Israele/Palestina. Lo Stato unico c'è già


Le voci fuori dal coro a favore di azioni unilaterali si moltiplicano. Una serie di dichiarazioni, annunci ed affermazioni che servono però soltanto a distrarre dalla realtà di uno stato unico che prende forma giorno dopo giorno. Ce lo ricorda il premier israeliano Netanyahu, che autorizza la costruzione di 850 nuove abitazioni in Cisgiordania.
 di Stefano Nanni
 L’ultima “scossa” è arrivata il 30 maggio. Ad una conferenza tenutasi all’Institute for National Security Studies (Tel Aviv), il ministro della Difesa Ehud Barak ha dichiarato che Israele dovrebbe contemplare seriamente un parziale ritiro dalla Cisgiordania, imponendo così dei confini allo Stato palestinese.
"Abbiamo una maggioranza importante di 94 membri della Knesset – una delle più solide nella storia parlamentare israeliana, ndr – , è arrivata l’ora di condurre le redini del processo diplomatico. L’inazione non è più possibile".
Nonostante non abbia fornito delle specifiche a questa proposta, Barak si va ad aggiungere a quelle vocipolitiche, accademiche e degli analisti secondo cui le negoziazioni post-Oslo non sono ormai più praticabili e, sebbene la soluzione a 'due Stati' sia ancora viva ufficialmente, alcuni hanno già virato verso un approccio unilaterale.
Tuttavia le parole del ministro della Difesa non sono state accolte positivamente.
Il portavoce di Mahmoud Abbas, Nabil Abu Rudineh ha dichiarato che l’Autorità Palestinese crede ancora alla soluzione a 'due Stati', sottolineando che tali proposte unilaterali mirano all’esclusione di Gerusalemme dai negoziati, tema scottante su cui non c’è mai stata una seria intenzione di dialogo, da ambo le parti.
Ma “senza Gerusalemme, non ci accorderemo su nulla” – ha concluso Rudineh.
Un’altra forte posizione discordante è arrivata anche dall’interno dello stesso governo di cui Barak è parte. Il ministro dell’Educazione Gideon Sa’ar ha criticato severamente il suo collega, chiarendo che “La sua posizione non rappresenta quella ufficiale del governo".
"Com’è possibile che ci siano persone che abbiano queste idee pericolose dopo il completo fallimento della scelta di ritirarsi da Gaza?”.
A fargli eco è intervenuto anche il vice premier israeliano Moshe Yaalon, che dal palco della stessa conferenza di Barak ha insistito sul fatto che intraprendere un ritiro, anche parziale, dalla Cisgiordania rappresenterebbe un disincentivo per Abbas, che si allontanerebbe ancora di più dal tavolo dei negoziati. 
"Quando facciamo dei passi indietro o ci ritiriamo non facciamo altro che mostrare segni di debolezza".
Una "debolezza" che i cittadini israeliani sembrano condividere ampiamente, come riporta Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallas, in un rapporto dal titolo più che significativo: "Il futuro di Israele/Palestina: la realtà dello stato unico nei fatti".
Secondo questo studio, il 70% degli israeliani crede che il proprio governo debba proseguire sulla strada dei negoziati per una soluzione a 'due Stati', ritenendo che un’iniziativa unilaterale possa portare risultati controproducenti, come accaduto con il ritiro da Gaza dell’agosto 2005.
La rimozione dei 21 insediamenti israeliani presenti nella Striscia portò infatti alla luce le questioni che preoccupano maggiormente Tel Aviv: la questione demografica e la sicurezza, criticità che riemergono con forza nel dibattito politico ogni qualvolta si parli di ritiro.
I circa 1,7 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia e i 2,2 milioni della Cisgiordania potrebbero minacciare seriamente la "natura ebraica dello Stato di Israele". 
Al numero di non-ebrei appena citato, bisogna aggiungere altri 1,5 milioni di arabi israeliani (il 20% del totale della popolazione) e i quasi 5 milioni di profughi palestinesi registrati presso l’UNRWA.
Questi numeri rilevano una scomoda quanto nota realtà: a prescindere da qualsivoglia soluzione al conflitto, i palestinesi rappresentano già la maggioranza sul territorio della Palestina storica, comprendente il lo Stato d’Israele, i Territori Occupati e parti di Giordania, Siria e Libano.
Per quanto riguarda la questione della sicurezza, non bisogna stupirsi se la critica più aspra sia arrivata da Danny Dayan, presidente del Consiglio di Yesha (acronimo ebraico per Giudea e Samaria) - rappresentante l’organizzazione ad ombrello che riunisce le municipalità di tutte le colonie.
Dayan ha bocciato in toto le dichiarazioni di Barak, secondo quanto riportato da Haaretz.
“Chiunque parli di un ritiro unilaterale dalla Giudea e Samaria – Cisgiordania, ndr – sette anni dopo la catastrofe del disimpegno da Gaza, parla di una causa persa. Evidentemente Barak non ha imparato nulla dai propri errori”, ha ricordato il presidente, riferendosi al ritiro delle truppe israeliane dal confine libanese avvenuto il 24 maggio del 2000, quando l’attuale ministro della Difesa era alla guida del governo.
E, come spesso accade, se i rappresentanti delle colonie manifestano il loro dissenso la risposta del governo non si fa attendere.
Il 6 giugno il premier Netanyahu ha annunciato la costruzione di 850 nuove abitazioni in Cisgiordania, di cui 300 saranno costruite nella colonia di Beit El, a Gerusalemmen Est.
