La Palestina non è una questione ambientale

Medium.com, 03.12.2014
Ovvero, come sono stato censurato da The Guardian per aver scritto sulla guerra israeliana per il gas di Gaza 
di Nafeez Ahmed
Dopo aver scritto per il Guardian per oltre un anno, il mio contratto è stato rescisso dal giornale dopo aver scritto un controverso articolo su Gaza. Con questo atto The Guardian ha violato quella stessa libertà editoriale che avrebbe dovuto garantire secondo i termini del mio contratto. Ne voglio parlare perché penso che sia di pubblico interesse sapere come un giornale vincitore del premio Pulitzer, che si presenta come una delle più importanti voci liberali al mondo, si sia reso responsabile di un atto di censura, col fine di mettere a tacere una questione che mette in dubbio le giustificazioni ufficiali israeliane della guerra a Gaza.

Il Gas di Gaza

Ho iniziato a collaborare col Guardian come blogger ambientale nell'aprile 2013. In precedenza ero stato autore di studi accademici e giornalista free-lance per oltre un decennio, scrivendo tra gli altri per  The Independent, Independent on Sunday, Sydney Morning Herald, The Age, The Scotsman, Foreign Policy, The Atlantic, Quartz, Prospect, New Statesman, Le Monde diplomatique.
Il 9 luglio 2014, ho pubblicato un articolo (versione italiana: http://www.comedonchisciotte.net/modules.php?name=News&file=print&sid=3388) tramite il mio blog Earth Insight sul sito ambientale del Guardian, raccontando il ruolo delle risorse palestinesi, in particolare delle riserve di gas al largo di Gaza, come parziale motivazione dell'operazione di invasione di Gaza nota come 'Bordo protettivo'. Fra le fonti citate c'era un'analisi politica di Moshe Ya-alon, divenuto poi ministro della difesa israeliano, scritta un anno prima dell'operazione 'Piombo fuso'.  Ya-alon sosteneva che non si poteva permettere ai palestinesi di sviluppare le proprie risorse di gas, poiché i proventi avrebbero finanziato il terrorismo.
L'articolo ha ora 68000 condivisioni sui social network, ed al momento è di gran lunga il singolo articolo più popolare sul conflitto a Gaza. Contrariamente all'opinione corrente, Israele nell'ultimo decennio ha considerato il controllo sul gas di Gaza un obiettivo di importanza strategica per tre ragioni. In primo luogo, Israele sta affrontando una crisi del gas di breve termine, dovuta soprattutto ai lunghi tempi necessari per portare in produzione le ingenti risorse interne. In secondo luogo, il governo Netanyahu non può digerire nessuno scenario in cui un governo a guida Hamas possa accedere e sviluppare le proprie risorse energetiche. Infine, Israele vuole usare il gas di Gaza come ponte strategico per rafforzare i legami con quelle dittature arabe le cui popolazioni sono ostili agli accordi con Israele.
In ogni modo, il più grande ostacolo all'accesso israeliano al gas di Gaza è il governo di Hamas nella striscia, che respinge ogni accordo precedente che Israele ha stipulato con il gruppo British Gas e con l'autorità palestinese.

