Disabili in Palestina: intervista a Hamdan Je’we:



Hamdan Je’we:




Buongiorno. Mi chiamo Hamdan e sono fondatore e volontario in un’associazione giovanile che si chiama “Lighting the candles”, avviata a Betlemme alcuni anni fa; ho 26 anni.

26 anni, tanti o pochi in Palestina?
Tanti, non siamo più considerati “giovani” qui ma lo restiamo “nel cuore”.
La mia storia è stata un po’ difficile: sono nato con una disabilità fisica alle gambe, che non mi permetteva di camminare. La disabilità è un problema grave, perché implica una dimensione sia fisica che mentale e culturale.

Nel mio caso, sono stato isolato fino a 11 anni perché qui la situazione dei disabili è considerata soltanto un problema, o meglio una tragedia grave che colpisce l’intera famiglia.
Se guardiamo a livello sociale, come le famiglie e in generale la cultura arabo-palestinese trattano le persone disabili, è davvero difficile la situazione per chi nasce con questi problemi.
Non tanto perché non sappiano che fare, come aiutarle; ma per l’educazione, la mentalità, il background culturale delle famiglie, generalmente molto tradizionale. Non le aiutano a diventare indipendenti, ad andare avanti con la loro vita. Non pensano nemmeno che possano avere una vita autonoma.
Perché non li aiutano?
Prendiamo il mio caso: io sono stato isolato dentro una stanza a casa dei miei genitori fino ad 11 anni. Perché per loro era una cosa strana avere un bambino così, diverso dagli altri. Anche per i miei fratelli e sorelle era strano.
Chi nasce così in Palestina si pensa non potrà mai avere una vita normale, perché una persona diversa fisicamente non è considerata uguale agli altri perché non può fare le stesse cose degli altri.
Io ho avuto l’opportunità d’andare avanti con la mia vita, un po’ per caso, con un pizzico di fortuna,
perché mia madre un giorno ha aperto la porta della mia stanza e – non so se vi immaginate come sia stare chiusi in una stanza per anni, o anche non per anni ma solo per tante ore di seguito, è come quando si mette un gatto in una scatola, e quello che era un animale bello, carino e docile diventa aggressivo come un matto – così è successo a me: sono uscito da quella stanza fuori di testa
Ero impazzito psicologicamente
Io sono una persona come le altre, una persona normale, che aspira alla libertà, alla dignità, alla vita, aspirazioni che per gli altri sono normali, scontate
Volevo soltanto essere una persona uguale alle altre
E invece come trascorrevi la tua vita a casa, in famiglia?
Passavo il mio tempo tra l’ospedale, qualche associazione e poi di nuovo a casa.
A casa ero isolato, senza poter vedere nessuno. Non avevo amici e non conoscevo né la mia famiglia né gli altri parenti. Tanto che quando finalmente sono uscito, i miei parenti si chiedevano chi fossi, perché non mi avessero mai visto. Io dicevo loro il mio nome e loro si rendevano conto che ero parte della famiglia
Sono uscito soltanto per caso perché un giorno sono scappato e fuggito in strada, e mi ha visto un vicino e mi ha chiesto chi ero, che era successo, anche lui non sapeva chi fossi, dato che non m’aveva mai visto nonostante io fossi sempre stato lì a due metri
Quando si ha un disabile in casa in Palestina, si insinua la cultura della vergogna: la famiglia si sente in “colpa” di avere un figlio così, d’avere una persona disabile in famiglia.
Quanto ti sono mancati amici della tua età?
A livello sociale è stato molto duro. Oggi sono una persona totalmente diversa.
Quando ho avuto la prima opportunità di uscire di casa, sono andato in un centro sportivo per disabili vicino a Beit Jalla (una frazione di Betlemme). Mia madre aveva chiamato un programma radio e aveva chiesto al presentatore come aiutare suo figlio disabile, allora le era stato detto di questo centro.. ma io purtroppo non sono una persona sportiva! Piuttosto una persona socievole, che aveva tantissimo bisogno di contatti umani..
Raccontaci cosa è intervenuto a modificare profondamente il corso della tua vita…
Sono stato 6 mesi a questo centro sportivo, poi piano piano ho cominciato a guardarmi intorno. Avevo tanta voglia d’andare avanti.
