Trarre profitto dalla guerra: uno sguardo sul mondo degli affari delle armi israeliane
+972.com27.07.2013
http://972mag.com/economic-strength-is-more-than-a-rhetorical-pun-its-a-work-plan/76488/Trarre profitto dalla guerra: uno sguardo sul mondo degli affari delle armi israeliane.La guerra è divenuta in Israele una costante fonte di reddito, con la West Bank e la Striscia di Gaza utilizzati come siti sperimentali per i trafficanti d’armi con il sostegno degli intellettuali. Questi sono i protagonisti di “The Lab”, un nuovo film di Yotam Feldman. Nelle sue eccezionali interviste, il film rivela che l’immagine del commerciante di armi che opera nell’ombra è una cosa del passato.di Eilat Maoz (tradotto dall’ebraico da Guy Eliav, a cura di Ami Asher)Un laboratorio è un luogo dove gli scienziati conducono esperimenti in condizioni controllate – uno spazio dove grandi fenomeni come uragani sono miniaturizzati e piccole cose come i microbi sono ingranditi per osservare processi complessi e imparare a controllarli. Un laboratorio è dove il mondo è diviso in fenomeni prevedibili e cose osservabili. Dove la conoscenza viene creata e successivamente diffusa, rendendo il mondo più comprensibile e meglio organizzato, grazie alla lente della conoscenza che abbiamo accumulato su di lui.
Carri armati dell’IDF si ammassano nei pressi della Striscia di Gaza in preparazione di una possibile invasione di terra. Il governo israeliano ha autorizzato la chiamata alle armi di 75.000 riservisti per le prossime tappe della campagna militare (Foto: Actiestills)
Il
nuovo film di Yotam Feldman, “Il Laboratorio”, ci introduce agli uomini
che hanno fatto dei territori occupati palestinesi il più grande e il
più avanzato laboratorio per il collaudo di armi: agli spacciatori e
imprenditori di armi, ali esperti di difesa e ai leader del settore.
Nonostante il desiderio di confrontarlo con altri documentari israeliani
che di recente hanno mostrato la vita segreta delle persone che
gestiscono l’occupazione ( come “The Law in These Parts” e “The Gatekeeper”), “The Lab”
è soprattutto un film sulla conoscenza. Conoscenza della sicurezza
creata nella zona duttile tra due dimensioni separate da una linea molto
sfocata: i militari e il mercato.
Al
primo livello, la trama di “The Lab” adotta l’affermazione di Naomi
Klein che la ragione principale per la prosperità economica di Israele
in un periodo di instabilità politica e di crisi globale risiede non nel
proprio capitale umano eccezionale che consente si evitare agevolmente
le ripercussioni economiche negative, ma piuttosto nel prosieguo dei
conflitti regionali. In The Shock Doctrine, dimostra che la
maggior parte della crescita economica di Israele può essere attribuita
al settore della enorme industria della difesa, che è diventata la
principale industria di esportazione di Israele, in particolare dopo
l’11/9 (nel 2012, Israele è stato classificato come il sesto più grande
esportatore di armi al mondo). Lei sostiene anche che la West Bank e la
Striscia di Gaza non sono solo le prigioni a cielo aperto più grandi del
mondo, ma anche il più grande laboratorio per il collaudo del mondo,
dove “i palestinesi non sono più solo gli obiettivi. Sono le cavie.”
Per
Feldman, le recenti campagne militari, principalmente l’Operazione
Piombo Fuso, illustrano come la natura della guerra si sia trasformata:
da una turbativa temporanea che comporta danni alla vita e alla
proprietà, a una situazione fissa, redditizia. Così, il film inserisce
altre voci che cercano di valutare per la società israeliana i profitti
derivati dall’occupazione e non i costi presunti. La vera forza del film
viene disvelata, tuttavia, non quando arriva non invitato ad eventi
riservati allo scopo di affrontare i profittatori, ma nelle eccezionali
interviste fatte loro. Queste rivelano che ogni mercante d’armi ha una
visione del mondo che viene rapidamente spiegata davanti alla
telecamera. I guerrafondai non operano ormai più nell’ombra. Se le armi
vengono vendute nel mercato aperto, esse dovrebbero essere trattate come
una qualsiasi altra merce, e, poiché ciò che è nascosto non può essere
venduto, il paravento della segretezza deve essere rimosso rapidamente
dal mercato della sicurezza, trasformando l’occupazione da un vergognoso
ben noto segreto in un punto vendita.