Censura nella terra degli uomini liberi

Dal 2006 il Guardian ha sbandierato la sua ambizione di essere la più grande voce libertaria al mondo. Per anni il giornale ha sponsorizzato il prestigioso premio annuale per la libertà di espressione Freedom of Expression Award  dell' Index on Censorship. Il giornale ha vinto il premio Pulitzer per le sue rivelazioni sulla National Security Agency (NSA). In generale, il giornale è uscito dal suo voler essere in prima linea contro la censura, in particolare nel mondo dei media. Per questo motivo il suo approccio alla mia storia sul gas di Gaza è così inquietante.
Il redattore capo del Guardian Alan Rusbridger parla allo staff del Guardian in occasione dell'assegnazione del premio Pulitzer.
Il giorno dopo la pubblicazione, ho ricevuto una telefonata da James Randerson, vice redattore capo delle notizie nazionali. Sembrava irritato ed è stato sbrigativo. Senza giri di parole, James mi ha detto che il mio blog sul Guardian doveva essere immediatamente interrotto. Non perché il mio articolo non fosse corretto, mancasse di evidenza, o fosse scandalosamente diffamatorio. Non perché avessi in qualche modo violato l'etica giornalistica, o i termini del mio contratto. No. Il pezzo sul gas di Gaza, mi ha detto, non era una storia ambientale, e quindi era un post inappropriato per il sito web sull'ambiente del Guardian:
“Stai scrivendo troppe storie non legate all'ambiente, quindi temo che non abbiamo altra scelta. Questo articolo non c'entra col sito ambientale. Dovrebbe davvero stare sulla sezione di commenti liberi Cif ('Comment Is Free')"
Sono rimasto scioccato, e più che perplesso. Come si può leggere nel mio profilo sul Guardian, il mio compito era quello di coprire la geopolitica legata ad ambiente, energia e crisi economiche. Questo era proprio quello che mi era stato chiesto di fare - anzi, quando avevo chiesto a fine 2012 di scrivere un blog per il Guardian, un mio pezzo precedente sul collegamento tra le operazioni militari israeliane e il gas di Gaza, apparso su le Monde diplomatique, faceva parte del mio curriculum.
Così ho suggerito a James che la chiusura del blog era una reazione un po' eccessiva. Forse potevamo semplicemente incontrarci per discutere le questioni editoriali e lavorare insieme su ciò che il mio mandato dovesse essere. "Sarei felice di collaborare il più possibile", ho detto. Non volevo perdere il mio contratto. Ma James ha rifiutato in modo categorico, sostenendo invece che i miei interessi si erano sempre più spostati su questioni non ritenute consone con quello che si vuole vedere pubblicato sul sito ambientale.
Alla fine, le mie proteste educate non hanno ottenuto nulla. Nel giro di un'ora, ho ricevuto una e-mail da un responsabile dei diritti editoriali al Guardian, che mi informava di aver rescisso il mio contratto.
Tuttavia in base a tale contratto avevo il controllo editoriale su quello che scrivevo sul mio blog - ovviamente nell'ambito della competenza che mi era stata richiesta. Fra aprile e maggio i blogger ambientali sono stati sottoposti a formazione e supervisione per assicurarsi che saremmo stati in grado di pubblicare sul sito in modo indipendente sulla sola base del nostro giudizio editoriale. I termini e le condizioni previste dal contratto recitano:
“Devi mantenere regolarmente il tuo blog e stabilirne il  contenuto. Devi pubblicare i tuoi post che non possono essere modificati da GNM. GNM occasionalmente può indicare argomenti adatti per il tuo blog, ma tu non sei in alcun modo obbligato a coprire tali argomenti.”
I termini stabiliscono inoltre che la risoluzione del contratto con effetto immediato può verificarsi solo "Se l'altra parte commette una violazione grave di uno dei suoi obblighi derivanti dal presente accordo a cui non sia in grado di porre rimedio" o se "L'altra parte ha commesso una violazione materiale di uno dei suoi obblighi derivanti dal presente accordo, a cui era in grado di porre rimedio, ma non vi ha provveduto entro un periodo di trenta (30) giorni dal ricevimento della relativa comunicazione scritta".
Il problema è che non avevo commesso nessuna violazione di alcun mio obbligo contrattuale. Al contrario, è stato The Guardian a violare il suo obbligo contrattuale riguardo la mia libertà di determinare il contenuto del blog, e lo ha fatto semplicemente perché non gli piaceva quello che ho scritto. E questa si chiama censura.
Come sottolineato dall'"Index on Censorship", nella maggior parte dei paesi del mondo non esiste un sistema di censura esplicita, e l'opinione diffusa è che la censura non esista o che non sia un problema. Tuttavia, "la censura britannica contemporanea, nell'ambito di una democrazia liberale" può avvenire comunque "in molte forme diverse, sia dirette che indirette, a volte in modo più sottile, a volte più evidente".