Se penso a 15 anni fa, ho avuto bisogno di una tale determinazione per andare avanti! Ho iniziato facendo volontariato in organizzazioni per anziani, per bambini e alla fine per disabili.
E piano piano sono stato accettato dalla società, anche se c’è voluto tempo per superare la diffidenza. Credo però che quando prendi la decisione d’andare avanti con il tuo futuro, quando raccogli il coraggio, poi alla fine i cambiamenti seguono.
La tua famiglia non è stata un ostacolo?
La famiglia era contro il cambiamento, psicologico e culturale, che ho vissuto. Era contro i cambiamenti in generale. Anche perché è stato un cambiamento forte anche per lei.
Riconoscere che potessi essere e comportarmi come una persona normale, è stato un passaggio forte. A livello culturale non è stato facile. Dovete considerare che non si trattava solo della mia famiglia, ma di un contesto culturale e sociale
Le mie sorelle avevano problemi quando volevano sposarsi perché le famiglie si informavano sul fatto che vi fosse un disabile a casa, e le malattie genetiche mettono paura.
Qui in Palestina domina una mentalità molto tradizionalista.
Non era solo un problema singolo della mia famiglia, la quale è stata a sua volta vittima della società, che le ha imposto la cultura della vergogna.
Che rapporto hai oggi con loro?
Oggi è buono. Ho capito perché lo hanno fatto. Non era colpa loro.
Parlaci di come sei venuto in Europa e come ti ha cambiato quest’esperienza inattesa..
Ho sempre cercato un modo per curarmi e studiare e lavorare: avere delle prospettive di cui non avrei usufruito in Palestina. Sono venuto in Italia per caso perché ho incontrato vicino alla Chiesa della Natività (a Betlemme) la notte di Natale un volontario inglese e un ragazzo italiano con cui siamo diventati amici. Li ho invitati a casa mia e ho raccontato loro la mia storia. Poi sono andato prima in Germania e dopo in Italia.
E poi un giorno nei dintorni di Fontana di Trevi a Roma il mio amico italiano Filippo mi ha fatto incontrare un medico dell’ospedale di Colleferro che mi ha operato più volte per raddrizzare le mie gambe. Non potevo recuperare del tutto, ma sono stato capace di camminare meglio. Sono rimasto in Italia 8 mesi, abitando a Roma.
Qual è stata la tua prima impressione dell’Italia?
La gente era completamente diversa. Per me era tutto strano, la cultura, la lingua. Pian piano, con la forza che avevo, ho imparato la lingua e conosciuto tante persone.
E’iniziato tutto grazie agli amici italiani e all’amico inglese, ma all’inizio ero completamente solo e ho avuto anche molti problemi di adattamento. Ho avuto anche bisogno di tanto aiuto. È stata un’esperienza difficile.
Lentamente sono riuscito a comunicare, e adesso ho tanti contatti in tutta Italia. Per me essere in Italia è stata un sogno. Poi è venuta la chiamata della “terra natia”, avevo desiderio di ritornare in Palestina. Avvertivo anche una certa pressione da parte della mia famiglia, ma quando sono tornato a Betlemme non ero la stessa persona che ero prima.
Io vengo da una famiglia molto tradizionale, dura. Quando sono tornato, la mia mentalità era molto cambiata. Quando tu esci da una cultura per apprenderne un’altra, quando passi da una società religiosa ad una laica – da noi la religione è molto importante e presente – non puoi non attraversare dei cambiamenti sostanziali. Prima dell’Italia e per tutta la mia infanzia, io ero molto vicino a Dio, passavo molto tempo in moschea, perché noi uomini quando affrontiamo un dolore, una vita complicata, troviamo conforto nella preghiera e sentiamo il bisogno di riflettere e ringraziare. Io sono stato molto vicino a Dio proprio perché ho avuto una vita difficile. Prima ogni mattina, quando uscivo di casa, andavo in moschea, ma poi, dopo che ero stato in Europa, sono cambiato. Solo la mia famiglia non ha capito né accettato, e ancora oggi ciò costituisce un problema tra noi.
In che senso sei cambiato?
Mi chiedevano continuamente con chi ero stato. Non si immaginavano tante cose della società italiana ed erano preoccupati.

