MICHAEL WARSCHAWSKI :Israele: chiamiamolo fascismo


I nostri nonni dicevano che se qualcosa sembra un’anatra, starnazza come un’anatra e cammina come un’anatra, allora è un’anatra. Allo stesso modo, possiamo dire che se uno Stato agisce come un regime fascista, promuove leggi fasciste, utilizza termini fascisti e la sua popolazione reagisce in modo fascista, allora quello Stato è fascista.

Per molti anni, ho avvertito del pericolo di utilizzare la parola “fascismo” per definire lo Stato di Israele. Il regime israeliano è prima di tutto un regime coloniale, mosso da considerazioni coloniali volte all’esclusione della popolazione indigena e alla confisca della sua nazione e delle sue terre. L’uso del termine “fascismo” serviva ad ammorbidire il carattere coloniale del progetto sionista e dello Stato di Israele.

Non ci sono dubbi, naturalmente, che lo Stato sionista non ha perso la sua natura coloniale ma, al contrario, ha ulteriormente rafforzato quelle caratteristiche che lo assimilano a Stati come la Rhodesia, l’Australia del XVII e XIX secolo e gli Stati Uniti durante la conquista dell’Ovest. Tuttavia, Israele ha seguito processi che giustificano oggi la definizione di Stato fascista. Apparentemente, i nipoti delle vittime della Germania nazista e del progetto di distruggere la popolazione ebraica dovrebbero sapere come identificare i tratti caratteristici del fascismo che si è sviluppato come una malattia terminale nell’ultimo decennio.

L’utilizzo della parola “cancro” in relazione ad un gruppo di esseri umani, ad esempio. La parlamentare della Knesser Miri Regev (Likud) ha recentemente usato questo termine per definire i rifugiati africani richiedenti asilo in Israele. I nostri nonni erano stati chiamati “cancro” dai nazisti e anche oggi questa parola è al centro del discorso fascista internazionale quando si parla di stranieri e ebrei. Un’altra caratteristica è l’aumento dei pogrom: una folla incitata da politici di destra, ma anche nei dibattiti ufficiali e nei media, che violentemente attaccano una minoranza dietro lo slogan “Morte a…”. Così familiare per coloro che hanno ascoltato le storie dei loro nonni. Un altro esempio del modus operandi fascista: l’incitamento di un gruppo senza potere contro un altro.

Un pogrom conduce sempre all’omicidio, è solo una questione di tempo. L’orologio ha cominciato a ticchettare. Il parlamentare Michael Ben Ari si è messo in marcia nel pogrom a Gerusalemme Est, sotto lo slogan “Morte agli arabi” e oggi grida a Sud di Tel Aviv “Morte ai sudanesi”. Molti dei quali, a dire il vero, non sono sudanesi ma eritrei.

Tuttavia, l’attacco fascista ai richiedenti asilo porta con sé un altro aspetto, collegato alla nostra storia nazionale e personale: lo Stato di Israele è stato fondato come "Stato di asilo" per centinaia di migliaia di rifugiati che fuggivano dalle persecuzioni o che erano sopravvissuti al genocidio nell’Europa dell’Est. Questa condizione di "Stato d’asilo" è ciò che ha condotto alla decisione del 1947 delle Nazioni Unite ed non è detto che la comunità internazionale avrebbe comunque sostenuto la creazione dello Stato di Israele senza quelle centinaia di migliaia di rifugiati e sopravvissuti al progetto nazista. I nipoti e i bisnipoti di quei rifugiati e di quei sopravvissuti dovrebbero provare empatia per i profughi, sia che stiano sfuggendo alla persecuzione sia che stiano cercando di salvarsi dalla fame.

Ma lo "Stato d’asilo" è diventato uno Stato fascista nel quale le necessità del potere hanno completamente rimpiazzato quelle dei diritti e l’empatia ha lasciato il posto all’odio verso lo straniero. Siamo un’altra prova che l’esperienza della persecuzione non conduce necessariamente all’empatia verso i perseguitati. Lo scorso giovedì, nella vigilia della festività ebraica dello Shavuot, eravamo meno di 50 a protestare di fronte alla residenza del primo ministro a Gerusalemme, per ricordare a tutti che la tradizione ebraica è piena di comandamenti d’amore verso lo straniero. Non si tratta semplicemente di trattare qualcuno con dignità, ma di vero amore. Tuttavia, per una società costruita sulla confisca delle proprietà della popolazione indigena e sulla sua espulsione, è difficile immaginare che possieda la capacità di provare empatia per un rifugiato africano, e Miri Regev ne è un esempio.

La Regev, più di ogni altro parlamentare, ha incitato l'opinione pubblica contro il membro della Knesset Hanin Zoabi e ne ha chiesto la deportazione dal Paese dopo i fatti del maggio 2010, per aver partecipato alla missione della nave turca Mavi Marmara diretta verso Gaza. Oggi la stessa donna usa un linguaggio fascista contro i rifugiati africani. La faccia di una generazione è la faccia dei suoi leader: in questi giorni è meglio non guardarsi allo specchio.

Tradotto in italiano da Emma Mancini (Alternative Information Center)

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