifiche. Secondo Manal Bassem rischia due anni e mezzo di carcere, ma se confessa dei reati che non ha commesso può cavarsela con un anno solo. C’è un detenuto, Khader Adnan, da 50 giorni in sciopero della fame perché è da due anni in prigione senza accuse. (Nota: circa due settimane dopo la conferenza, durante le quali Khader ha continuato a fare lo sciopero della fame, le autorità hanno annunciato che non gli avrebbero più rinnovato la detenzione al termine del periodo). Racconta ancora Marimal che a un suo figlio, che era stato arrestato, gli israeliani avevano fatto firmare un foglio in ebraico, che il ragazzo non sa leggere, facendogli credere che erano delle formalità. Era invece una confessione che incriminava pure altri ragazzi.
Raccontano inoltre che in occasione di una manifestazione pacifica i soldati hanno sparato lacrimogeni nelle abitazioni. Le donne hanno cercato di uscire con i bambini, ma i soldati le hanno respinte in casa. Il loro opporsi è stato adoperato come pretesto per arrestarle. (Di nuovo in questa conferenza quello che viene raccontato mi ricorda la favola del lupo e dell’agnello: chi aggredisce accusa la vittima di aggredire). Marimal dice che vengono presi di mira anche i bambini. Si compiono perquisizioni nelle case dopo la mezzanotte, si fotografa chi c’è, si ritirano le carte d’identità che è obbligatorio presentare ai controlli. Le due donne hanno raccontato che una volta si sono rifugiate in un appartamento ad un piano alto, e all’interno sono stati sparati gas (non solo lacrimogeni ma anche tossici). Allora, per aiutare chi era all’interno ad uscire, delle persone in strada hanno formato una piramide umana, così i bambini sono stati sporti dalle finestre e affidati a chi stava sotto. Racconta Marimal che da quella volta, due anni fa, un bambino rifiuta il contatto con la madre perché il suo vissuto è che la mamma l’aveva abbandonato nel vuoto.
Gli israeliani giustificano la repressione definendola una difesa, una prevenzione del terrorismo: la motivano con una parola: ‘sicurezza’. Ipotizziamo che sia vero, sostiene Marimal. Potremmo riconoscere la buona fede nell’erigere il muro, potremmo sforzarci ulteriormente e comprendere anche perché è stato costruito oltre la Linea Verde. Ma l’alto numero di coloni al di là del muro contraddice questa motivazione. Non c’è per loro, si chiede, un problema di sicurezza?
Sono d’accordo con un articolo che Mustafa Bargouti ha scritto sul New York Times del 21 febbraio in cui, partendo dal caso di Khader Adnan, il detenuto in sciopero della fame, sostiene che in prospettiva la lotta non violenta avrà successo, come all’epoca di Gandhi. Secondo Marimal anche Israele comprende che non riuscirà a far fronte ad una terza intifada pacifica. Penso che Israele sia tentata di utilizzare la tensione nell’area per meglio giustificare la repressione e che forse è per questo che oggi minaccia di attaccare l’Iran e compie uccisioni a Gaza. Penso che sarebbe un gioco crudele e pericoloso che i democratici dovrebbero cercare di impedire, sostenendo con forza l’idea della pace in cambio di territori.

Giorgio Canarutto

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