Mi chiedevano ad esempio come si comportavano le donne lì, se fossi stato a casa di qualcuno che non conoscevo. Non potevo stare a casa di qualcuno che non conoscevo, soprattutto a casa di donne era molto sconveniente. Non sarebbe stato rispettoso per loro.
Esser ospitati da una donna “straniera”, sconosciuta, che non è tua moglie, né tua madre né tua sorella, non è ben visto. In Palestina le cose che puoi fare sono di meno. L’Italia sembra un mondo pericoloso.
Avevano più paura quando sei partito o tornato?
Io non ho pensato partendo che sarei cambiato così tanto, invece il cambiamento è stato irreversibile, radicale. Non ero disposto a riprendere la vita di prima.


Ancora oggi ho problemi a mediare tra due culture continuamente, sia quando vivo qui e anche quando vivo lì. E’ difficile esser un po’ sospeso tra due mondi e si fa un po’ di fatica a passare dall’uno all’altro. Io ho sempre cercato di armonizzare le due dimensioni e soprattutto ho tentato di rispettarle entrambe, nonostante fossero così diverse.

Quando sono tornato la prima volta dall’Italia e sono tornato a vivere a casa, l’ho fatto con il desiderio di portare dei cambiamenti sia nella mia famiglia e nella società, perfino nel mio stesso quartiere.

Per questo ho fondato “Lighting the candles”: per aiutare la società non solo a livello culturale ma anche economico. Volevo tentare di rendere le persone più indipendenti, in modo diverso e ritagliato sui loro bisogni.

I bambini con i campi-lavoro, le donne con i corsi gratuiti di inglese, i disabili insegnando loro che potevano aspirare ad una vita piena, ovvero aspirare a lavorare autonomamente e non sentirsi più un peso per le loro famiglie. Non era facile avviare questa attività perché vi erano molte resistenze mentali nella società.
Non è stata considerata un’opportunità da tanta gente?
Il ringraziamento è venuto da persone che volevano cambiare, ma anche per loro non è stato facile. Considerate che qui le persone continuano a vivere in famiglia anche dopo che si sposano e quindi sono legate tutta la vita alla famiglia d’origine e hanno meno indipendenza.



Io ho creato dei gruppi misti, mescolando giovani ragazzi e ragazze; ho preso i ragazzi dei campi profughi e organizzato campi di lavoro: l’idea era proprio di lavorare con le categorie sociali svantaggiate, i ragazzi dei villaggi, dei campi profughi, per avviare un cambiamento radicale nella società. Perché la vita in Palestina non è facile..la Palestina è una grande prigione.



Il fatto di vivere in una prigione spinge la gente a vivere in modo regressivo, perché tanto comunque non si hanno opportunità.




Quando si vede ovunque un’enorme difficoltà di essere una persona libera, ci si scoraggia.
L’oppressione viene dalla occupazione israeliana o anche dalla società ?
C’è una parte che è culturale e viene dalla Palestina. Noi non vogliamo essere così ma tutto ci spinge ad essere così, siamo nati così e rispettiamo i genitori e la tradizione.


La società è molto coesa, omogenea a livello sociale e molto chiusa. Se si guarda anche ai villaggi vicino a Betlemme, i disabili non godono di nessun diritto umano. Sono chiusi non solo nelle stanze ma nelle cantine. Io ho lavorato con molti disabili che vivevano situazioni ancora più difficili della mia nelle campagne, e ho provato ad aiutare tutti quelli che ho potuto, ma è difficile riuscire ad aiutare tutti.



I disabili qui non hanno assistenza sociale, non hanno pensione, né cure né assistenza gratuite. Né qui né in Israele. Solo le organizzazioni internazionali aiutano un po’, temporaneamente, alcune persone. Qui l’assistenza medica è tutta privata: se hai soldi ti puoi curare, altrimenti niente. Quasi tutti i disabili non hanno lavoro: formalmente esiste una legge che protegge i disabili, ma non è applicata. Il 5% dei disabili dovrebbe essere integrato lavorativamente nella società.




