Quando Annibale calpestò Rafah


Una lacrima scende len­ta­mente sul bel viso di Fatma Abu Musa. Si ferma all’altezza del lab­bro supe­riore. Una mano corre veloce ad asciu­garla, per farla spa­rire subito. È un dolore com­po­sto…
ilmanifesto.info

Una lacrima scende len­ta­mente sul bel viso di Fatma Abu Musa. Si ferma all’altezza del lab­bro supe­riore. Una mano corre veloce ad asciu­garla, per farla spa­rire subito. È un dolore com­po­sto quello della gio­vane donna, tenuto den­tro, mani­fe­stato solo a tratti dalla voce rotta dall’emozione. «Karam era la mia migliore amica, ci vole­vamo bene. L’avevo aiu­tata io a indos­sare l’abito da sposa e quat­tro mesi dopo sono stata io a lavare il suo corpo prima della sepol­tura. Delle volte mi dico…è stato solo un brutto sogno e pre­sto ti sve­glie­rai… ma non è così. Karam non c’è più», rac­conta Fatma, tec­nico di labo­ra­to­rio dell’ospedale “Kuwaiti” di Rafah. La sua amica Karam Dheir, 26 anni, è rima­sta uccisa il 1 ago­sto del 2014 durante quello che rimarrà scol­pito nella memo­ria col­let­tiva della popo­la­zione di Rafah come il “Venerdì Nero”. E’ delle pagine più insan­gui­nate dell’offensiva mili­tare israe­liana “Mar­gine Pro­tet­tivo” comin­ciata l’8 luglio dello scorso anno e andata avanti fino al 26 ago­sto. Cin­quanta giorni di bom­bar­da­menti aerei, tiri di mezzi coraz­zati e di arti­glie­ria, can­no­nate dal mare, di incur­sioni e com­bat­ti­menti che hanno ucciso circa 2.200 pale­sti­nesi, tra i quali molte cen­ti­naia di civili indi­fesi, oltre 500 bam­bini e ragazzi. Tante fami­glie sono state deci­mate, col­pite da bombe men­tre erano riu­nite in casa. Undi­ci­mila i feriti, cen­ti­naia di migliaia di per­sone sfol­late per set­ti­mane, decine di migliaia di case ed edi­fici distrutti o dan­neg­giati gra­ve­mente, anche ospe­dali, in par­ti­co­lare nella fascia orien­tale di Gaza. Beit Hanoun, Shu­jayea, Khu­zaa, Zay­ton, Zan­nah e, appunto Rafah, sono i nomi di alcuni dei cen­tri abi­tati ridotti a una distesa di rovine. Migliaia sono i razzi e i colpi di mor­taio che il movi­mento isla­mico Hamas e altre orga­niz­za­zioni pale­sti­nesi hanno spa­rato verso il ter­ri­to­rio israe­liano, facendo sette morti civili (tra i quali un bam­bino di 4 anni) e cen­ti­naia di feriti. 66 sono i sol­dati israe­liani rima­sti uccisi un anno fa, quasi tutti, negli scon­tri a fuoco con i com­bat­tenti di Hamas e di altri gruppi.