Queste ultime sono da intendere come una sorta di 'compensazione' per i coloni dell’avamposto di Ulpana, dichiarata illegale dalla Corte Suprema, che ha emesso un ordine di evacuazione che scadrà il  1°luglio.
Unione Europea, Russia, Nazioni Unite e Stati Uniti hanno subito reiterato la loro netta opposizione alla politica di espansione delle colonie. Ma stavolta Netanyahu è stato messo in guardia anche dal suo team di esperti e consiglieri, convinti che "la realizzazione di nuove costruzioni non accompagnata da progressi diplomatici potrebbero innescare una terza Intifada".
La loro principale preoccupazione risiede nella scarsa popolarità del presidente palestinese Abbas e del primo ministro Fayyad, nonostante il recente rimpasto di governo, e nella capacità delle forze di sicurezza palestinesi di controllare una situazione di stallo che potrebbe degenerare in qualsiasi momento in scontri violenti. 
Alla luce di quest’ultima considerazione va letta anche la decisione degli Stati Uniti di nominare un nuovo coordinatore per la sicurezza tra Israele e Autorità Palestinese.
Tuttavia Netanyahu sembra sordo a qualsiasi cambiamento, e resta fermo alla politica del “doppio gioco”.
Da un lato, sulla carta è aperto al dialogo con la controparte palestinese e si mostra disposto a tornare al tavolo dei negoziati.
Dall’altro continua invece a bloccare le trattative non appena si sfiorano questioni sostanziali, come Gerusalemme, diritto al ritorno, confini.
Nel frattempo porta avanti senza alcun ripensamento il programma di espansione delle colonie e contemporaneamente fa dichiarazioni che reiterano la  necessità di trovare un posto allo Stato palestinese da qualche parte in Cisgiordania.
Ed infine le sue abilità politiche si perfezionano gettando tutta la responsabilità dell’inesistenza del processo di pace sull’intransigenza palestinese.
In tutto ciò la strada di Netanyahu risulta essere ancor più agevolata da una maggioranza di governo 'rinforzata' e che sembra avere tutte le carte in regola per proseguire con questo approccio.
Per contro, Abbas è in bilico tra la necessità di dare risposte di unità e vicinanza alla popolazione palestinese e il bisogno di 'ordine e stabilità' che viene richiesto direttamente dagli Stati Uniti.
Per quanto riguarda la prima necessità, recentemente si è attivato per avere un ruolo nell’accordo che ha segnato la fine allo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi.
Inoltre, sempre sulla carta, sembra stia lavorando ad una riconciliazione con Hamas, secondo lo spirito dell’accordo di unità di Doha del febbraio scorso.
Circa il bisogno di 'ordine e stabilità', la mossa politica corrispondente va individuata nella formazione del nuovo governo, che ha il difetto però di mostrare dei vecchi volti e verosimilmente porterà avanti le stesse politiche, che in sostanza consistono nel dimenticarsi gradualmente di Gaza, reprimere il dissenso ed indebolire le opposizioni ed in ultimo accontentarsi di un riconoscimento di "serie B” della Palestina presso le Nazioni Unite, ovvero come osservatore/Stato non membro.
Coerente anche lui, dunque, con il suo stile, fatto di scarso carisma,  attaccamento al potere e opportunismo politico.
Ecco allora che alla luce di queste considerazioni annunci e dichiarazioni unilaterali lasciano spazio alla realtà dello status quo e rivelano la loro vera natura: fumo negli occhi.
Sindromi di unilateralismo che denotano una sorta di ansia da prestazione, un fare apparentemente frenetico pur di riportare dei risultati da presentare al proprio elettorato, per tenerlo buono e non fargli sembrare che in realtà tutte queste azioni non conducono da nessuna parte.
Servono per alzare un po’ la voce, per attirare l’attenzione della comunità internazionale – Abbas – e per non perdere dei voti a destra e non indispettire troppo gli ultra ortodossi delle colonie – Netanyahu.
Perché la linea ufficiale è ancora quella disastrosa tracciata dagli Accordi di Oslo: "due Stati per due Popoli".
Peccato che la realtà ci mostri nei fatti un solo Stato, due codici legali – uno civile per gli israeliani, uno militare per i palestinesi - e due popoli la cui coesione interna, laddove c’è, è mantenuta fragilmente proprio grazie al conflitto.
La realtà dell’apartheid è sotto gli occhi di tutti e l’unica novità è che si perfeziona giorno dopo giorno, con nuove violenze, feriti e morti che non fanno più notizia.
Al contrario, meriterebbero ogni giorno le prime pagine di tutti i giornali le numerose forme di resistenza nonviolenta –  di cui i politici si preoccupano seriamente, ma sottovoce, attraverso una vigile azione dei rispettivi servizi segreti – che stanno caratterizzando questa fase attuale del conflitto.
Andare e vedere a Mufagarah Al-Tuwani, i due villaggi palestinesi nelle colline a sud di Hebron, che si stanno opponendo quotidianamente all’apartheid. 
Raccogliere l'appello di Mahmoud Sarsak, che non mangia da 3 mesi perché è in carcere da tre anni senza ragioni.
Rivolgersi alle circa 2000 persone che hanno rifiutato cibo insieme a Bilal Diab e Thaer Halahla, per i quali il digiuno é durato più di due mesi.
Non c'è da sorprendersi se queste persone vi risponderanno che lo Stato unico c’è già.

18 giugno 2012

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