Non ci sono programmi per l’educazione, per insegnare anche ai genitori e agli insegnanti quali tipi di problemi possano affrontare con giovani disabili, come aiutarli n casa o a scuola
Mi chiedo che pensi la gente quando oggi ti vede così indipendente, così ottimista, a dispetto di tutto..
Io sono il lato positivo di questa storia: ho trovato il mio ottimismo nella forza di vincere la sofferenza. Se non si ha la possibilità di un cambiamento, non si trova quella forza. In questo sono stato anche fortunato: ad esempio nell’avere la possibilità di venire in Europa, uscir fuori di casa, imparare altre cose, tra cui l’inglese che ho poi avuto modo di praticare con tutti i volontari internazionali e gli amici che ho incontrato a Betlemme.
Le lingue danno tante opportunità nuove ed ognuna ha la sua storia: l’inglese l’ho appreso al centro di riabilitazione e mi è servito per i progetti e per qualsiasi contatto internazionale, per avere una comunicazione diretta, è stato essenziale. Il mio italiano viene invece dalla sofferenza dell’ospedale e siccome lì nessuno parlava inglese, mi sono sforzato d’impararlo per comunicare.
La tua associazione “Lighting the candles”, che obiettivi si propone?
E’ nata con l’idea di avviare un servizio di assistenza sociale: quando sei una persona nata senza niente, vuoi diventare qualcosa e migliorare la tua situazione personale e quella degli altri che ti circondano. Conoscere persone, aprire la società e un varco per tutti i Palestinesi svantaggiati, incentivarli a sviluppare le loro potenzialità e a non arrendersi.




All’associazione lavoravano sia Palestinesi che volontari internazionali. Venivano anche ebrei: amici che pensano di poter dare un contributo e credono anche nella lotta per la difesa dei diritti umani dei Palestinesi. Insieme, cerchiamo di dare una speranza a queste persone, una speranza d’andare avanti.



È stato molto importante, e principalmente per me: la disabilità non è un ostacolo all’autonomia, alla dignità, nemmeno qualora si trattasse di un problema mentale: si può sempre dare una forma alla propria vita e per far ciò è necessario avere delle opportunità, sentire che si può essere utili, che ce la si può fare, esattamente come avviene per le altre persone. Tutti hanno bisogno d’aiuto.
Il “Muro” opprime i Palestinesi, i checkpoints limitano la circolazione anche all’interno della stessa Palestina: che tipo di impatto hanno queste misure sulla tua vita quotidiana, quali sono gli effetti pratici dell’occupazione?
Questa storia del muro, certo che ci opprime: è alto 12 metri! E le centinaia di checkpoints disseminati tra Israele e Palestina e all’interno della Palestina ancora di più



Imprimono un’ancor maggiore difficoltà, a tutti indiscriminatamente: un ostacolo fisico e mentale proprio nell’andare avanti con la propria vita. Ma è importante esser positivi: sperare che le cose possano cambiare, scorgere una luce andando avanti.
Il futuro: come vedi sia te che la Palestina?

Io spero che cambieremo ancora: che avremo il coraggio di cambiare. Spero anche che ci sia la pace, magari attraverso una soluzione creativa.




Con la volontà delle persone si può fare molto. Personalmente, la mia forza viene da un’anima complicata, che pensa e riflette prima di fare ogni cosa e che pensa sempre a come far pendere la bilancia positivamente
Occorre forza, sia nella vita individuale che collettiva, e coraggio. La situazione politica ha bisogno di un grande cambiamento, esattamente come l’ha avuto la mia vita.


Mi auguro una Palestina più libera, anche se c’è bisogno di un miracolo.
Mi piacerebbe poter viaggiare liberamente, così come mi piace andare in giro per l’Italia, mi piacerebbe farlo nella mia terra, senza che ad ogni metro mi chiedano continuamente il passaporto.
Quando torno qui mi chiedo quale sia la mia identità: perché l’ho persa una prima volta come persona disabile e una seconda come Palestinese.
Ho affermato la prima dimostrando che esistevo e che aspiravo alla stessa vita delle altre persone, adesso vorrei che anche la mia terra conquistasse una propria identità e la possibilità di decidere davvero come vivere e come svilupparsi autonomamente.
Intervista al direttore dell'ospedale BASR di Betlemme

