Gli USA e la politica mediorientale “preelettorale”


Gli USA e la politica mediorientale “preelettorale”

I fatti epocali, e spesso sanguinosi, che stanno cambiando il volto del Medio Oriente, hanno in gran parte distolto l’attenzione dall’evoluzione delle politiche americane nella regione.
Esse tuttavia rimangono di importanza cruciale, anche nel determinare il corso degli eventi attuali, malgrado i numerosi discorsi che sono stati fatti sul declino dell’influenza americana a livello mondiale.
A prima vista, Washington sembra mantenere un “basso profilo”, o comunque un approccio “mediano” e multilaterale, in molte delle crisi mediorientali – dalla transizione egiziana alla rivolta siriana, alla crisi nucleare iraniana.
La necessità di rimettere ordine in casa propria, innanzitutto facendo fronte alla grave crisi economica interna, e le elezioni presidenziali del prossimo mese di novembre, sembrano distogliere ulteriormente la Casa Bianca dagli affari mediorientali, spingendola in apparenza verso un impegno più sfumato e diluito nel tempo, e certamente meno incline a ulteriori “avventure” militari dopo le disastrose esperienze dell’Iraq e dell’Afghanistan.
Eppure le scelte di Washington, a prescindere dal loro orientamento, continuano ad essere determinanti, ed alcuni atteggiamenti dilatori, così come certe manifestazioni di intransigenza – comportamenti dettati rispettivamente dall’esigenza di rinviare alcune questioni cruciali a dopo le elezioni, e da quella di attrarre il maggior numero di consensi nella campagna elettorale in corso – rischiano di avere gravi ripercussioni sulla regione mediorientale.
Le rivelazioni apparse sulla stampa americana nelle scorse settimane – che hanno messo a conoscenza l’opinione pubblica (non solo americana, ma internazionale) di un’escalation senza precedenti nelle operazioni condotte dagli aerei senza pilota (droni) in Pakistan e nello Yemen, e del ruolo di primo piano giocato dall’amministrazione Obama in una guerra “segreta” in atto (a livello informatico, e non solo) contro l’Iran – certamente non sono prive di conseguenze.
Almeno una parte di tali rivelazioni, a giudizio di molti osservatori, sarebbe stata “pilotata” direttamente dalla Casa Bianca nell’ambito di una campagna di immagine volta a promuovere, in patria, la candidatura di Obama al suo secondo mandato.
Ma se far sfoggio di determinazione, e di una politica del “pugno di ferro” quando si tratta di difendere la sicurezza nazionale, certamente rafforza Obama sul fronte interno e neutralizza gli attacchi dei repubblicani che lo accusano di passività e arrendevolezza, per altro verso ciò ha effetti devastanti sull’immagine dell’America in Medio Oriente e rischia di compromettere ulteriormente il già traballante negoziato sulla questione nucleare iraniana alla vigilia dei colloqui di Mosca (da alcuni considerati come “l’ultima spiaggia” dopo il deludente esito dell’incontro di Baghdad).
DALL’AUDACIA DELLA SPERANZA AL “PRAGMATISMO” BIPARTISAN
Le recenti rivelazioni rappresentano inoltre l’ennesima dimostrazione di quanto Obama si sia allontanato dagli assunti retorici con cui si era presentato al mondo islamico al momento della sua elezione, ricadendo in un approccio non troppo distante da quello del suo predecessore alla Casa Bianca.
Al momento di assumere il proprio incarico nel 2009, Obama si era riproposto di rivoluzionare i rapporti dell’America con il mondo islamico aprendo una nuova pagina di dialogo e cooperazione, di porre fine alle guerre in Afghanistan e in Iraq, di riavviare il processo di pace israelo-palestinese, e di privilegiare l’approccio diplomatico con l’Iran.
Ma, a più di tre anni da allora, la popolarità degli USA nel mondo islamico rimane ai minimi storici, il processo di pace in Palestina appare irrimediabilmente compromesso, il ritiro dall’Iraq è stato portato a termine lasciandosi alle spalle un paese diviso e sempre sul punto di ripiombare nella violenza settaria, l’impegno in Afghanistan non ha raggiunto alcun obiettivo duraturo mentre nel paese continua a scorrere il sangue, e l’apertura diplomatica nei confronti dell’Iran si è dissolta in un’escalation di sanzioni e di tensioni che potrebbero addirittura sfociare in un conflitto armato.
