Parole vuote. Sull’Italia, l’Egitto, e la giustizia per Giulio – Omar Robert Hamilton



 
 
 
 
 
 
 
Questo blog, come sapete, contiene solamente i miei articoli, le mie riflessioni, i miei pensieri. Raramente…
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Questo blog, come sapete, contiene solamente i miei articoli, le mie riflessioni, i miei pensieri. Raramente faccio una eccezione, perché le eccezioni van fatte. Ho chiesto a Omar Robert Hamilton di mettere sul mio blog la traduzione italiana dell’articolo che ha pubblicato su Jadaliyya. Ed eccola qui. 
Poche parole sull’autore, Omar Robert Hamilton. Regista, attivista, firma analisi e commenti su The Guardian e London Review of Books. Era a piazza Tahrir, al Cairo, cinque anni fa, assieme alla sua famiglia e agli altri ragazzi che hanno fatto la rivoluzione.
Fratture multiple, bruciature di sigaretta, abrasioni, unghie strappate, tutte le dita rotte, decine di lacerazioni su tutto il corpo, sulle piante dei piedi, e sulle orecchie, e per concludere la rottura del collo e il soffocamento. Il corpo di Giulio è stato ritrovato seminudo lungo il ciglio di una strada.
I segni dei servizi di sicurezza egiziani sono immediatamente riconoscibili. Nessuno ha dubbi sulla mano che ha ucciso Giulio Regeni. E così i rapporti diplomatici ed economici tra Egitto e Italia sono stati spinti a forza sotto i riflettori.
Il governo italiano si è espresso con dichiarazioni forti. Il ministro degli esteri ha reiterato: “Non ci accontenteremo di verità di comodo”, mentre il ministro dell’interno ha affermato che leggere i risultati dell’autopsia “è stato come un pugno nello stomaco dal quale non ci siamo ancora ripresi”. Il Financial Times ritiene che l’uccisione di Regeni “rischia di mettere in pericolo le strette relazioni tra Roma e il Cairo”.
E’ un ritornello ricorrente, nei media. Ma c’è del vero in queste dichiarazioni? I ministri affermano di ricercare la verità, ma di quale verità si tratta? La verità sull’uomo che ha materialmente inferto il colpo mortale oppure sul sistema che sul quel colpo è stato costruito?
E soprattutto dobbiamo chiederci: qual è il ruolo dell’Italia dentro quel sistema?
L’Italia è stata, per decenni, la principale destinazione delle esportazioni egiziane. L’Italia mantiene nel paese attività per un valore di 2,6 miliardi di dollari, comprese partecipazioni importanti nel settore del petrolio e del gas, nell’industria del cemento, nelle banche e nei trasporti.
L’Italia vende all’Egitto armi, munizioni, e veicoli blindati destinati alla polizia. Nei cinque anni che hanno portato alla rivoluzione del 2011, l’Italia aveva venduto all’Egitto armi leggere e munizioni per un valore di 48 milioni di dollari. I camion della polizia che riempiono le strade di ogni città egiziana, che trasportano le forze antisommossa e che passano sopra i manifestanti sono prodotti da un’azienda italiana, la Iveco. Centinaia di migliaia di proiettili sparati contro i manifestanti possono essere ricondotti a una fabbrica italiana di armi, la Fiocchi.
Le armi, però, sono solo una piccola parte di questa storia. Le aziende italiane fanno soldi in tutto l’Egitto. Prendiamo il cemento, per esempio: l’industria del cemento egiziana è il settore con i più alti profitti in una economia-paese che sta crollando. Quando il patrimonio pubblico è stato svenduto a causa dell’agenda neoliberale di Mubarak, tre grandi società sono arrivate a dominare la scena della produzione del cemento egiziano, vale a dire la francese Lafarge, la messicana Cemex, e l’italiana Italcementi. Queste società, messe assieme, godono di un monopolio che consente loro di applicare prezzi fissi con percentuali di profitto sbalorditive, rese possibili anche, tra le altre cose, da condizioni di lavoro criminali e dall’elettricità che viene sovvenzionata dal governo egiziano.
Il 2 febbraio, due giorni prima del ritrovamento del corpo di Giulio, il ministro italiano per lo sviluppo economico stava guidando una delegazione di 60 grandi imprese che cercavano “di sfruttare i vantaggi competitivi dell’Egitto”. Due giorni dopo, Giulio fu abbandonato sul ciglio di una strada e la delegazione se ne è tornata tranquillamente a casa. Come ha però sottolineato un funzionario, “nessuno da parte italiana vuol mettere in discussione le intese sulle quali stiamo lavorando… dal punto di vista tecnico, l’omicidio e le relazioni economiche sono due questioni scollegate”.
L’incrollabile sostegno dell’Unione Europea al regime di Al Sisi è però una parte essenziale della condizione permanente del senso di impunità che consente ai servizi di sicurezza di torturare continuamente e di uccidere persone senza alcun timore di essere puniti. Quando l’Italia manda le sue delegazioni commerciali ogni anno, quando il suo primo ministro si alza in una conferenza economica egiziana e dice “La vostra guerra è la nostra guerra, e la vostra stabilità è la nostra stabilità”, vuol dire solo una cosa. Fate ciò che avete bisogno di fare per rimanere al potere, per mantenere vivi i “vantaggi competitivi” dell’Egitto per lo sfruttamento capitalistico.
Imprese come Italcementi fanno affidamento sull’apparato di sicurezza dell’Egitto per mantenere forte quel vantaggio competitivo. Se non fosse per il pugno di ferro dei servizi di sicurezza, se non fosse per la loro repressione della protesta, del dissenso, dell’attivismo sindacale quegli alti margini di profitto non potrebbe mai essere sostenibili. Jack Shenker descrive la storia della Italcementi in Egitto nel suo nuovo libro intitolato Egyptians: a radical history:
“La mastodontica Helwan Cement Company fu fondata nel 1929 con un decreto reale… Nel 2001 è stata acquistata per una quota da un società svizzera di management e consulenza, che successivamente è stata sostituita dalla più grande società di investimento privato della regione, prima di essere acquistata dalla sussidiaria francese di una multinazionale italiana, che continua a gestire l’impianto ancora oggi. I nuovi proprietari hanno approfittato della riforma della legislazione sul lavoro in Egitto, imposta dalle pressioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che ha consentito ai dirigenti di mettere i lavoratori sotto contratto temporaneo virtualmente senza indennità né assicurazione. Contratti che potevano essere rinnovati per un tempo indefinito. Nel 2007 un centinaio circa di lavoratori che erano stati impiegati continuativamente per più di cinque anni attraverso questo tipo di contratti temporanei sono stati licenziati senza preavviso. La loro richiesta di parlare al direttore non è stata accolta, e sono stati messi fuori dai cancelli della fabbrica. Un leader sindacale locale ha detto che la decisione avrebbe “privato centinaia di famiglie dell’unica fonte di reddito”. Quell’anno, la società madre della Helwan Cement, e cioè la Italcementi, che ha la sua sede a 1600 km di distanza a Bergamo, ha avuto un utile netto di 613 milioni di euro.”
Giulio Regeni era andato in Egitto per fare ricerca sui movimenti sindacali informali. Nel suo ultimo articolo, aveva discusso della “ondata massiccia di privatizzazioni durante l’ultimo periodo dell’era Mubarak” e di come la politica del regime di Al Sisi fosse “un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali”. Aveva lodato “i sindacati indipendenti … che rifiutano di arrendersi” e “il loro coraggioso mettere in dubbio la retorica che il regime usa per giustificare la sua stessa esistenza”. E quindi dobbiamo anche mettere in discussione la retorica del regime internazionale,  mettere in cima alle nostre discussioni le modalità secondo le quali paesi economicamente rilevanti come l’Italia traggono benefici dal mantenimento di regimi dittatoriali degli Stati clientes, per sfruttare meglio le loro risorse naturali e il lavoro. Le elite affaristiche locali e le aziende internazionali raggiungono profitti astronomici mentre i servizi di sicurezza reprimono l’opposizione interna. Quella stessa repressione che ha incluso per lungo tempo la tortura e l’uccisione di attivisti sindacali, e che oggi ha compreso anche Giulio.
Il ministro dell’interno Angiolino Alfano ha detto che la lettura dei risultati dell’autopsia “è stata come un pugno nello stomaco”, e la sua dichiarazione è diventata virale. Eppure si tratta dello stesso ministro che, mettendo da parte il fatto che sia stato un importante alleato di Silvio Berlusconi, ha estradato come tutti sanno la moglie e il figlio di un dissidente politico, mandandoli verso un destino sconosciuto in Kazachstan, dove il gigante del comparto energetico italiano ENI ha una partecipazione importante nell’impianto petrolifero di Kashaghan.
Nell’agosto scorso, la stessa società, l’ENI, ha scoperto un giacimento di gas “supergigante” nelle acque di fronte alla costa settentrionale dell’Egitto. L’ENI ha annunciato con orgoglio che si trattava del più grande giacimento del Mediterraneo per un valore stimato di oltre cento miliardi di dollari. Con tutti questi soldi sul tavolo, è difficile dare credito a quelle che nei giornali vengono definite relazioni tese.
Certo, se l’Italia fosse stata seria nel promuovere giustizia, diritti umani, democrazia e lotta alla impunità, così come tutti gli Stati membri dell’Unione Europea dichiarano di essere, allora il tono della conversazione adesso dovrebbe essere completamente differente. Non solo si dovrebbero usare a proprio vantaggio gli interessi economici contro Al Sisi, ma ci troveremmo anche a parlare di giustizia economica e di come far finire questa economia di sfruttamento che rafforza i ricchi e schiaccia i poveri. Staremmo a discutere quali riparazioni i paesi e le imprese del nord dovrebbero dare al sud per decenni di saccheggio, consentito dal rafforzamento economico di regimi oppressivi, e discuteremmo di come liberarci di questi regimi una volta per tutte.
Non c’è però fame di questo tipo di giustizia. Ci sarà forse solo uno stop temporaneo alla vendita di armi o alle perforazioni, o lo stralcio di un solo euro da una qualsiasi delle economie liberalizzate e tremendamente redditizie.
Ci saranno dichiarazioni dure. Forse potremo veder comparire anche un poliziotto in tribunale. E poi? Niente si farà per affrontare la violenza endemica che lo Stato egiziano abbatte sui suoi sudditi, oppure l’attiva partecipazione italiana a questa economia della violenza. Forse la polizia ci penserà due volte prima di torturare il prossimo straniero sino alla morte, ma non farà nulla per le migliaia di egiziani che languiscono nelle prigioni oggi o per le centinaia di famiglie che ancora piangono i figli che hanno perso ieri. In questi momenti di lutto e di rabbia è importante non accettare qualsiasi soldato semplice che sarà offerto in sacrificio per placare gli animi, ma considerare la morte di Giulio come il risultato di un sistema che è mantenuto attivamente da attori potenti in tutto il mondo.  Giulio Regeni si è unito alla schiera dei martiri in Egitto, e avrà giustizia solo quando verrà resa giustizia a  Mohammed al Guindy, Talaat Shabib, Adel Abd el Sami, Mohammed al Shafie e tutti gli altri nomi che sappiamo e tutti quelli che ancora non conosciamo.
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