Il dilemma dell’Occidente in Siria e l’afghanizzazione del conflitto


Il dilemma dell’Occidente in Siria e l’afghanizzazione del conflitto

Parlando di fronte al neoeletto parlamento, il presidente siriano Assad ha paragonato la sanguinosa repressione del dissenso nel paese all’azione di un chirurgo che opera per salvare la vita del paziente.
“Quando un chirurgo … taglia, pulisce e amputa, e le ferite sanguinano, gli diciamo che ha le mani sporche di sangue? O lo ringraziamo per aver salvato il paziente?”.
Ecco un buon riassunto dell’approccio adottato dalle forze di sicurezza siriane, e denunciato da un recente rapporto della Commissione internazionale d’inchiesta sulla Siria nominata dall’ONU.
Secondo il rapporto, le forze governative operano nel modo seguente: prima di un attacco vengono bloccate le principali vie d’accesso a un villaggio o ad un quartiere. Segue il bombardamento, talvolta “chirurgico”, per colpire specifiche roccaforti dei ribelli, talvolta indiscriminato, nei confronti di aree residenziali dove si ritiene che siano nascosti miliziani dell’opposizione.
Dopo il bombardamento, le forze di sicurezza entrano nella zona colpita, solitamente con la copertura di cecchini che operano dai tetti delle abitazioni, e procedono a una “bonifica” casa per casa.
L’apparato di sicurezza siriano ha operato in questo modo un po’ ovunque nel paese: a Idlib, Homs, Hama, Daraa, Damasco, Aleppo. Così il regime ritiene di estirpare il “virus” e restituire la “salute” al corpo “malato” della Siria.
Assad con il suo ultimo discorso ha confermato ancora una volta di non aver fiducia nella democrazia, di non credere a riforme che non siano di facciata, e di accettare un dialogo solo con coloro che di fatto sono accondiscendenti con il regime, mentre tutti quelli che ne mettono in discussione il potere vengono assimilati a “nemici della Siria” al servizio di potenze straniere.
Eppure, il progressivo evolvere degli eventi in Siria sta per certi versi facendo il gioco di Assad, “portando acqua al suo mulino”.
CRISI INTERNA O COMPLOTTO STRANIERO?
“Questa non è una crisi interna”, ha detto Assad nel suo discorso. Ma ciò è falso, poiché la rivolta siriana è nata all’interno del paese, soprattutto nelle aree rurali impoverite e nelle periferie degradate delle grandi città, come risultato di una situazione economica sempre più insostenibile, delle enormi sperequazioni e del degrado sociale, della corruzione e dell’oppressiva ingerenza dell’apparato di sicurezza del regime nella vita quotidiana dei cittadini.
Questa crisi, ha però proseguito Assad, “è piuttosto una guerra straniera condotta con strumenti interni”, e purtroppo questa affermazione, essenzialmente falsa in principio, si sta in parte trasformando in realtà.
Assad ha affermato che la Siria è sotto attacco a causa del suo storico appoggio alla “resistenza”, della sua opposizione a Israele ed all’Occidente – e della sua alleanza con l’Iran, si dovrebbe aggiungere. E’ questo ruolo della Siria che è sotto attacco, secondo Assad: “Vogliono danneggiare questo ruolo, vogliono distruggerlo, vogliono dividere questa nazione”.
L’evolvere degli eventi in Siria sta in parte avvalorando la tesi del suo presidente. L’opposizione popolare in Siria è andata incontro a un processo di crescente militarizzazione – in primo luogo (bisogna sottolinearlo) a causa della sanguinosa repressione del regime, che forse ha intenzionalmente puntato a questo obiettivo.
Però, a contribuire a tale processo sono stati anche i crescenti appelli di alcuni paesi – in particolare quelli del Golfo, guidati da Arabia Saudita e Qatar, ma diverse voci si sono levate anche dall’Occidente – ad “armare i ribelli” contro il sanguinario Assad.