Come ha scritto l’analista arabo-americano James Zogby, l’establishment politico di Washington ha continuato a vivere “nella casa costruita da Bush”. Sia in patria che all’estero, gli effetti delle disastrose politiche della precedente amministrazione sono rimasti evidenti ovunque.
Pur abbandonando l’insostenibile approccio bellico su scala globale di Bush, Obama non ha saputo promuovere una politica realmente alternativa, rimanendo intrappolato nelle categorie mentali del suo predecessore.
Al di là delle aspre battaglie retoriche che contrappongono i democratici ai repubblicani, quello che è emerso dopo la fine dell’era Bush è un notevole “consenso bipartisan” sulle principali questioni di politica estera, in particolare per quanto riguarda il Medio Oriente.
Certamente esistono delle differenze tra Obama e il candidato repubblicano Romney, soprattutto rispetto all’approccio nei confronti di Israele, dell’Iran o della Russia. Ma tali differenze spesso riguardano i mezzi, più che i fini, e sono certamente acuite dalla retorica preelettorale.
Ad esempio, senza dubbio Romney è più schiacciato sulle posizioni del governo israeliano di quanto non lo sia Obama, ma ciò non ha impedito a quest’ultimo di cedere su tutta la linea per quanto riguarda il negoziato con i palestinesi, ed allo stesso tempo di sostenere Israele sotto il profilo della “sicurezza” (accordando aiuti tecnologici e militari) come forse nessun’altra amministrazione USA aveva fatto prima d’ora.
Similmente, nei confronti dell’Iran Obama certamente privilegia il binomio “sanzioni-negoziati” rispetto a un’eventuale opzione militare più di quanto non faccia Romney. Ma ciò non significa che l’attuale presidente abbia fatto concessioni significative a Teheran, né che egli non sarà pronto a intraprendere un’azione militare qualora l’Iran non ceda alle richieste americane, smantellando gran parte del proprio programma nucleare e sottoponendolo a una strettissima supervisione internazionale.
Allo stesso modo, Obama non ha affatto abbandonato la guerra globale “al terrore”, ma l’ha semplicemente riformulata, affidandosi alle operazioni speciali ed alle campagne degli aerei senza pilota piuttosto che ai costosi e insostenibili interventi militari tradizionali incentrati sull’invio di “truppe sul terreno”.
Emblematica di questo approccio è stata l’operazione piena di ombre e punti interrogativi con cui è stato “liquidato” Osama bin Laden.
Il nuovo consenso bipartisan sulla “guerra al terrore” richiede che i “cattivi” vengano uccisi prima che possano colpire l’America (cioè, mantiene il principio della “guerra preventiva”, senza starsi troppo a preoccupare sull’effettiva identità dei presunti “cattivi” e sulle loro reali intenzioni, come apparirà meglio nel seguito dell’articolo), ma sostiene che sia possibile farlo senza invadere altri paesi e senza accollarsi perciò la responsabilità di ricostruirli.
Allo stesso tempo, al di là della retorica preelettorale, all’interno dell’establishment politico americano vi è la consapevolezza diffusa che, nell’attuale contesto delle rivolte arabe e della rinnovata lotta per l’egemonia in Medio Oriente, gli Stati Uniti hanno a disposizione un ventaglio di opzioni alquanto ristretto e una limitata capacità di influenzare la politica interna di paesi come l’Egitto, la Siria o il Bahrein.
Il nuovo “consenso bipartisan”, tuttavia, non esclude nuovi interventi militari in Medio Oriente. Tali interventi dovranno essere però più selettivi e mirati, laddove sono davvero in gioco vitali interessi americani, ed il più possibile basati sul principio del “leading from behind” affermatosi con la guerra in Libia: in altre parole, si tratta (laddove è possibile) di “subappaltare” gli interventi a forze regionali e locali, e di renderli più “multilaterali”.
L’INESTRICABILE GROVIGLIO DELLA CRISI SIRIANA E DELLA QUESTIONE NUCLEARE IRANIANA
Questo “consenso bipartisan” non impedisce che le crisi che stanno attualmente incendiando il Medio Oriente vengano utilizzate come altrettante “armi” per attaccare l’avversario nello scontro preelettorale senza esclusione di colpi che è in corso in America.
