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Giorgio Gomel: Stato ebraico e democratico: ieri, oggi, ma domani?

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Se Herzl fosse vivo e guardasse oggi un secolo più tardi Israele, non ne sarebbe deliziato, ma scosso, preoccupato, deluso. Sia per il conflitto irrisolto che contrappone dolorosamente i due popoli su quel lembo di terra contesa - che non immaginava certo nella sua mentalità di liberale europeo dell’800, figlio di un’Europa dominatrice del mondo, portatrice di civiltà, per la quale l’emigrazione degli ebrei verso la Palestina sarebbe stata pacifica, ordinata, accettata dagli abitanti del luogo come fonte di progresso economico e civile. Sia per il potere della religione, il connubio che è sedimentato in Israele fra clericalismo e potere politico, la forte impronta coercitiva che il potere religioso ha sulla società civile.
“Avremo dunque una teocrazia? No: la fede ci rende uniti, la scienza ci rende liberi. Non permetteremo affatto che le velleità teocratiche di alcuni nostri rabbini prendano piede: sapremo tenerle ben chiuse nei loro templi, come rinchiuderemo nelle caserme il nostro esercito di professione. Esercito e clero devono venire così altamente onorati come esigono e meritano le loro belle funzioni; nello Stato, che li tratta con particolare riguardo, non hanno da metter bocca, ché altrimenti provocherebbero difficoltà esterne e interne“ (Theodor Herzl, Lo Stato degli Ebrei, pagg. 129-130).
Ci sono immagini stereotipate. L’una esalta i successi: il sionismo e il suo compimento; lo stato che è luogo di rifugio dalle persecuzioni e di riscatto di un popolo disperso e oppresso per secoli; gli ebrei diventati nazione “normale”, padroni del proprio destino; una democrazia parlamentare e una solida economia; una lingua ebraica, una società multietnica; 7,5 milioni di abitanti (da circa mezzo milione alla nascita) di cui quasi 6 milioni di ebrei (oltre il 40% del totale mondiale). L’altra all’opposto sottolinea il conflitto, l’occupazione, le guerre devastanti in Libano e a Gaza, la spoliazione di case e terre dei palestinesi, il sionismo come tardo colonialismo, la frammentazione crescente della società in “tribù” separate (gli arabi, i russi, gli ultraortodossi), le misure limitatrici della democrazia all’interno stesso di Israele.
Israele è complesso e contraddittorio: uno straripante potere militare, ma il senso di precarietà di una nazione “rifiutata” da larga parte del mondo arabo e la cui esistenza pacifica fra le nazioni è ancora in forse.
Il sionismo è stato, visto dal di dentro, il movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico: gli ebrei si affermavano soprattutto nell’est europeo come gruppo etnico, non più come comunità religiosa, anelante a fuggire dall’antisemitismo e ad autodeterminarsi nella propria “patria” storica, con la quale vi era un profondo legame spirituale; ma quella terra era abitata da altre genti - arabi che via via si definirono palestinesi. Come osserva A.B. Yehoshua, “è il rischio della sopravvivenza che ci ha dato il diritto morale di insediarci qui con l’intenzione di prenderci una parte della terra d’Israele. In generale il movimento sionistico ha tentato di attenuare il dolore della popolazione che ha subito questa penetrazione. Fino alla guerra di liberazione non c’era un solo profugo palestinese in tutta la terra d’Israele; al contrario con l’avvio del sionismo sono arrivati abitanti dalle regioni vicine. Ma questi avvenimenti non ci hanno fatto acquisire dei diritti morali. Il loro unico fondamento è la mancanza di via d’uscita del fuggitivo di fronte all’incendio che già esiste e si può sviluppare. Se vogliamo uscire dalla nostra situazione di popolo senza patria rendendo senza patria un altro popolo, ogni nostro diritto andrebbe perduto. Allora dovremmo parlare il linguaggio della forza e non dovremo stupirci se altri più forti di noi parleranno lo stesso linguaggio” (A.B. Yehoshua, Elogio della normalità: saggi sulla Diaspora e Israele, 1991).