Uno di que­sti mili­tari morti era il sot­to­te­nente Hadar Gol­din, di una unità di rico­gni­zione della Bri­gata Givati, caduto quel 1 ago­sto. La sua vicenda genera ancora emo­zione nell’opinione pub­blica israe­liana. Il suo corpo, e quello del ser­gente Oron Shaul, sem­pre della Givati, sareb­bero nelle mani di Hamas. Per i pale­sti­nesi il nome di Gol­din invece è sino­nimo di strage, di civili fatti a pezzi dalle can­no­nate. Il 1 ago­sto 2014 gli abi­tanti di Rafah hanno appreso sulla loro pelle dell’esistenza della “Diret­tiva Anni­bale”. «Era stata annun­ciata una tre­gua di diverse ore a Rafah – ricorda Fatma Abu Musa –, per­ciò andai al lavoro più rilas­sata rispetto agli altri giorni. Le strade erano affol­late, alcuni anda­vano ai forni per com­prare il pane, altri si pro­cu­ra­vano un po’ di frutta e ortaggi. Tanti ancora ne appro­fit­ta­vano per tor­nare per qual­che ora alle case che ave­vamo dovuto abban­do­nare per­chè troppo espo­ste alle can­no­nate». Poco dopo, aggiunge Fatma, si sarebbe sca­te­nato l’inferno: «All’improvviso comin­cia­rono a cadere bombe sulla parte est di Rafah, le esplo­sioni erano con­ti­nue, tanti scap­pa­vano urlando e in preda al panico. I col­le­ghi dell’ospedale ‘Abu Yusef al Naj­jar’ (il prin­ci­pale di Rafah, ndr) ci dis­sero di tenerci pronti per­chè loro erano in pieno codice rosso per l’arrivo di decine di feriti in con­di­zioni gra­vis­sime e che pre­sto ci sarebbe stato biso­gno del nostro inter­vento». Saleh Moh­sen, quel giorno era in Sha­raa Bil­desi, una delle strade più col­pite. «Chie­devo a Dio di farmi ritro­vare in vita la mia fami­glia — dice Moh­sen — non mi impor­tava di morire, pen­savo solo alla sal­vezza dei miei figli. I colpi cade­vano ogni 10 secondi, in modo indi­scri­mi­nato». Alle ore 12 i morti erano già decine, cen­ti­naia i feriti. Fu col­pito – da due mis­sili, secondo testi­moni pale­sti­nesi — anche l’ospedale “Abu You­sef al Naj­jar” e i medici furono costretti ad eva­cuare i feriti e gli amma­lati. «Comin­cia­rono a por­tarli da noi, nono­stante si trat­tasse di un ospe­dale spe­cia­liz­zato in oste­tri­cia e gine­co­lo­gia– spiega Fatma Abu Musa –, nelle nostre pic­cole sale ope­ra­to­rie i medici face­vano quat­tro inte­venti chi­rur­gici alla volta. Era tal­mente con­ti­nuo l’afflusso dei feriti che chie­demmo ai pro­prie­tari delle case vicine di ospi­tare quelli meno gravi». Andò avanti così per tre giorni. Ad un certo punto, aggiunge Fatma, «con l’obitorio pieno, svuo­tammo i fri­go­ri­feri dei gelati nelle sale di attesa e li usammo per con­ser­vare i cada­veri dei bam­bini e i corpi smem­brati che i medici non ave­vano potuto ricom­porre». Fatma in quei giorni si sarebbe tro­vata davanti agli occhi anche il corpo senza vita della sua amica Karam, uccisa dall’esplosione di mis­sile sgan­ciato da un drone, nes­suno sa con­tro chi e con­tro cosa.
Quel “Venerdì nero” 1 ago­sto scattò la “Diret­tiva Anni­bale”, in rispo­sta all’uccisione di due sol­dati israe­liani e alla cat­tura – ma forse era già morto — del sot­to­te­nente Hadar Gol­din da parte di uomini di Hamas. Si tratta di un codice di con­dotta delle forze armate israe­liane — deciso nel 1986 e revo­cato nel 2003 ma tor­nato in vigore dopo il caso del capo­rale Ghi­lad Sha­lit, fatto pri­gio­niero da un com­mando pale­sti­nese nel 2006 e tor­nato a casa solo nel 2011 in cam­bio della libe­ra­zione di un migliaio di dete­nuti poli­tici — che impone di “non lasciare indie­tro nes­suno” a costo di ucci­derlo: meglio un sol­dato morto che pri­gio­niero del nemico. La diret­tiva pre­vede un bom­bar­da­mento vio­lento e intenso, per ore, dell’area dove potrebbe tro­varsi il mili­tare cat­tu­rato. Rafah però non è un deserto o una enorme cam­pa­gna vuota e disa­bi­tata. E’ la terza città della Stri­scia di Gaza per numero di abi­tanti. Spa­rare a tap­peto sulla zona est della città e i suoi sob­bor­ghi signi­fica pro­vo­care una strage di civili.