Il processo di militarizzazione è stato altresì incoraggiato dal “precedente libico”, che ha illuso molti siriani sulla possibilità di ripercorrere la strada tracciata dai ribelli che da Bengasi erano partiti alla conquista dell’intera Libia con l’aiuto determinante della NATO.
Un organismo di rappresentanza dell’opposizione, il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), è stato forgiato all’estero su imitazione del Consiglio Nazionale Transitorio libico, da paesi come Turchia, Francia, Qatar, Stati Uniti – ovvero dai nemici del regime siriano, o da suoi “ex-amici” come Ankara e Doha.
Questi stessi paesi (fra i quali non bisogna tralasciare l’Arabia Saudita) si sono posti alla testa di una coalizione di “Amici della Siria” trasformandola di fatto in un’alleanza di “Nemici del regime di Damasco”.
E mentre il CNS veniva da essi incoraggiato a chiedere sempre più apertamente l’intervento militare straniero, altre voci ugualmente importanti dell’opposizione siriana – e addirittura maggiormente radicate all’interno del paese rispetto al CNS (composto in gran parte da esuli), ma più inclini all’approccio nonviolento e al rifiuto di qualsiasi azione bellica dall’esterno – sono state emarginate e scartate.
Il fatto che questi paesi abbiano ceduto alla tentazione di sfruttare la rivolta siriana per cercare dialterare gli equilibri regionali (di fatto prendendo in ostaggio l’opposizione al regime di Damasco), ha permesso ad Assad di sbandierare con sempre maggior convinzione la sua “teoria della cospirazione”, e di affermare che la Siria era vittima di un complotto straniero; ed ha spinto Russia e Cina su posizioni contrapposte a quelle del CNS e dei suoi sponsor internazionali.
CRISI DELLA CAMPAGNA CONTRO DAMASCO
Nel frattempo, qualcosa non ha funzionato nell’alleanza anti-Assad. Il già poco rappresentativo CNS ha dimostrato di essere tragicamente diviso al suo interno (oltre che dominato dai partiti islamici, con in testa i Fratelli Musulmani siriani). L’Esercito Siriano Libero, che avrebbe dovuto divenire il “braccio armato” del CNS e la cui leadership opera dalla Turchia, si è dimostrato a sua volta frammentato, spesso non in buoni rapporti con lo stesso CNS, e soprattutto non in grado di esercitare un’influenza significativa in Siria: esso è solo una fra le numerose formazioni armate che ormai operano nel paese.
E mentre Arabia Saudita e Qatar hanno continuato a sostenere a gran voce la necessità di armare i ribelli siriani, a Stati Uniti ed Europa è apparso in tutta la sua chiarezza quanto fosse ardua l’impresa di rovesciare un regime solido e ben armato come quello di Damasco sostenendo un’opposizione ideologicamente divisa e militarmente inconsistente.
Inoltre, le elezioni presidenziali americane del prossimo mese di novembre e la grave crisi economica e finanziaria in cui si dibatte l’UE assorbono Washington e i paesi europei, scoraggiandoli dall’intraprendere rischiose e dispendiose “avventure” all’estero.
Da qui la scelta di dare spazio a un’iniziativa diplomatica come il piano di Kofi Annan, che prevedeva l’imposizione di un cessate il fuoco (ufficialmente entrato in vigore il 12 aprile) come misura preliminare per avviare un negoziato tra le parti in conflitto in Siria, senza ingerenze esterne.
Ma il piano Annan era destinato a fallire fin dall’inizio, non solo perché il previsto dispiegamento di appena 300 osservatori in Siria era tragicamente insufficiente, ma in primo luogo perché il piano, appoggiato da tutta la comunità internazionale a parole, in realtà non ha ricevuto il necessario appoggio diplomatico.
Invece di spingere unanimemente le parti a negoziare, i fronti internazionali contrapposti sono rimasti ciascuno sulle proprie posizioni. Mentre Russia e Iran hanno continuato a sostenere il regime di Damasco ed a vendergli armi, i paesi arabi del Golfo hanno intensificato la loro campagna volta a finanziare e armare i ribelli – una campagna di fronte alla quale gli Stati Uniti hanno mantenuto una posizione quantomeno ambigua.