Barriere invisibili

Ironia della sorte, pochi giorni dopo sono stato contattato dal direttore di The Ecologist - una delle riviste ambientali più importanti del mondo - che voleva ripubblicare la mia storia sul gas di Gaza. Dopo la pubblicazione di una versione aggiornata del mio pezzo per il Guardian, The Ecologist ha poi pubblicato un mio approfondimento in risposta alle obiezioni apparse su The National Interest (ironicamente scritte da un imprenditore che lavora per una compagnia petrolifera statunitense che ha investito nei giacimenti di gas off-shore di Gaza). Ovviamente, essendo stato espulso dal Guardian, non ho potuto rispondere tramite il mio blog come avrei fatto normalmente.
In questo successivo articolo mi sono basato su molte fonti pubbliche, fra cui pubblicazioni in importanti riviste nel campo economico e finanziario, oltre a documenti ufficiali del ministero degli esteri britannico ottenuti tramite la legge sulla libertà di informazione. Questi ultimi confermano che nonostante le notevoli scoperte di gas all'interno delle acque territoriali israeliane, non è possibile iniziare lo sfruttamento in tempi brevi di queste nuove risorse a causa di una serie di ostacoli burocratici, tecnologici, logistici e regolamentari, e vi sono ancora forti dubbi sulla quantità effettiva di gas commercialmente sfruttabile. I nuovi giacimenti di gas non saranno in produzione prima del 2018-2020, e Israele potrebbe avere problemi di approvvigionamento già a partire dal prossimo anno. Secondo il ministero britannico le autorità israeliane vedono i 1400 miliardi di metri cubi di gas nelle acque di Gaza (oltre a potenziali ulteriori risorse ancora da scoprire, secondo l'autorità di informazione energetica statunitense) come una sorgente di energia economica, adatta a coprire la richiesta interna e le ambizioni di esportazione nel periodo necessario per portare in produzione i giacimenti israeliani Tamar e Leviathan.
Pare tuttavia che sollevando il velo su tali questioni sul Guardian, abbia superato una sorta di barriera invisibile: questo argomento è semplicemnte un tabù.

Il tema energia fa parte del tema ambiente, anzi no, almeno non in Palestina

Per illustrare l'assurdità della pretesa del Guardian che questa storia non fosse addatta al sito ambientale, basta considerare il fatto che poche settimane prima, l'editore capo del sito ambientale Adam Vaughan aveva personalmente approvato un mio articolo dal titolo Il contraccolpo iracheno: il successo dell'Isis causato dalla dipendenza insaziabile dal petrolio: la cooptazione occidentale dei jihadisti degli stati del Golfo è stata creata dal miglior amico dei neocon: un Frankenstein Islamista’
 
 
 
 
Un convoglio dello  ‘Stato Islamico’ (ISIS). Apparentemente, l'ISIS è una questione ambientale, ma non Gaza...
I titoli su cui i blogger lavorano vengono sottoposti in anticipo agli editori, che così possono avere un'idea su cosa stiamo facendo e pensando di pubblicare. Adam aveva visto il titolo che proponevo e mi ha chiesto di vedere l'articolo prima della pubblicazione: "Mi rendo conto che è un argomento molto delicato" mi ha scritto in una e-mail. Gli ho mandato l'intero articolo con un riassunto. Più tardi gli ho chiesto cosa ne pensava e mi ha risposto: "Grazie, scusami, penso che vada bene".
Un ragazzo palestinese osserva il paesaggio devastato di Gaza dopo l'incursione militare israeliana di questa estate.
Dunque un articolo sull'ISIS e la dipendenza dal petrolio "va bene", ma uno su Israele, Gaza e il conflitto sulle risorse di gas non va bene. Davvero le risorse off-shore di gas non fanno parte dell'ambiente? Per il Guardian apparentemente no, almeno non in Palestina dove l'ambiente di Gaza è stato devastato dai bombardamenti israeliani.