Il candidato repubblicano Romney, ad esempio, sbandiera la questione nucleare iraniana e la crisi siriana per accusare Obama di debolezza e indecisione davanti all’opinione pubblica americana. Alcuni suoi sostenitori, come i senatori Lindsey Graham e John McCain, si sono spinti ancora oltre – il primo invocando un intervento militare USA in Siria, il secondo chiedendo di armare i ribelli e di creare “zone protette” in territorio siriano in cui essi possano trovare rifugio.
L’amministrazione Obama, pur non facendo proprio l’interventismo repubblicano, ha mantenuto in entrambe le crisi un approccio negoziale più che altro “dilatorio”, privo di qualsiasi contenuto reale (in ogni negoziato bisogna essere pronti a fare delle concessioni – in questo caso nei confronti di attori come la Russia e l’Iran – che però la Casa Bianca non ha esplicitato in alcun modo), ed ha mantenuto un atteggiamento ambiguo di fronte alla prospettiva di armare i ribelli in Siria.
Se diversi esponenti dell’amministrazione hanno messo in guardia contro i rischi di una simile operazione, si moltiplicano però le notizie secondo cui Washington starebbe cercando di coordinare l’afflusso di armi in Siria che proviene, in maniera sempre più massiccia dai paesi del Golfo – un’operazione che rischia di far sprofondare definitivamente la Siria in una sanguinosa guerra civile.
Allo stesso tempo, contribuendo a plasmare all’estero l’opposizione al regime di Damasco, e ad organizzarla sotto l’ombrello del Consiglio Nazionale Siriano (insieme a paesi come la Turchia, il Qatar e la Francia), l’amministrazione Obama sembra aver fatto proprio il concetto apertamente sbandierato dai suoi avversari repubblicani – cioè che rovesciare Assad è, prima ancora che un imperativo umanitario, un’occasione unica per alterare gli equilibri strategici regionali.
Il regime siriano rappresenta infatti il collegamento che unisce l’Iran a Hezbollah in Libano, e a Hamas in Palestina. Rovesciare Assad rappresenterebbe dunque per l’Iran “la più grande sconfitta strategica degli ultimi 25 anni”, come ha affermato il comandante dell’US Central Command (CENTCOM) generale N. James Mattis, in una recente audizione al Congresso.
Ma per l’amministrazione Obama accettare questo principio significa inevitabilmente attirarsi la strenua opposizione di Iran e Russia, cioè proprio di quei paesi con i quali si dovrebbe giungere eventualmente ad un compromesso negoziale per risolvere il conflitto siriano.
Inoltre, la Casa Bianca non può certo sperare di strappare all’Iran significative concessioni sulla questione nucleare se nel frattempo muove guerra – seppure solo indirettamente, sostenendo i ribelli siriani – al principale alleato di Teheran nella regione, la cui caduta contribuirebbe in maniera determinante a stringere il cappio attorno al collo del regime iraniano.
Non a caso, i negoziatori iraniani hanno chiesto di inserire la questione siriana nell’agenda negoziale ai recenti colloqui di Baghdad.
Washington, tuttavia, non solo ha rifiutato questa proposta, ma si è mostrata particolarmente intransigente in tali colloqui, imponendo la propria linea sul più morbido approccio europeo. In base a tale linea, sono stati offerti all’Iran solo pezzi di ricambio per la sua aviazione civile (e nessun alleggerimento delle sanzioni) in cambio dell’eventuale promessa iraniana di congelare l’arricchimento dell’uranio al 20% – una proposta che l’Iran avrebbe difficilmente potuto accettare.
OBAMA IL CYBER-GUERRIERO
Ancora una volta non è del tutto chiaro se tale intransigenza sia stata dettata dalla necessità di contrastare le accuse di debolezza lanciate a Obama dal suo sfidante repubblicano Romney, o dalle pressioni esercitate nei confronti dell’amministrazione dal governo Netanyahu e dalla lobby filo-israeliana a Washington.
In ogni caso, proprio nel bel mezzo del delicato negoziato nucleare, che è visto da molti come l’ultima speranza per evitare un conflitto potenzialmente catastrofico, è giunta la rivelazione del New York Times secondo cui, fin dai primi mesi della sua presidenza, Obama ha intensificato la “guerra segreta” avviata da Bush contro l’Iran, ordinando attacchi ai sistemi informatici che gestiscono il programma nucleare iraniano.
