Gaza : noi siamo riservisti israeliani e rifiutiamo di servire


A petition.
washingtonpost.com


L’appello dei riservisti israeliani

Pubblichiamo la traduzione integrale dell’appello* sottoscritto da cinquanta riservisti israeliani che si rifiutano di servire l’esercito.
Siamo stati soldati all’interno dell’esercito israeliano e abbiamo servito in una grande varietà di unità e posizioni, cosa di cui adesso ci pentiamo. Durante il nostro servizio, infatti, abbiamo scoperto che non sono solamente le truppe che operano nei territori occupati a perpetrare il meccanismo che controlla le vite dei palestinesi, in verità è l’intero esercito a essere coinvolto. È per questo che ci rifiutiamo ora di partecipare come riservisti al conflitto e sosteniamo tutti coloro che rifiutano di servire in questa istituzione.
L’esercito israeliano è una parte fondamentale della vita di ogni israeliano ed è anche la potenza che domina sui palestinesi che vivono nei territori che sono stati occupati nel 1967. Da quando l’esercito esiste nella sua forma attuale, il suo linguaggio e la sua mentalità ci controllano: il bene e il male sono individuati attraverso le sue categorie, ed è questa istituzione l’autorità che decide chi vale più e chi meno all’interno della società; chi è più responsabile per l’occupazione, chi è autorizzato a esprimere la propria opposizione alle forze armate e chi non lo è e in che modo sono autorizzati a farlo. L’esercito ha un ruolo centrale in ogni azione, piano o proposta che venga discussa a livello nazionale, e questo spiega perché non ci sia alcuna vera proposta per risolvere in maniera non militare il conflitto nel quale Israele e i suoi vicini sono rimasti incastrati.
Ai palestinesi che risiedono in Cisgiordania e sulla striscia di Gaza vengono negati i diritti civili e i diritti umani. Sono soggetti a un sistema legislativo diverso da quello dei loro vicini ebrei. La responsabilità di queste condizioni non è esclusivamente dei soldati che operano in quel territorio e non sono solo quelle le truppe che dovrebbero opporsi. Molti di noi hanno operato in ruoli logistici e burocratici di supporto, ed è lì che abbiamo scoperto che è l’intero esercito a perpetrare l’oppressione dei palestinesi.
Molti soldati che esercitano il proprio ruolo lontano dai combattimenti non vogliono rifiutarsi di servire nell’esercito perché credono che le loro azioni, spesso banali e di routine, non abbiano a che fare con i risultati violenti che hanno luogo altrove. Le azioni che non sono banali, come per esempio le decisioni che riguardano la vita e la morte dei palestinesi, vengono prese in uffici lontani dalla Cisgiordania, sono secretati, ed è quindi difficile dibatterne pubblicamente. Sfortunatamente non abbiamo sempre rifiutato di adempire ai compiti che ci venivano assegnati, e in questo modo anche noi abbiamo contribuito alle azioni violente dell’esercito.
Mentre prestavamo servizio nell’esercito abbiamo assistito (e preso parte) ai comportamenti discriminatori che vi hanno luogo: la discriminazione strutturale verso le donne, che ha inizio con la selezione iniziale e l’assegnazione dei ruoli; le molestie sessuali, per alcuni di noi una realtà quotidiana; i centri d’accoglienza per gli immigrati che fanno affidamento su un’assistenza militare uniformata. Alcuni di noi hanno visto direttamente come la burocrazia indirizzi gli studenti di materie tecniche verso ruoli tecnici senza dar loro l’opportunità di occupare posizioni diverse. Inoltre, mentre l’esercito sostiene di integrare e mescolare le diverse etnie, durante i corsi di addestramento venivamo messi assieme a chi parlava come noi e ci assomigliava,.
L’esercito si dipinge come un istituzione che rende possibile la mobilità sociale, un trampolino di lancio nella società israeliana, ma in realtà porta avanti la segregazione. Crediamo non sia casuale che coloro che provengono da famiglie con un reddito medio-alto si aggiudichino posizioni in unità d’élite di intelligence e da lì spesso arrivino a lavorare in aziende che si occupano di tecnologia e che offrono stipendi molto alti. Crediamo non sia casuale che i soldati appartenenti a unità che si occupano della manutenzione delle armi da fuoco o di rifornimento e approvvigionamento, quando lasciano l’esercito, spinti spesso dal bisogno di mantenere la propria famiglia, vengano chiamati disertori. L’esercito osanna la figura del “bravo israeliano”, che in realtà ottiene il suo potere soggiogando gli altri. Il ruolo centrale dell’esercito nella società israeliana e questa immagine ideale che va a creare contribuiscono insieme a cancellare le culture e le battaglie di mizrahi, etiopi, palestinesi, russi, drusi, ultra-ortodossi, beduini e delle donne.
Abbiamo tutti partecipato in qualche modo a questa ideologia e al gioco del “bravo israeliano”, che fedelmente serve l’esercito. Nella maggior parte dei casi, aver fatto parte dell’esercito ci ha effettivamente permesso di avanzare le nostre posizioni nelle università e sul mercato del lavoro. Abbiamo ottenuto contatti importanti e goduto del caldo abbraccio del consenso degli israeliani. Ma per le ragioni finora elencate, il costo è stato troppo alto. Non ne è valsa la pena.
Per legge alcuni di noi sono ancora registrati come riservisti (altri sono riusciti ad ottenere un esonero o gli è stato concesso in seguito al congedo): l’esercito conosce i nostri nomi e le nostre generalità e ha il diritto legale di ordinarci di tornare a “servire”. Ma noi non parteciperemo in nessun modo.
Sono molte le ragioni per le quali ci si rifiuta di servire nell’esercito israeliano. Anche noi proveniamo da ambienti diversi e abbiamo motivazioni differenti per scrivere questa lettera. Tuttavia sosteniamo in ogni caso chi si oppone alla coscrizione: gli studenti delle superiori che hanno scritto una lettera di rifiuto della leva, gli ultra-ortodossi che protestano contro la nuova legge di coscrizione, i drusi che si sono rifiutati di prendere parte all’esercito, e tutti quelli cui la propria coscienza, situazione personale o situazione finanziaria impedisce di servire nelle forze armate. Queste persone sono obbligate a pagare dietro la facciata di un dibattito sull’uguaglianza. Ne abbiamo abbastanza.

*Traduzione a cura di Bianca Tosi. L’appello originale è stato pubblicato in ebraico sul sito e in inglese in un articolo di Yael Even Or pubblicato sul Washington Post.
 Queste le firme che accompagnano l’appello:
Yael Even Or
Efrat Even Tzur
Tal Aberman
Klil Agassi
Ofri Ilany
Eran Efrati
Dalit Baum
Roi Basha
Liat Bolzman
Lior Ben-Eliahu
Peleg Bar-Sapir
Moran Barir
Yotam Gidron
Maya Guttman
Gal Gvili
Namer Golan
Nirith Ben Horin
Uri Gordon
Yonatan N. Gez
Bosmat Gal
Or Glicklich
Erez Garnai
Diana Dolev
Sharon Dolev
Ariel Handel
Shira Hertzanu
Erez Wohl
Imri Havivi
Gal Chen
Shir Cohen
Gal Katz
Menachem Livne
Amir Livne Bar-on
Gilad Liberman
Dafna Lichtman
Yael Meiry
Amit Meyer
Maya Michaeli
Orian Michaeli
Shira Makin
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