Il fattore Blair

Nel frattempo, la saga sul gas di Israele-Gaza continua. Solo una settimana or sono, Ha’aretz ha pubblicato un'interessante inchiesta sul valore strategico della cosa. Citando Ariel Ezrahi, consulente energetico dell'inviato del 'Quartetto' sul Medio Oriente Tony Blair (il Quartetto rappresenta USA, ONU, UE e Russia), Ha'aretz ha notato che c'è una ragione dietro all'annunciata intenzione della Giordania di comprare gas da Gaza, che ha immediatamente seguito un accordo con Israele per comprare gas dal giacimento Leviathan. Israele cerca di diventare un importante esportatore di gas verso regimi come Egitto e Turchia. Il principale ostacolo è che "per loro è molto difficile firmare accordi con Israele nonostante il disperato bisogno di gas", a causa dell'impopolarità che una scelta simile avrebbe.
"Se fossi il primo ministro israeliano", dice il consigliere di Blair, "penserei a come poter aiutare i paesi vicini ad uscire da questo pantano, e Israele non farebbe una cosa intelligente se chiudesse il mercato del gas palestinese". Dunque la sfida è integrare il gas palestinese nel complesso affare delle esportazioni di gas israeliano: "...sarebbe saggio che Israele almeno considerasse la dimensione palestinese in questo affare", dice Ezrahi, "penso che sarebbe un errore affrettarsi nel concludere accordi regionali senza considerare il contributo palestinese agli interessi israeliani".
Israele, col sostegno degli alleati occidentali, vuole usare il gas palestinese "come un asset nella conquista della rete energetica regionale, e come un ponte verso il mondo arabo", vendendo il gas palestinese "a vari mercati", o promuovendo accordi con le società che stanno sviluppando i giacimenti israeliani "Tamar e Leviathan, in modo da vendere gas a basso prezzo all'autorità palestinese".
Ma c'è una difficoltà nel considerare il contributo palestinese, ovvero Hamas: "Non posso incontrarmi con persone legate ad Hamas", dice il consulente di Blair, "è un divieto assoluto dettato dal Quartetto. Neanche gli americani vanno a Gaza". Dunque non solo Israele ha escluso ogni accordo sul gas con Hamas, ma anche gli USA, l'ONU, l'EU e la Russia. Ma Israele non ha un modo per eliminare Hamas dalla Striscia di Gaza tranne, per quanto concerne Moshe Ya'alon, un'azione militare per cambiare la situazione sul terreno.
Fra gli oltre 70 articoli che ho scritto per il Guardian, non ce n'è uno che esuli dagli argomenti per cui sono stato assunto: la geopolitica che connette ambiente, energia e crisi economiche. La conclusione è evidente: The Guardian ha semplicemente deciso che non si deve parlare dei conflitti di risorse riguardanti i Territori Occupati. Si noti che prima del mio post il giornale non aveva mai messo in relazione le azioni militari israeliane e il gas di Gaza. E ora che non ci sono più, dubito che parlerà ancora dell'argomento.
Bene, così almeno Ya'alon e il suo capo Netanyahu saranno contenti. Per non parlare di Tony Blair.

Il ministro della difesa israeliano Moshe Ya’alon (a sinistra) e il primo ministro Benjamin Netanyahu (destra)