L’intensificarsi degli attentati dinamitardi e suicidi contro obiettivi governativi in Siria, come quello che lo scorso 10 maggio ha massacrato oltre 50 persone a Damasco, testimonia la comparsa di una “terza forza” che va ad aggiungersi alle due parti in conflitto nel paese (il regime e i ribelli). Tale forza è rappresentata da elementi terroristici o jihadisti la cui identità è ancora alquanto misteriosa, ma essa è innegabilmente presente, e forse gode dell’appoggio di paesi stranieri (in particolare, secondo alcuni, dei summenzionati paesi del Golfo).
IL MASSACRO DI HOULA COME SVOLTA DEL CONFLITTO?
L’orrendo massacro consumatosi a Houla alla fine di maggio – in cui sono periti oltre 100 civili, molti dei quali donne e bambini, in parte uccisi da un bombardamento con armi pesanti ed in parte trucidati con armi da taglio e colpi sparati a bruciapelo – ha suscitato unanime indignazione nel mondo, ed è stato considerato in Occidente come un possibile punto di svolta del conflitto.
In Europa e in America alcuni si sono spinti a paragonare questo eccidio al massacro di Srebrenica del 1995 in Bosnia (che fu all’origine del successivo intervento della NATO), in cui morirono però oltre 8.000 persone (in Siria le stime parlano di circa 13.000 morti dall’inizio della crisi a marzo dello scorso anno).
In Occidente la strage di Houla è stata attribuita in maniera quasi unanime al regime (il bombardamento sarebbe stato compiuto da forze governative, e il successivo eccidio “casa per casa” sarebbe stato compiuto dai famigerati “shabiha”, bande alawite armate dal regime stesso).
Alcuni indizi sembrerebbero in effetti puntare in questa direzione, non ultimo il fatto che Houla, prevalentemente sunnita, è circondata da villaggi prevalentemente alawiti e cristiani (da tali villaggi potrebbero essere giunte le bande alawite degli shabiha).
Tuttavia, una commissione d’inchiesta indipendente sarebbe necessaria per stabilire esattamente colpe e responsabilità, anche alla luce del fatto l’area di Houla era una zona di conflitto, e che le forze ribelli si sono macchiate anch’esse di crimini odiosi, come ha riconosciuto il summenzionato rapporto della Commissione ONU.
Ma il dato rilevante è che Mosca ha invece sposato la tesi del regime siriano, secondo cui le forze governative sarebbero state attaccate da gruppi armati che avrebbero poi provveduto a trucidare i civili, aggiungendo ad essi i cadaveri dei loro compagni morti nel precedente scontro con le forze di Damasco.
Il portavoce del ministero degli esteri russo ha dichiarato che il massacro di Houla è stato un tentativo pianificato di impedire una soluzione politica della crisi e di “spingere la situazione in Siria verso una nuova sanguinosa spirale di violenza”.
La scorsa settimana Russia e Cina hanno votato contro la risoluzione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, deludendo le speranze di coloro che in Occidente si erano illusi che il massacro di Houla avrebbe spinto Mosca e Pechino a “scaricare” il regime di Damasco.
LO SCOGLIO RUSSO E LA “SOLUZIONE YEMENITA”
Queste speranze erano legate alla possibilità (di cui alcuni parlano da un po’ di tempo, in Europa e negli USA) di applicare in Siria la cosiddetta “soluzione yemenita”, allontanando dal potere Assad ma lasciando in piedi il regime – proprio come è avvenuto recentemente nello Yemen.
I sostenitori di questa opzione affermano che essa avrebbe il pregio di “accontentare” Mosca salvaguardando i suoi interessi in Siria. Ma la “soluzione yemenita” (al di là del fatto che rischia di rivelarsi una “non-soluzione” per lo stesso Yemen) appare inapplicabile in Siria perché il regime nel suo complesso non è meno responsabile di Assad (e dei membri della sua famiglia) riguardo ai crimini commessi nel paese. Inoltre tale soluzione appare inaccettabile per la maggioranza sunnita, dopo tutto il sangue che è stato versato. Infine, essa non sarebbe accettata neanche dai paesi del Golfo.