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lunedì 19 luglio 2010

Il dramma di essere disabili in Palestina


La difficile vita condotta dai palestinesi all'interno della Cisgiordania e della Striscia di Gaza diviene ancora più drammatica quando si affronta il tema della disabilità: fisica e mentale.Il 70 per cento dei disabili palestinesi soffre di malattie congenite mentre il restante 30 per cento è divenuto tale solo in seguito a violenze subite o a scontri armati. Circa il 50 per cento dei disabili palestinesi non sa ne scrivere, né leggere poiché non ha avuto accesso alle scuole primarie. Sono almeno 20mila le donne disabili che vivono attualmente nei Territorio Occupati: il 66 per cento di queste risulta analfabeta e solo il 25 per cento può contare su un impiego stabile ed economicamente retribuito. Ciò che subito risalta all'interno di questi dati è la differenza posta in essere fra i disabili divenuti tali in seguito ad un incidente ed i disabili che invece soffrono di malattie mentali o che sono nati con malformazioni.Per i primi infatti la disabilità viene vissuta quasi con onore. La gamba amputata in seguito a scontri con le forze di sicurezza israeliane non viene nascosta o sostituita con una protesi, ma orgogliosamente sfoggiata come dimostrazione dell'impegno profuso per la lotta di liberazione nazionale. In particolare molti palestinesi hanno perduto gambe, mani e occhi durante le violenze scoppiate durante l'Intifada al-Aqsa.
Non a caso è possibile registrare una maggiore incidenza di disabilità tra gli uomini (2,3 per cento contro l’1,8 per cento delle donne) e tra i giovani (il 64 per cento ha meno di 29 anni). Non bisogna inoltre dimenticare che il 36.7 per cento di questi casi risulta appartenere a disabilità di carattere motorio.
Per il restante 70 per cento la situazione è ben diversa. La disabilità congenita, in particolare quella mentale, viene vissuta come una vergogna dalle famiglie che, a loro dire, ne sono sfortunatamente colpite. I ragazzi nati con malformazioni vengono rinchiusi nella quattro mura casalinghe e nascosti agli occhi del resto del mondo Un settore sanitario statale totalmente deficitario e dipendente dagli aiuti esteri non riesce certamente a far fronte a questa drammatica situazione considerando inoltre che circa l'80 per cento dei servizi erogati per i disabili è riservato a coloro i quali sono divenuti tali in seguito ad eventi violenti.
Molte ong internazionali provano a colmare l'impressionante gap, anche legislativo, lasciato dall'Autorità nazionale palestinese (Anp). La legge 4 del 1999, quadro legislativo di riferimento per le persone affette da disabilità, viene applicata solo parzialmente o in alcuni casi addirittura deliberatamente ignorata. In particolare le ong provano a sensibilizzare la società palestinese cercando di evitare che l'handicap sia vissuto come una vergogna. Di più. Molte organizzazioni provano anche a reinserire socialmente i disabili palestinesi fornendo loro un lavoro considerando che, come abbiamo già ricordato, la gran parte dei disabili palestinesi risulta essere disoccupato. Secondo i dati rilasciati dal Palestianian Center for Human Rights (Pchr), la drammatica situazione dei disabili palestinesi non sembra averli resi immuni dalle violenze e dagli scontri con le forze di sicurezza israeliane. Solo durante l'Intifada al-Aqsa – afferma il Pchr - i militari israeliani avrebbero ucciso 81 palestinesi disabili, tra cui 11 bambini e 4 donne. Nello specifico 21 di questi soffrivano di disturbi mentali, 14 di disabilità fisiche, 19 coloro i quali avevano disturbi dell'udito, 7 quelli che soffriva di disabilità doppia,11 quelli che soffrivano di disabilità psichica ed anche uno che era cieco.

Abbandonati dalle strutture statali, trattati alla stregua degli altri palestinesi dagli israeliani senza potersi difendere, ma cosa ancor più grave rifiutati, in molti casi, dalle loro stesse famiglie. In una società che li rigetta e li addita come diversiIl dramma di essere disabili in Palestina

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