Censura liberale

Parlando in confidenza su quanto mi era accaduto con altri giornalisti fuori e dentro il Guardian, tutti erano concordi nel dire che la mia storia, per quanto particolarmente scandalosa, non era una novità. Un redattore senior di un giornale nazionale britannico, che aveva più volte scritto sul Guardian come opinionista, mi ha detto di essere a conoscenza che tutto quello che riguarda il conflitto Israelo-Palestinese era "severamente controllato" da Jonathan Freedland, il redattore esecutivo della sezione opinioni del Guardian. Un altro giornalista mi ha detto che un redattore del Guardian gli aveva commissionato un articolo sulla soppressione della critica a Israele nei media, ma che poi Freeland aveva rifiutato la storia senza neanche aver letto la bozza. Diversi altri giornalisti con cui ho parlato sono arrivati a descrivere Freedland come il "cane da guardia" non ufficiale sul conflitto in Medio Oriente, che invariabilmente interviene in favore di un linguaggio pro-israeliano.
Jonathan Freedland
Questi aneddoti sono stati corroborati pubblicamente da Jonathan Cook, un ex reporter dal Medio Oriente, corrispondente e opinionista del Guardian, che adesso lavora a Nazareth dove ha vinto numerosi premi per i suoi reportage. Un profilo di Cook sul sito ebraico progressista Mondoweiss racconta che nel 2001 ci fu una svolta nella sua carriera quando ritornò da Israele dopo aver condotto un'inchiesta sull'omicidio da parte della polizia israeliana di 13 manifestanti arabi non-violenti durante la seconda Intifada. Cook scoprì che la polizia aveva agito secondo una politica "spara per uccidere" contro vittime disarmate, come è stato poi confermato da un'inchiesta governativa. Ma il Guardian scartò la sua inchiesta e decise di non pubblicarla affatto. Cook sostiene che sebbene il giornale contenga delle inchieste e delle analisi esemplari, e si spinga fino a condannare l'occupazione, ci sono linee che non possono essere oltrepassate. Ad esempio mettere in dubbio la dottrina israeliana dell'essere uno stato esclusivamente ebraico e al contempo democratico, o criticare certi aspetti della sua dottrina securitaria.
Le critiche di Cook in un suo articolo apparso su Counterpunch nel 2011 sono rivelatrici, e molto rilevanti, per capire quello che è accaduto a me:
“Il Guardian, come altri media mainstream, è pesantemente coinvolto, sia finanziariamente che ideologicamente, nel sostegno all'attuale ordine globale. Un tempo era capace di escludere e ora, nell'epoca di internet, screditare quegli elementi della sinistra le cui idee rischiano di mettere in discussione un sistema di potere e di controllo da parte delle corporazioni, di cui il Guardian è una istituzione chiave.
Il ruolo del giornale, come quello dei suoi cugini di destra, consiste nel limitare l'orizzonte di idee dei lettori. Se c'è abbastanza dibattito di sinistra per far credere ai lettori che il loro giornale sia pluralista, la prospettiva radicale, che mette in discussione le stesse fondamenta su cui si basa il sistema di dominio occidentale, è esclusa o ridicolizzata.”
Il mese scorso, Cook ha messo l'accento sulla sottile ma potente insensibilità linguistica usata negli articoli del Guardian sulla crisi di Gaza che hanno come effetto la "scomparsa" dei palestinesi. Ha identificato in particolare Freedland come protagonista di questo fenomeno: "L'orgoglio del Guardian" nell'aver contribuito alla creazione di Israele "è ancora palpabile nel giornale, come ho sperimentato negli anni in cui vi ho lavorato", specialmente fra certi redattori senior "che influenzano gran parte della copertura del conflitto - sì, sto parlando di Jonathan Freedland, fra gli altri".
Gaza dopo l'operazione israeliana ‘Bordo protettivo’
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(In una postilla datata 4 dicembre, viene riportata una risposta indignata di Freedland che nega categoricamente di conoscere il lavoro dell'autore e di avere avuto un ruolo nel suo licenziamento, chiedendo inoltre di pubblicare la sua smentita in nome dell'"integrità giornalistica". L'autore, nell'attenersi alla richiesta, risponde di non averlo mai accusato di avere un ruolo nel licenziamento, e di aspettarsi invece una sua risposta in merito agli aneddoti citati da diversi giornalisti riguardo il ruolo di Freedland nella censura di articoli critici contro Israele sul piano ideologico.)
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Post Scriptum:
Tutto questo forse non è poi così sorprendente. Un libro di Daphna Baram commissionato dal Guardian dal titolo "Disincanto: Il Guardian e Israele" documenta chiaramente il legame fra il giornale e il Sionismo, notando ad esempio che il redattore del Guardian CP Scott ebbe un ruolo centrale nei negoziati col governo britannico che portarono alla Dichiarazione Balfour e alla stessa idea dello stato di Israele. L'autrice conclude che nonostante sia divenuto sempre più critico nei confronti dell'occupazione dopo il 1967, il Guardian rimane fermamente pro-sionista, con il suo personale che dedica "un tempo e uno sforzo sproporzionato" per garantire “equità nei confronti di Israele.”

Il Dr Nafeez Ahmed è un giornalista  investigativo, autore di bestseller ed esperto di sicurezza internazionale. Dopo aver lavorato a The Guardian, cura ora la rubrica ‘System Shift’ su VICE’s Motherboard, ed ha vinto il premio 'Progetto censurato 2015' per giornalismo investigativo di eccellenza grazie al suo lavoro per il Guardian. E' autore di  Guida alla crisi di civilizzazione e come uscirne (2010), e del thriller fantascientifico ZERO POINT, fra gli altri libri.

(Traduzione di Giacomo Graziani per l'Associazione di Amicizia ItaloPalestinese Onlus, Firenze.

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