Gli Stati Uniti in collaborazione con Israele avrebbero dunque sviluppato il potentissimo virus “Stuxnet” che ha causato notevoli danni alle centrifughe dell’impianto iraniano di Natanz.
Questa campagna di sabotaggio cibernetico è stata accompagnata da una serie di “omicidi mirati” ai danni di scienziati nucleari iraniani, e da altre azioni di sabotaggio a installazioni della Repubblica Islamica, che molti analisti hanno attribuito a Israele.
La conferma del coinvolgimento americano (un coinvolgimento che peraltro molti sospettavano da tempo) in questa guerra “sotto copertura”  contro il regime iraniano è giunta in un momento in cui l’Iran è nuovamente sotto attacco informatico, questa volta a causa di un’entità chiamata “Flame”.
La notizia pubblicata dal New York Times ha perciò suscitato le reazioni furiose di molti commentatori iraniani, che avevano a più riprese definito l’attacco informatico di Stuxnet una palese violazione del diritto internazionale e della Carta dell’ONU, contro un paese come l’Iran che tuttora aderisce al Trattato di non-proliferazione e che continua a dichiarare che il proprio programma nucleare ha esclusivamente scopi civili.
Quello che si può dire è che certamente – a prescindere dalle reali intenzioni di Teheran riguardo al proprio programma nucleare – se un simile attacco fosse stato compiuto dall’Iran contro gli Stati Uniti o uno dei loro alleati, sarebbe stato considerato da Washington alla stregua di un atto di guerra e sarebbe andato incontro a una pesante rappresaglia.
Ma il dato più rilevante è che la conferma del coinvolgimento americano in questa guerra segreta all’Iran, avviata proprio mentre Obama ufficialmente tendeva la mano al regime iraniano all’inizio del suo mandato presidenziale, contribuisce a minare la fiducia iraniana nella possibilità di negoziare con una controparte che in più di un’occasione ha dimostrato di mentire.
Ancora una volta, però, una rivelazione che compromette l’immagine dell’America in una parte del mondo islamico è destinata ad accrescere i consensi nei confronti di Obama in patria.
Anche grazie al bombardamento mediatico che hanno subito, gli americani in gran parte ritengono il programma nucleare iraniano una minaccia reale, e un recente sondaggio ha indicato che il 53% di essi appoggerebbe un attacco militare all’Iran “anche se ciò dovesse causare un aumento del prezzo della benzina”.
E’ dunque facilmente immaginabile che la maggioranza degli americani sostenga un attacco informatico in grado di ritardare il programma nucleare iraniano. E che un simile attacco possa essere considerato dall’Iran come un atto di guerra probabilmente non ha per  loro grande importanza.
LA GUERRA DEI DRONI
Per ragioni analoghe, la notizia – riportata ancora una volta dal New York Times –secondo cui Obama supervisionerebbe direttamente una “lista di nominativi” di al-Qaeda da eliminare, ed approverebbe personalmente gli attacchi condotti dai droni, ha suscitato il consenso di molti americani, e ben poche critiche.
Sebbene entrambe le rivelazioni fatte dal quotidiano statunitense mettano in luce un grave deficit di trasparenza nel modo in cui la Casa Bianca prende decisioni rilevanti per la sicurezza nazionale (spesso tenendo all’oscuro il Congresso), è probabile che molti americani apprezzino il comportamento “deciso” del presidente “a difesa del paese”.
Recenti sondaggi indicano che fra gli americani vi è un alto gradimento per le politiche antiterrorismo del presidente, ed in particolare per le operazioni condotte dai droni.
Poco importa che questi apparecchi compiano degli “omicidi mirati”, talvolta liquidando per via extragiudiziale presunti “terroristi” che sono anche cittadini americani (come lo yemenita di nazionalità statunitense Anwar al-Awlaki), o che spesso colpiscano anche dei civili. L’aspetto più rilevante per molti americani è che i droni colpiscono i loro “nemici” senza bisogno di impegnare truppe USA, e dunque prevengono possibili perdite americane.
Al di là dell’effettiva veridicità della rivelazione del New York Times riguardante la “lista di nominativi” da eliminare, è un fatto assodato che Obama ha incrementato enormemente le campagne condotte dai droni, e più in generale le cosiddette “operazioni speciali”.