Anche oggi d’altra parte molti e divergenti sono i modi di guardare alla realtà di Israele.
Nella prospettiva dei palestinesi il sionismo apparve come un movimento di stranieri colonizzatori cui bisognava resistere. Ancora oggi per la loro psicologia collettiva che ha vissuto l’insediamento degli ebrei in Palestina come un’ingiustizia, un’usurpazione dei propri diritti, è difficile accettare le conseguenze di questi eventi, la presenza ebraica in Palestina, l’esistenza dello Stato d’Israele. Come ricorda Sari Nusseibeh - fra i più insigni intellettuali palestinesi -, “tornando al dibattito sulle soluzioni di compromesso, i palestinesi hanno un problema di fondo ad accettarle perché sono convinti che ciò significherebbe assoggettarsi a un’ingiustizia… La premessa di ogni soluzione politica del conflitto sta quindi nella creazione di uno Stato palestinese” (Mark Heller-Sari Nusseibeh, Israele e Palestina. Il piano per la pace fra due stati sovrani, 1992).
Il mio quesito centrale, guardando al futuro, è come assicurare che Israele resti “Stato degli Ebrei” nel senso di Herzl, ma anche una democrazia piena per i suoi cittadini. Tutti. Per molti - vedi i postsionisti, anche in Israele - questo è un ossimoro, un’impossibilità.
Io penso di no, ma vedo segni preoccupanti del degrado della democrazia e difficoltà via via maggiori per uno stato che voglia essere ebraico e democratico. Intanto cosa significa? Come si concilia il diritto all’autodeterminazione degli ebrei in Israele con i diritti degli altri, cittadini non ebrei ? Che Israele sia uno stato ebraico, non solo per un fatto demografico - perché gli ebrei sono maggioritari - ma perché la cultura ebraica è parte rilevante dell’identità collettiva e impronta di sé la sfera pubblica (la lingua, le feste, la memoria storica) è legittimo; ma non può e non deve lo stato favorire il gruppo ebraico a fronte dei non ebrei nell’allocare fondi, terre, scuole, risorse pubbliche. Per essere una vera democrazia Israele dovrà fare due cose che trasformino in profondità lo status quo: 1- porre fine all’occupazione, evacuare le colonie e spartire con il negoziato con lo stato di Palestina la terra compresa fra il Giordano e il Mediterraneo; 2- separare religione e stato.
Affronto la prima, non perché più facile, ma perché più urgente e più fondamentale per la natura stessa del sionismo 
Di tre cose - Israele come stato-nazione del popolo ebraico, come democrazia, come Terra di Israele nella sua integrità biblica - due sole si possono conseguire. O Israele rinuncia al West Bank, sgombera le colonie e negozia uno scambio paritario di territori (incorporando gli insediamenti più prossimi alla linea verde), concordando un confine che lo separi dallo stato di Palestina e conserva così la sua identità di stato ebraico e democratico, in cui gli ebrei sono maggioritari ma gli arabi godono di pieni diritti civili e politici di una minoranza nazionale. Oppure, perpetuando l’occupazione fino all’annessione de facto, si tramuta in uno stato binazionale, in cui gli ebrei saranno (nel 2020-30) minoritari e finirà il sionismo nelle sue fondamenta ideali e pratiche. Oppure, infine, inseguendo l’idea fondamentalista dell’integrità della Terra di Israele e del suo possesso esclusivo e privando i palestinesi dei loro diritti, Israele conserva l’ebraicità dello stato, ma in un regime di segregazione che sarà bandito dalla comunità delle nazioni e segnato da una perenne guerra civile fra arabi ed ebrei.
Per cosa avrebbe optato Herzl, mi sembra ovvio.
Giorgio Gomel


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