Dal canto suo, Mosca ha inviato segnali contraddittori. Tuttavia, quel che è evidente è che la Russia non vuole un cambio di regime in Siria che sia dettato dall’Occidente. Il Cremlino non è necessariamente determinato a difendere Assad o il suo regime ad ogni costo, ma vuole che ogni cambiamento avvenga rispettando le sue condizioni.
Per Mosca non si tratta soltanto di difendere i propri interessi materiali in Siria, come la base navale di Tartus o i suoi contratti per la vendita di armi, ma di salvaguardare il principio della sovranità di ciascun paese sui propri affari interni. Una necessità che accomuna Mosca a Pechino, e che è divenuta imprescindibile per entrambe alla luce dell’intervento NATO in Libia (fra l’altro, non va dimenticato che la Primavera Araba è stata accolta con profondo sospetto dall’autocratica Cina, e che lo stesso Putin ha dovuto fare i conti nei mesi scorsi con la propria rivolta popolare interna).
Mosca e Pechino sono poi scontente dell’alleanza di fatto che è emersa tra la NATO e i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (anch’essi, al pari di Russia e Cina, certamente non democratici) – una partnership che appare intenzionata a definire le caratteristiche del nuovo ordine regionale cambiando regimi secondo le proprie esigenze.
Mosca infine rifiuta la prospettiva dell’ascesa al potere di forze islamiche in Siria. Il Cremlino ricorda perfettamente che il crollo dell’Unione Sovietica fu facilitato dalla disfatta in Afghanistan per mano di forze islamiche sponsorizzate dagli Stati Uniti e dai paesi della penisola araba. La Siria è pericolosamente vicina al turbolento Caucaso russo, e un “revival islamico” nella regione, così come in Asia centrale, è visto con timore dalla Russia.
Il livello di sfiducia reciproca tra Mosca e i paesi arabi del Golfo  che sostengono incondizionatamente la rivolta siriana (prima fra tutti l’Arabia Saudita) è palpabile, e traspare chiaramente dagli aspri commenti che appaiono ultimamente sulla stampa saudita all’indirizzo della Russia.
LE OPZIONI DELL’OCCIDENTE
Al di là della speranza di portare Mosca dalla propria parte, il massacro di Houla ha ravvivato in Occidente un dibattito purtroppo alquanto sterile sulle opzioni a disposizione per affrontare la crisi siriana.
Se si eccettua la posizione attendista di coloro che non vogliono farsi coinvolgere in questa fase in un conflitto sanguinoso e dagli esiti imprevedibili, e per il momento preferiscono “rimanere alla finestra”, le opzioni che sono state prese in esame da osservatori ed esperti occidentali sono le solite: armare l’opposizione siriana, creare zone cuscinetto al confine con la Siria o “santuari” per i ribelli all’interno dello stesso territorio siriano, incoraggiare la ribellione dei curdi siriani e delle tribù arabe nell’est della Siria in modo da costringere il regime a combattere su più fronti, o addirittura ricorrere a bombardamenti mirati e ad altre forme di intervento militare diretto.
Se la posizione “attendista” non impedisce al conflitto di aggravarsi e forse di coinvolgere paesi limitrofi, visto che esso ha ormai acquisito una dinamica regionale propria, la posizione “interventista” implica ancor più chiaramente un’escalation del conflitto, ed anche coloro che la sostengono riconoscono che gli esiti sarebbero difficilmente controllabili.
Fra coloro che si dicono favorevoli all’idea di armare i ribelli vi è chi afferma che questo è l’unico modo per fermare i massacri da parte del regime ed evitare un’estensione del conflitto ai paesi vicini. Una simile tesi (che essenzialmente coincide con quella dei paesi del Golfo) è però quantomeno opinabile, e rischia di ottenere l’effetto opposto.
