Gomel : Il sogno di Herzl: lo stato democratico degli ebrei

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di Giorgio Gomel, Shalom, settembre 2013
Qualche mese fa, l'editore Treves ha ristampato “Lo Stato degli Ebrei” di Theodor Herzl, con presentazione di Shimon Peres e introduzione di Amos Luzzatto. É l'edizione del 1955, con un “messaggio ai lettori” di Augusto Segre che commemorava allora il 50esimo anniversario della morte di Herzl e un dotto prologo di Dante Lattes. Una finezza editoriale, la cui lettura o rilettura oggi é affascinante e istruttiva.
Se Herzl fosse vivo e guardasse oggi Israele, ne sarebbe scosso, preoccupato, forse deluso. Sia per il conflitto irrisolto che contrappone dolorosamente i due popoli su quel lembo di terra contesa – che non immaginava nella sua mentalità di liberale europeo dell'800, figlio di un'Europa ritenuta portatrice di civiltà e convinto che l'emigrazione degli ebrei da quell'Europa verso la Palestina sarebbe stata pacifica e accettata dagli abitanti del luogo come fonte di progresso economico e civile. Sia per lo stretto connubio chi é sedimentato in Israele fra istituzioni religiose ebraiche e potere politico e la forte impronta coercitiva che il potere religioso impone sulla società.
“Avremo dunque una teocrazia? No: la fede ci rende uniti, la scienza ci rende liberi. Non permetteremo affatto che le velleità teocratiche di alcuni nostri rabbini prendano piede: sapremo tenerle ben chiuse nei loro templi, come rinchiuderemo nelle caserme il nostro esercito di professione. Esercito e clero devono venire così altamente onorati come esigono e meritano le loro belle funzioni; nello Stato, che li tratta con particolare riguardo, non hanno da metter bocca, ché altrimenti provocherebbero difficoltà esterne e interne “ (Theodor Herzl, Lo Stato degli Ebrei, pagg. 129-130).
Oggi molti e spesso contrapposti sono i modi di guardare alla realtà di Israele.
Gli uni esaltano i successi: il compimento del sionismo, cioé uno stato che é al contempo luogo di rifugio dalle persecuzioni e di riscatto di un popolo disperso e oppresso per secoli; gli ebrei diventati nazione “normale”; una democrazia parlamentare e una solida economia; la lingua ebraica, una società multietnica; 8 milioni di abitanti (da circa mezzo milione alla nascita) di cui quasi 6 milioni di ebrei (oltre il 40% del totale mondiale). Gli altri all'opposto sottolineano il conflitto, l'occupazione, le guerre devastanti in Libano e a Gaza, la spoliazione di case e terre dei palestinesi, il sionismo come tardo colonialismo, la frammentazione crescente della società in “tribù” separate (gli arabi, i russi, gli ultraortodossi), le misure limitatrici della democrazia all'interno stesso di Israele.
Il sionismo é stato un fenomeno complesso e contraddittorio.
Visto dal di dentro, da noi ebrei, é stato il movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico: gli ebrei si affermarono soprattutto nell'est europeo come gruppo etnico, non più come comunità religiosa, anelante a fuggire dall'antisemitismo e ad autodeterminarsi nella propria “patria” storica, ma quella terra era abitata da altre genti – arabi, sudditi dell'impero ottomano e poi britannico che col tempo e anche in virtù del contatto duro con il nazionalismo ebraico, acquisirono un'identità nazionale come palestinesi.
Ai palestinesi il sionismo apparve come un movimento di stranieri colonizzatori cui bisognava resistere. Ancora oggi per la loro psicologia collettiva che ha vissuto l'insediamento degli ebrei in Palestina come un'ingiustizia, un'usurpazione dei propri diritti, é difficile accettare le conseguenze di questi eventi, la presenza ebraica in Palestina, l'esistenza dello Stato d'Israele.
Tardivamente, almeno nelle istanze ufficiali, lo hanno fatto, con le decisioni del loro Consiglio Nazionale nel 1988 e gli accordi di Oslo del 1993.
Guardando al futuro, la questione é come assicurare che Israele resti lo “Stato degli Ebrei” nel senso di Herzl, ma anche una democrazia piena per i suoi cittadini. Tutti. Per molti – vedi i postsionisti, anche in Israele – questo é un ossimoro, un'impossibilità.