Accattivanti
storie di successo di comandanti di campo israeliani che mobilitano la
loro passata esperienza in combattimento per vendere armi rafforza
maggiormente l’impressione che l’occupazione fornisca opportunità
economiche redditizie. Allo stesso tempo, le storie suggeriscono che
l’intimo rapporto tra i militari e l’economia in Israele è più grande
della somma totale di tutte le relazioni personali tra professionisti
militari e imprenditori o di alcuni comandanti di campo con acume negli
affari. Nelle conferenze internazionali dove modelli israeliani mostrano
con orgoglio armi a uomini bramosi, sembra che il Ministero della
Difesa israeliano operi come principale agente esportatore. Questo è
dove il confine tra l’”economico” e il “politico” crolla e dove la frase
“forza economica” si rivela essere molto di più di un gioco retorico di
parole: si tratta di un piano di lavoro. Un piano fondato sul
presupposto che la sicurezza è un prodotto che il paese fornisce ai suoi
cittadini rispettosi della legge, e che un’economia forte è la base per
la forza militare. Laddove il ruolo dello stato nell’espansione
dell’industria della difesa è intrinsecamente certo, poiché supporta la
“crescita” e la difesa delle esportazioni – anche quando completamente
private – queste sono viste come una storia di successo nazionale. Presa
in prestito dalla terminologia cinematografica, l’industria della
difesa israeliana è un evidente caso di co-produzione.
Ciò
che conta, questa coproduzione ha un terzo partner: il mondo accademico
israeliano. Uno degli aspetti più interessanti del film consiste
nell’intrecciare le storie di inventori e di trafficanti di armi con
quelle di scienziati e intellettuali.
Il
filosofo militare Shimon Naveh ci porta in una base per esercitazioni
nel deserto, modellata su di una cittadina palestinese. Con una T-shirt
Nike, pantaloni mimetici militari e occhiali arcuati alla moda, se ne va
a giro per la località fantasma, spiegando come la filosofia francese
lo abbia aiutato a farsi venire in mente una dottrina militare adatta
per la guerra post moderna: la decostruzione, ma dello spazio urbano.
Posta senza mezzi termini, la dottrina si basa sui fori nei muri delle
case residenziali e sul muoversi come un rizoma fuori dalle strade
asfaltate. Naveh può cosi prendersi il merito per la distruzione
provocata dall’IDF quando ha rioccupato le città della West Bank durante
l’Operazione Scudo Difensivo.
Al
Palazzo delle Scienze Sociali presso l’Università di Tel Aviv,
incontriamo in professor Yitzhak Ben Israel, che è impegnato nello
sviluppo di modelli matematici che pronostichino i tassi di successo di
arresti e di uccisioni mirate. I suoi modelli gli permettono di predire,
utilizzando una semplice formula sostitutiva, il numero di persone che
c’è necessità vengano uccise al fine di portare al collasso di un’intera
organizzazione o di un sistema politico. La ricerca di Ben Israel è
solo un esempio della fiorente industria della conoscenza riguardante la
sicurezza nel mondo accademico israeliano, che anche i pochi accademici
israeliani che pubblicamente si oppongono all’occupazione, tendono a
ignorare.
Ibridi
di Feldman – androidi di scienza, tecnologia e militare – mostrano in
modo drammatico le ripercussioni di vasta portata della migrazione della
conoscenza dal laboratorio israeliano al resto del mondo. Per esempio,
tecnologie israeliane per il controllo dei disordini vendute alla
polizia brasiliana per la lotta contro gli spacciatori di droga hanno
fatto le favelas di Rio alla stregua di campi profughi palestinesi;
Kabul richiama alla mente Baghdad, che a sua volta assomiglia a Jenin.
Questa rassomiglianza è più del prodotto dell’immaginario orientalista o
dell’odio del povero e nero (sebbene questi siano fattori certamente
importanti): è una forma di conoscenza, prodotti per l’industria
hi-tech, i quali rendono questi spazi così sconvolgentemente simili.
Eilat Maoz
è dottoranda di ricerca presso il dipartimento di antropologia
dell’Università di Chicago. Il suo lavoro si concentra sull’economia
politica della violenza e supporta l’appello palestinese per il
Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.
(tradotto da mariano mingarelli)
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