Vi sono però anche quelli che giustificano il loro appoggio all’idea di armare i ribelli affermando che ormai è “troppo tardi per un lieto fine” in Siria, e che, visto che la guerra è già in atto, è meglio che la vittoria sul campo “avvenga tra un anno piuttosto che fra dieci”.
Una simile presa di posizione, tuttavia, significa accettare che la Siria vada incontro a una carneficina e a una distruzione enormemente superiori ai già drammatici livelli attuali. E, se vi saranno dei vincitori, avranno in mano un paese che sarà un cumulo di macerie fumanti.
Lo stesso vale nel caso di qualsiasi forma di coinvolgimento militare più o meno diretto da parte dell’Occidente, che al momento appare meno probabile, ma non certo scartato a priori, se un personaggio del calibro di Henry Kissinger ha ritenuto necessario scrivere sul Washington Post un articolo intitolato “Syrian intervention risks upsetting global order”.
In questo articolo egli mette in guardia da una forma di “intervento umanitario” che sancisca il principio per cui alcuni settori della comunità internazionale possono intervenire in guerre civili di altri paesi: l’Occidente per “imporre la democrazia”, paesi arabi come le ricche monarchie del Golfo sulla base di un concetto di “solidarietà settaria” (in questo caso sunnita) con una popolazione oppressa.
Kissinger riconosce che un simile intervento non avrebbe solo motivazioni umanitarie, bensì anche ragioni chiaramente strategiche, ma proprio sulla base di ragionamenti strategici egli mette in guardia sui rischi che gli Stati Uniti correrebbero nell’impegnarsi in un conflitto che avrebbe grandi probabilità di finire come quello afghano o quello iracheno (con implicazioni regionali forse ancora più gravi).
Fra l’altro, va detto che l’amministrazione Obama ha fin qui mantenuto una posizione ambigua nei confronti della crisi siriana: se da un lato essa ha affermato fino a questo momento di non voler farsi coinvolgere in un conflitto in Siria, dall’altro vi sono crescenti segnali che essa sta in qualche modo cercando di coordinare il flusso di armi provenienti dal Golfo e dirette ai ribelli in Siria.
Probabilmente, visto che le armi stanno comunque affluendo in Siria, Washington non vuole rimanere tagliata fuori, e vuole fare in modo che esse arrivino solo a gruppi ribelli considerati “affidabili” (ovvero che non giungano a gruppi terroristici o jihadisti).
Se, tuttavia, si può legittimamente dubitare del successo di una simile impresa (come verrà meglio chiarito più in là nell’articolo), è evidente che essa va in ogni caso in direzione di un’escalation del conflitto, senza che vi sia peraltro alcun fondato motivo di ritenere che dei ribelli meglio armati possano avere il sopravvento in tempi ragionevolmente brevi su un regime che dispone di forze di sicurezza enormemente più organizzate ed equipaggiate di quelle di cui disponeva Gheddafi.
LA DIPLOMAZIA DIMENTICATA
Al di là delle posizioni “interventiste” e di quelle “attendiste” fra le quali sembra dibattersi l’Occidente, resta la consapevolezza che l’unica strada per scongiurare la prospettiva di un conflitto sanguinoso e dagli esiti sconosciuti sarebbe quella diplomatica che sembra essere stata scartata di fatto nel momento in cui non si è dato il necessario appoggio al piano Annan.
Questa strada (tuttora apparentemente percorribile, ma probabilmente solo in linea di principio) prevede l’immediata smilitarizzazione del conflitto (attraverso l’impegno di tutti gli attori internazionali coinvolti – russi, iraniani, turchi, sauditi, qatarioti, americani – a cessare ogni forma di appoggio bellico alle parti coinvolte nella crisi), affiancata da una pressione incisiva e unanime volta a portare il regime e l’opposizione al tavolo negoziale).
Un simile percorso (che è stato pur suggerito da alcuni analisti) appare tuttavia impervio perché comporterebbe l’apertura di un negoziato a tutto campo con attori come la Russia e l’Iran, ed allo stesso tempo uno sforzo per bloccare la campagna dei paesi del Golfo intesa ad armare i ribelli siriani – due fronti sui quali l’Occidente sembra restio ad impegnarsi o a fare concessioni significative (ad esempio, durante i recenti colloqui di Baghdad sulla questione nucleare, gli Stati Uniti hanno rifiutato la proposta iraniana di inserire la Siria e il Bahrein nell’agenda dei negoziati).