Quella mat­tina del 1 ago­sto tutto comin­cia a cavallo dell’inizio della tre­gua. Le ver­sioni di Israele e di Hamas sono oppo­ste. I sol­dati, afferma Tel Aviv, erano in per­lu­stra­zione, alla ricerca di tun­nel sot­ter­ra­nei e Hamas avrebbe appro­fit­tato della ces­sa­zione delle osti­lità per ten­dere un agguato alla pat­tu­glia, fare pri­gio­niero un mili­tare e tra­sci­narlo den­tro Gaza attra­verso un tun­nel. Il movi­mento isla­mico nega e afferma che sarebbe stato pro­prio l’esercito israe­liano a vio­lare la tre­gua man­dando in esplo­ra­zione i suoi sol­dati a ridosso delle linee pale­sti­nesi in segno di sfida e per pro­vo­care la ripresa dello scon­tro. Nep­pure la Com­mis­sione d’inchiesta del Con­si­glio dell’Onu per i Diritti umani, che ha ascol­tato 22 testi­moni, visio­nato fil­mati e imma­gini satel­li­tari sui fatti del 1 ago­sto, è stata in grado di deter­mi­nare se lo scon­tro a fuoco e la cat­tura di Gol­din siano avve­nuti prima o dopo l’inizio della tre­gua. Ha accer­tato però che Rafah finì sotto un bom­bar­da­mento spa­ven­toso, con i civili in trap­pola. Una piog­gia di oltre 1000 pro­iet­tili solo nelle prime tre ore, caduta su strade e case. Un gran­dine di fuoco che ha deva­stato Mashru Amer, Tan­nur, Hay al Jneina, Via Uruba, Al Sha­wka, Zal­lata, la zona dell’aeroporto e la super­strada Sala­hud­din. Il 95 per cento delle vit­time della “Diret­tiva Anni­bale” viveva in que­ste zone. Un caso rife­rito alla Com­mis­sione dell’Onu è quello di un’ambulanza col­pita men­tre tra­spor­tava civili feriti a Msab­beh. Il vei­colo prese fuoco ucci­dendo le otto per­sone a bordo. Secondo i dati delle Nazioni Unite a Rafah si sono avuti 100 morti solo il 1 ago­sto, tra cui 75 civili (24 bam­bini e 18 donne). I media pale­sti­nesi hanno par­lato di circa 200 morti a Rafah dopo la cat­tura di Hadar Gol­din. Il bagno di san­gue è andato avanti anche nei giorni suc­ces­sivi, segnati dalla strage (10 morti), il 3 ago­sto, in una scuola dell’Unrwa (Onu) che, come molte altre di Gaza in quei giorni, ospi­tava sfol­lati. I comandi israe­liani dis­sero di aver ordi­nato di spa­rare con­tro mili­ziani armati e non verso la scuola.
In Israele della “Diret­tiva Anni­bale” si discute ancora, e sui fatti del 1 ago­sto ha inda­gato la Pro­cura mili­tare. Ma solo in rife­ri­mento al sot­to­te­nente Gol­din e a una pos­si­bile negli­genza che potrebbe avere segnato la sorte della pat­tu­glia finita sotto attacco. Non certo per le con­se­guenze deva­stanti che la sua appli­ca­zione ha avuto sulla popo­la­zione di Rafah. Il tenente colon­nello Eli Gino, coman­dante durante “Mar­gine Pro­tet­tivo” delle unità di rico­gni­zione della Bri­gata Givati, ha dichia­rato che il fuoco delle forze armate israe­liane è stato «pro­por­zio­nato» e sot­to­li­neato che quando «viene rapito un sol­dato, tutti i mezzi sono leciti» anche se esi­gono un prezzo ele­vato. Il 26 set­tem­bre 2014, il quo­ti­diano Yediot Ahro­not ha rico­struito l’accaduto in un lungo arti­colo, “Impe­dire un altro inci­dente Ghi­lad Sha­lit”, in cui si riba­di­sce che la linea seguita era quella di impe­dire, ad ogni costo, che Gol­din rima­nesse vivo nelle mani di Hamas. E nono­stante Israele sostenga, con­tro gli esiti delle inda­gini dell’Onu, di non aver com­messo alcun cri­mine la scorsa estate, l’esercito si è pre­mu­rato di nascon­dere l’identità di un capi­tano e di un mag­giore che, si com­prende dallo stesso arti­colo di Yediot Ahno­rot, sono coin­volti nella attua­zione della diret­tiva e rischiano di finire davanti alla Corte penale inter­na­zio­nale. La “Diret­tiva Anni­bale è l’inizio del fasci­smo in Israele”, scrisse l’opinionista Uri Arad il 12 ago­sto del 2014. Ini­zio del fasci­smo non per la strage di civili inno­centi a Rafah in quel “Venerdì nero” ma per­chè il pre­mier Neta­nyahu rite­neva e forse ancora ritiene sacri­fi­ca­bile la vita di un sol­dato israeliano.

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