Io penso di no, ma vedo segni preoccupanti del degrado della democrazia con le leggi illiberali approvate dalla Knesset negli ultimi anni e difficoltà via via maggiori per uno stato che voglia essere ebraico e democratico.
Intanto cosa significa? Come si concilia il diritto all'autodeterminazione degli ebrei in Israele con i diritti degli altri, arabi soprattutto, ma anche immigrati da più paesi del mondo ? Che Israele sia uno stato ebraico, non solo per un fatto demografico – perché gli ebrei sono maggioritari – ma perché la cultura ebraica é parte rilevante dell'identità collettiva e impronta di sé la sfera pubblica (la lingua, le feste, la memoria storica) é legittimo; ma non é accettabile che lo stato favorisca il gruppo ebraico e discrimini la minoranza araba nell'allocare fondi, terre, scuole, risorse pubbliche. Questo accade in Israele oggi.
Per essere una vera democrazia Israele dovrà fare tre cose che ne trasformino in profondità lo status quo: 1- porre fine all'occupazione, evacuare le colonie e spartire con il negoziato con lo stato di Palestina la terra compresa fra il Giordano e il Mediterraneo ; 2- trattare in modo paritario i cittadini ebrei e non ebrei anche nella sfera economico-sociale; 3- separare religione e stato.
Affronto la prima, non perché più facile, ma perché più urgente e fondamentale per la natura stessa del sionismo.
Di tre cose – Israele come stato-nazione del popolo ebraico, come democrazia, come Terra di Israele nella sua integrità biblica – due sole si possono conseguire.
O Israele rinuncia al West Bank, sgombera le colonie e negozia uno scambio paritario di territori (incorporando gli insediamenti più prossimi alla Linea verde, fra Modi'in Illit a nord di Gerusalemme, Ma'ale adumim a est e Gush Etzion a sud), concordando un confine che lo separi dallo stato di Palestina e conserva così la sua identità di stato ebraico e democratico, in cui gli ebrei sono maggioritari ma gli arabi godono dei pieni diritti civili e politici di una minoranza nazionale. Questo comporta – e non é piccola cosa – evacuare fra 70.000 e 100.000 coloni che risiedono in una miriade di piccoli insediamenti dispersi nell'area C del West Bank, circa il 60% del suo territorio. Oppure, perpetuando l'occupazione fino all'annessione de facto, Israele si tramuta in uno stato binazionale, con uguali diritti per i cittadini ebrei e arabi, come vuole la democrazia; così gli ebrei saranno (nel 2020-30) minoritari e finirà il sionismo nelle sue fondamenta ideali e nella sua attuazione pratica.
Oppure, infine, inseguendo l'idea fondamentalista dell'integrità della Terra di Israele e del suo possesso esclusivo, Israele annette il West Bank e, privando i palestinesi dei loro diritti, conserva lEebraicità dello stato, ma in un regime di segregazione che sarà bandito dalla comunità delle nazioni e segnato da una perenne guerra civile fra arabi ed ebrei.
É questo, sciaguratamente, il piano degli estremisti che militano nei movimenti del sionismo “nazional-religioso”. In un viaggio recente organizzato da Jcall (www.jcall.eu e jcall.italia@gmail.com, un'associazione di ebrei europei che propugna un accordo di pace basato sul principio di “due stati per due popoli”) in Israele e Palestina, cui hanno partecipato 100 ebrei europei di cui 13 italiani – una settimana densissima di visite e incontri, volti ad ascoltare voci, conoscere la realtà sul terreno e appurare se il principio di “due stati per due popoli” sia ancora attuale - una delle esperienze più sconvolgenti a questo riguardo é stata a Gush Etzion. Gush Etzion é un blocco di 20 insediamenti fra Hebron e Gerusalemme, popolati da circa 20.000 persone, fra cui molti figli e nipoti degli originari residenti di prima della guerra e dell'eccidio del 1948. Per loro, fra il mare Mediterraneo e il Giordano ci dovrà esser un unico stato; i palestinesi godranno di qualche autonomia, ma non di diritti di cittadinanza; dovranno accettare di essere sottomessi a Israele e coloro che non lo vorranno dovranno trasferirsi in Giordania dove magari, rovesciata la monarchia hashemita, potrà nascere uno stato palestinese.
Per cosa avrebbe optato Herzl, fra le tre soluzioni, mi sembra ovvio. La prima e soltanto quella.

Giorgio Gomel

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