IL SOGNO DELLA COESISTENZA E' FINITO - Sayed Kashua


sogno della coesistenza è finito
Sayed Kashua
Scosso da quanto accaduto recentemente in Cisgiordania e in Israele, lo scrittore palestinese e cittadino israeliano Sayed Kashua racconta con amarezza che è finito il sogno di un Paese dove arabi ed ebrei possano vivere insieme condividendo la terra in modo uguale. “Ricordati – scrive Kashua – per loro sarai sempre, ma proprio sempre, arabo. Capito?”

Kashua

“E’ finito” di Sayed Kashua Ha’Aretz*

Roma, 8 luglio 2014, Nena News – Non riesco a scrivere nemmeno una parola. Aspetterò che i miei figli tornino dal campo estivo e forse solo allora mi riuscirò a calmare. Non avrei dovuto dare ascolto a mia moglie, non dovevo lasciarli andare al campo estivo. Non oggi, non ora. Ho costretto mia figlia grande a restare a casa. Lei è una ragazza è già questo poteva essere davvero troppo. “Ma perché?” ha urlato stamattina quando, con la cartella sulla schiena, era pronta ad andare al suo corso di capigruppo del Ministero dell’Educazione. “Perché è così” le ho detto e sono tornato ad ascoltare le notizie.

Fra un poco i miei bambini torneranno e noi ce ne andremo da qui. Non mi interessa cosa dirà questa volta mia moglie, non mi importa. Potrà dire di nuovo che sono paranoico, isterico, che sono io quello che decide per tutti a seconda dei miei timori. Non mi interessa. Non lascio i bambini qui a Gerusalemme. Preparerò subito le loro cose, e non appena saranno tornati qui, me ne andrò con loro dai miei genitori. Se vuole, mia moglie potrà restare a Gerusalemme . Io non ne posso più di rimanere qui. Me ne starò a Tira [città palestinese nel centro d'Israele, ndr] con i bambini, due giorni, tre, una settimana. Forse non tornerò proprio. Che ho da fare a Gerusalemme? Dopo tutto fra un mese andrò all’estero. Devo contattare la mia agenzia di viaggi e controllare quanto mi costa anticipare il volo.

Devo anche chiamare l’agente immobiliare e dirgli che l’affitto non è più soltanto per un anno, che chi è in affitto può rimanere quanto tempo vuole perché non ci ritorno più in questo edificio, non ci ritorno più in questo quartiere, non ci ritorno più a Gerusalemme e forse non tornerò proprio più qui. Anzi forse dirò all’agente che invece di un luogo in affitto dovrebbe trovare qualcosa in vendita.

Farò di tutto per non tornare qui. All’estero dovrò lavorare sul mio inglese. Dovrò iniziare a leggere solo in inglese e scrivere solo in inglese. Dedicherò l’anno prossimo ad adottare una nuova lingua per scrivere. So che è complicato – l’ho già vissuto con l’ebraico – ma non ho scelta. Non so per quanto tempo ancora potrò scrivere in ebraico, non so quanti madrelingua in ebraico vorranno ancora ascoltarmi, non sono nemmeno più sicuro che ormai abbia senso rivolgermi a loro. Scriverò in inglese, incomincerò a scrivere racconti d’amore, il clima sarà l’evento centrale, la neve sarà la protagonista. Scriverò in inglese sulle vicissitudine di un immigrato in una terra nuova, su un richiedente asilo politico, su un rifugiato di guerra. Scriverò in inglese sulla terra che ho lasciato, proverò a dire la verità, mi sforzerò di essere accurato nei dettagli nella speranza che qualcuno lì crederà che questo sia veramente accaduto. Scriverò di una terra lontana in cui i bambini sono sparati, massacrati, sepolti e bruciati e i lettori penseranno sicuramente che sono uno scrittore fantasy.

Ma dopo tutto chi ha detto che devo scrivere? Studierò un po’ all’università e dopo troverò un lavoro. Posso fare qualsiasi cosa, non me ne importa. Sono pronto a lavare i piatti, a cambiare le ruote e pulire i bagni. Posso guidare un taxi e vivere modestamente in una piccola cittadina. Sarò un tassista gentile con un accento. Se i passeggeri mi parleranno io risponderò. Se mi chiederanno di dove è il mio accento e di che paese sono, risponderò che vengo da un paese spaventoso in cui persone in abiti e divise invitano le masse ad odiare, ad uccidere, a saccheggiare e a vendicarsi, a volte in nome della regione, a volte in nome della patria, e tutto ciò per il futuro dei bambini del luogo.

Nel taxi ascolterò la musica – per quel che mi riguarda anche musica country – ma mai ascolterò i notiziari. Non potrò conoscere i politici del nuovo posto, non potrò conoscere i nomi dei giornalisti, dei presentatori e dei commentatori. Non potrò interessarmi a cosa pensano, né sapere quali sono le loro posizioni e concezioni del mondo. Proverò ad essere lì un eterno turista, a non prendere le cose a cuore e a non sentire che appartengo.

Fra un poco i miei figli ritorneranno a casa e li porterò a Tira. Non voglio restare qui nemmeno un altro minuto. Chiamerò l’agente di viaggio. Forse riuscirà a farci uscire stesso domani. Mia moglie urlerà dicendo che deve lavorare fino alla fine del mese. Può restare qui se vuole, potrà raggiungerci il prossimo mese.

“Cosa non capisci?” – le ho detto stamattina quando l’ho supplicata di non andare a lavoro – “è finito”.

“Stai bene?” – mi ha risposto gridando. “Cosa diavolo ‘è finito’?”

Sono rimasto in silenzio. So che il mio tentativo di vivere insieme agli altri è finito. Che la bugia che ho raccontato ai miei figli di un futuro dove arabi ed ebrei condivideranno la stessa terra in modo uguale è finita. Volevo dire a mia moglie che è davvero finito, che ho perso la mia piccola guerra, che tutto quello che mi hanno detto da quando ero ragazzo si sta concretizzando di fronte ai miei occhi. Che tutti quelli che mi hanno raccontato che c’è una differenza tra sangue e sangue, tra uomo e uomo, avevano ragione. Che tutti quelli che mi hanno detto che non ho altro posto se non Tira mi stavano dicendo la verità. Ma le ho detto solo “buona fortuna a lavoro” scusandomi di aver esagerato con le mie paure e aggiungendo che so che tutto andrà bene.

Fra un poco i miei figli torneranno dal campo estivo e li porterò lontano da qui. Ora sono a casa con mia figlia grande. Lei è arrabbiata e si è chiusa in stanza. Ho bussato alla porta dolcemente ma lei non mi ha riposto. Siede con il computer sul letto. Mi sono seduto accanto a lei pronto a ripeterle la frase che mio padre mi disse quando ero un ragazzo della sua età. Era il primo giorno di scuola in un collegio di Gerusalemme dove si parlava solo ebraico. Mia padre mi accompagnò da Tira e poco prima di salutarci all’ingresso del collegio mi disse: “Ricordati, per loro sarai sempre, ma proprio sempre, arabo. Capito?”

“Ho capito” ha detto mia figlia abbracciandomi con forza. “L’ho capito da sola”. Nena News
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