Uno degli aspetti più negativi di queste operazioni è che ai reparti che le conducono viene riconosciuto il massimo dell’autonomia, sia dal punto di vista economico che da quello decisionale, e vi è perciò il rischio concreto che simili operazioni diventino “indipendenti dalla politica”.
A partire dall’11 settembre, il bilancio delle operazioni speciali si è quadruplicato, ed esse coinvolgono ormai un personale militare e civile di ben 66.000 persone, che opera in un “teatro di operazioni” in continua espansione che va dall’Asia all’Africa, all’America Latina.
Di pari passo si sono estese le campagne dei droni controllate dalla CIA, che vanno dal Pakistan alla Somalia passando per lo Yemen, e che oltre a colpire “obiettivi militari” hanno ucciso centinaia di civili.
In Pakistan le missioni dei droni sono una delle cause di maggior attrito fra Islamabad e Washington, mentre i due paesi sono ormai da tempo sull’orlo di una totale rottura dei rapporti. Alla decisione americana di intensificare le missioni, Islamabad ha risposto rifiutandosi di riaprire le vie di approvvigionamento per le forze NATO in Afghanistan chiuse ormai dallo scorso novembre, quando 24 soldati pakistani rimasero uccisi in un bombardamento americano per cui Washington a tutt’oggi rifiuta di chiedere scusa.
In realtà, come ha scritto l’ex agente della CIA Robert Grenier, in Pakistan gli Stati Uniti si sono spinti ben al di là di una limitata campagna contro terroristi internazionali, e utilizzano i droni come strumento di “controinsorgenza”, cioè per colpire i militanti che combattono contro le truppe alleate in Afghanistan.
Come sottolinea Grenier, ormai in questo tipo di operazioni nelle aree tribali del Pakistan la distinzione fra elementi combattenti e non-combattenti è divenuta estremamente labile, e si è giunti al punto che la differenza fra terroristi, militanti e semplici simpatizzanti ha praticamente perso ogni significato, con conseguenze che sono facilmente immaginabili.
SI RIACCENDE UN VECCHIO FRONTE DELL’ETERNA GUERRA AL TERRORE
Qualcosa di molto simile sta avvenendo attualmente nello Yemen, un paese colpito da una spaventosa crisi umanitaria dovuta alla scarsità di acqua e di cibo, dove il coinvolgimento militare americano sta aumentando in maniera preoccupante.
Un crescente numero di uomini delle forze speciali USA sta nuovamente addestrando il personale militare yemenita (secondo uno schema del tutto simile a quello che era in atto con il deposto dittatore Ali Abdullah Saleh).
Lo Yemen è considerato il “ventre molle” della penisola araba, e si ritiene che al-Qaeda abbia una significativa presenza nel paese. Ma in realtà i problemi dello Yemen vanno ben al di là di al-Qaeda, e comprendono una rivolta tribale sciita nel nord (che preoccupa particolarmente Riyadh) e un movimento secessionista nel sud.
Pur essendo poverissimo, il paese ha una rilevanza strategica enorme: dallo Yemen si controllano le vitali rotte marittime dell’Oceano Indiano, attualmente minacciate dalla pirateria somala, e si controlla lo stretto di Bab el-Mandeb, che permette l’accesso al Mar Rosso.
Soprattutto a causa della rivolta sciita nel nord, lo Yemen rischia di diventare uno dei teatri dello scontro a sfondo settario che contrappone Riyadh a Teheran; e il crescente coinvolgimento militare americano nel paese fa temere che gli Stati Uniti si stiano facendo trascinare in questo confronto che potrebbe appiccare il fuoco all’intera regione.
Nello Yemen come in Pakistan, i droni americani troppo facilmente scambiano militanti locali per agenti di al-Qaeda, e spesso colpiscono i civili. Per citare ancora una volta Grenier, “ci si potrebbe chiedere quanti yemeniti potranno essere spinti in futuro verso l’estremismo violento per reazione ad attacchi missilistici condotti con noncuranza, e quanti militanti yemeniti che perseguono un’agenda strettamente locale diventeranno nemici giurati dell’Occidente in risposta alle azioni militari americane condotte contro di loro”.
Ancora una volta, sia in paesi periferici come lo Yemen e il Pakistan, sia nel cuore stesso del Medio Oriente, le politiche americane – siano esse il frutto di un clima preelettorale, o di strategie più consolidate e a lungo termine – rischiano di scavare un solco di odio e di sangue fra gli Stati Uniti e il mondo islamico.


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