Ilan Pappe : La colonizzazione di Israele è alla radice della violenza








20 ottobre 2015
Nel mezzo di quella che è diventata nota in Israele come “Intifada degli accoltellatori”, una scena insolita  si è svolta a Ramat Gan, dove molti dei residenti sono ebrei iracheni. Una donna piccola e magra stava proteggendo un uomo steso a terra che era stato inseguito da una folla di 40 persone, compresi alcuni soldati, che voleva linciarlo.
Mentre giaceva a terra, gli è stato spruzzato spray al peperoncino negli occhi da vicino. E’ riuscito a dire al suo angelo custode: “Sono un ebreo.” Quando infine la folla ha recepito il messaggio, è stato lasciato solo.
Era stato inseguito perché quasi tutti gli ebrei iracheni assomigliano ai palestinesi; infatti molti di noi ebrei in Israele assomigliamo ai palestinesi. Gli unici ebrei che sono “protetti” sono gli ebrei Ortodossi Mizrahi che indossano gli stessi vestiti che portavano i loro predecessori askenaziti nell’Europa del 17° secolo, avendo rifiutato il loro tradizionale abito “arabo”.
Persone invisibili
Questo attacco non è stato il solo. Altri ebrei arabi sono stati scambiati per palestinesi. Essere considerato arabo a Israele, anche in base all’apparenza, significa che si è parte dei nativi invisibili, inermi e superflui.
Tale atteggiamento non è unico nella storia. La maggior parte delle società coloniali formate da coloni (si distinguono dalle colonie che si dedicano all’estrazione di risorse, n.d.t.)  hanno adottato questo atteggiamento verso i nativi che per le società  di questo tipo sono un ostacolo che va rimosso, insieme alle pietre nei campi, alle zanzare nelle paludi, e, nel caso del primo sionismo, insieme agli ebrei meno adeguati, sia fisicamente che culturalmente.
Dopo l’Olocausto, il sionismo non poté più permettersi di essere così  schizzinoso.
Quando si analizza l’origine dell’attuale Intifada, si può giustamente indicare l’occupazione e l’estesa colonizzazione ebraica.
Però la disperazione che ha prodotto gli attuali disordini non è una conseguenza diretta della colonizzazione del 1967, ma piuttosto di quasi 100 anni di invisibilità, disumanizzazione e di potenziale distruzione dei palestinesi, ovunque siano.
Quanto profondamente sia radicata questa negazione dell’umanità dei palestinesi nativi, nell’odierno  discorso politico di Israele, si è potuto vedere nei due principali discorsi di Benjamin Netanyahu e del leader dell’opposizione, Yitzhak Herzog, fatti martedì alla Knesset.
Netanyahu ha spiegato molto bene perché la disperazione dei palestinesi produrrà sempre più Intifada in futuro e perché la delegittimazione internazionale di Israele aumenterà in modo esponenziale.
Ha definito i 100 anni di colonizzazione  un progetto che per nessuna buona ragione, diversa dall’istigazione islamica, ha avuto l’opposizione della popolazione palestinese nativa.
Il messaggio ai palestinesi è stato chiaro: accettate il vostro destino di invisibili detenuti  della più grossa prigione sulla terra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e come una comunità sotto un duro regime di apartheid, e possiamo tutti vivere in pace. Qualsiasi tentativo di rifiutare questa realtà è terrorismo della peggiore specie e sarà affrontata conformemente.
All’interno di questa narrazione se la persona che gli scrive i discorsi stata tentando di calmare le preoccupazioni nel mondo musulmano riguardo al destino di al-Haram al-Sharif (il Nobile Santuario detto anche Monte del tempio),* arrivato invece il messaggio opposto. Gran parte del discorso su  al-Haram al-Sharif è stata una lezione di storia sul motivo per cui il luogo appartiene al popolo ebraico.
E sebbene Netanyahu abbia terminato la seduta con la promessa di non cambiare lo status quo, la presenza dei capi di un partito che credono fortemente nella necessità di costruire un terzo tempio in quel luogo, non sono certo rassicuranti.
‘Mai insieme’
Nel suo discorso, Herzog, il capo dell’opposizione sionista liberale, ha manifestato la disumanizzazione dei palestinesi in modo diverso. Ha ripetutamente sottolineato che il suo incubo è un paese dove ebrei e palestinesi vivrebbero insieme.
Perciò la separazione, la ghettizzazione e le enclave sono la soluzione migliore, anche se significa restringere un poco dell’Israele più grande. “Noi siamo qui e loro sono là”, ha detto, ripetendo il famoso slogan di Ehud Barak e di Shimon Peres degli ultimi anni ’90.
Il giornalista liberale di Haaretz, Barak Ravid, ha ripetuto l’orrore dei sionisti liberali: se si ha uno stato con due paesi, gli accoltellamenti saranno un evento quotidiano, ha avvertito. L’idea che Israele/Palestina liberata sarà una democrazia per tutti, non è mai stata sull’agenda liberale sionista.
Questo desiderio degli israeliani di non condividere la vita con ogni cosa araba è un atteggiamento percepito da ogni palestinese quotidianamente. Più di un secolo di colonizzazione e nulla è cambiato nella completa negazione dell’umanità dei palestinesi nativi o del loro diritto alla pace.
E’ stata la politica israeliana e le azioni contro la Moschea Al-Aqsa che hanno acceso l’attuale ondata di proteste e di attacchi individuali che è stata però innescata da un’atrocità lunga un secolo: il culturicidio crescente della Palestina.
Il mondo occidentale è rimasto inorridito dalla distruzione delle antiche gemme culturali per mano dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL). La distruzione di Israele e la cancellazione dell’eredità islamica della Palestina è stata di gran lunga più estesa e importante. A malapena una moschea è rimasta intatta dopo la Nabka, e molte di quelle rimaste sono state trasformate in ristoranti, discoteche e aziende agricole.
Il tentativo di palestinesi di far rivivere la loro eredità teatrale e letteraria è considerata da Israele come una commemorazione della Nabka ed è illegale se intrapresa da chiunque faccia affidamento su finanziamenti governativi.
Quello che vediamo e continueremo a vedere in Palestina, è la lotta per l’esistenza condotta  dai nativi di un paese ancora sotto la minaccia della distruzione.
Ilan Pappe è il direttore del Centro Europeo di Studi palestinesi all’Università di Exeter. Ha pubblicato 15 libri sul Medio Oriente e sulla Questione palestinese.

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