Comprendere questo punto è però essenziale: il conflitto siriano, nato come una crisi interna, è divenuto uno scontro che trascende la Siria ed ha, già adesso, una dimensione regionale che coinvolge gli equilibri con la Russia e la Cina, la questione nucleare iraniana, e il conflitto per l’egemonia tra Riyadh e Teheran (e, si potrebbe aggiungere, Ankara).
E’ questo che la rende così difficile da risolvere in assenza di un “negoziato regionale”, ed allo stesso tempo così pericolosa. Dati gli interessi coinvolti, infatti, se la diplomazia fallirà (cosa che al momento sembra tragicamente inevitabile), il conflitto siriano è destinato a un’escalation che potrebbe appiccare il fuoco all’intera regione.
AFGHANIZZAZIONE DEL CONFLITTO?
I recenti attentati terroristici contro obiettivi del regime in Siria hanno acceso un dibattito internazionale fra analisti ed osservatori sulla “possibile infiltrazione di al-Qaeda” nel paese. Questo dibattito è stato per certi versi fuorviante, soprattutto nella misura in cui si continua a ritenere al-Qaeda come un’organizzazione strutturata e definita: al-Qaeda è ormai più che altro un “marchio”, un’ideologia che può essere abbracciata da chiunque.
Il dato che deve realmente far riflettere è che si stanno moltiplicando i segnali che indicano un’intensificarsi dell’afflusso di “combattenti islamici” in Siria. Solo alcuni di questi combattenti (libanesi, iracheni, tunisini, libici, ecc.) hanno tendenze qaediste, mentre altri sono combattenti salafiti, o semplicemente giovani sunniti che vanno a compiere il “jihad” in solidarietà con la maggioranza sunnita oppressa della Siria.
Dietro questa progressiva mobilitazione vi è non soltanto l’attivismo dei siti jihadisti, ma lapropaganda di paesi come l’Arabia Saudita, con i loro predicatori ed i loro canali satellitari in grado di raggiungere tutto il mondo arabo.
Nel regno saudita si effettuano pubblicamente raccolte di fondi per i combattenti in Siria, i dotti religiosi emettono “fatwa” di condanna del regime siriano e della setta alawita a cui esso appartiene, e i predicatori pronunciano appelli ufficiali ad armare l’opposizione in Siria, e talvolta incoraggiano i giovani ad andare a compiere il jihad in quel paese.
In altre parole, secondo alcuni osservatori arabi, si sta creando un clima non dissimile da quello che negli anni ’80 portò alla mobilitazione islamica in Afghanistan per combattere contro la “minaccia sovietica”, con la differenza che questa volta, nel clima di polarizzazione settaria in cui sta sprofondando l’intera regione mediorientale, la minaccia contro cui ci si scaglia è quella “iraniana sciita” – non solo in Siria (dove è incarnata dalla minoranza alawita alleata di Teheran, e da molti arabi sunniti assimilata allo sciismo), ma in Libano, in Iraq, e in Bahrain (dove, malgrado l’assenza di prove in proposito, la propaganda saudita dipinge la rivolta popolare interna come una “macchinazione dell’Iran”).
In un simile contesto, come farà l’amministrazione Obama a “coordinare” l’afflusso di armi in Siria affinché giungano solo a “gruppi armati affidabili”? Alla luce di quanto è successo in Afghanistan, un tentativo del genere (se davvero Washington è in buona fede, quando afferma di volerlo perseguire) è destinato inevitabilmente al fallimento.
Anche se questa volta gli arabi sunniti non andranno a combattere in Siria per creare un emirato islamico, come in parte accadde ai tempi di al-Qaeda in Iraq, ma per una comune “solidarietà sunnita” contro il “nemico sciita”, i risultati potrebbero essere ugualmente devastanti.

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