FRONTIERE MENTALI di RONIT DOVRAT

Qualche mese fa è uscito in Israele un libro titolato Harakiri sull’ex primo ministro israeliano Barak, nel periodo durante e dopo il suo mandato L’autore del libro Raviv Druker, laureato in legge, è un giornalista politico della radio dell’esercito israeliano “Galei Tzahal”. Doveva seguire Barak e il suo governo: una occasione che gli ha permesso di esaminare da vicino il governatore Barak. Il libro dimostra soprattutto l’incapacità di Barak di relazionarsi con gli altri, la sua paranoia (un buon motivo per non dire mai quello che pensa veramente) e la sua ossessione di essere informato sull’opinione pubblica (milioni di dollari spesi a questo scopo). Nei capitoli dedicati alla faccenda e al fallimento delle trattative di pace di Camp David, racconta Druker che il ministro Ben Ami, in un incontro chiuso, ha detto: «Clinton colpevole del fallimento del vertice. È vero, noi siamo colpevoli e i palestinesi sono colpevoli, ma lì c’era soltanto UN padrone, che ha fatto degli errori. Clinton poteva portare a Camp David Chirac, Blair e tutto il mondo, ma non l’ha fatto». Anche Druker sostiene che il governo americano e Bill Clinton hanno una grande responsabilità per come è finita la trattativa di Camp David. Nell’ultimo incontro di Bill Clinton con la sua équipe, informa Druker, è stata presa la decisione di dare una dichiarazione pubblica per la conclusione del vertice: una dichiarazione a favore di Barak... È impressionante vedere in che modo cinico si può scegliere per un popolo la sua morte concludendo le trattative di pace in due frasi: «non abbiamo un partner» e «non c’è con chi parlare». Due frasi ripetutamente dette ancora oggi dalla maggioranza degli israeliani. Forse però è più impressionante leggere nel libro di Druker quest’informazione: «la pressione americana sui palestinesi non è stata accompagnata da una simile pressione massiccia su Israele. Non che Barak non abbia dato una buona ragione per una tale pressione: durante tutto il vertice Barak ha rifiutato di incontrarsi con Arafat per una negoziazione. Barak, il quale ha fatto una pressione sugli americani per riunire il vertice dicendo che solo con un incontro diretto, intenso e a porte chiuse si sarebbe potuto arrivare ad un accordo, ha rifiutato diI incontrarsi con Arafat fuori dei pranzi comuni e delle conversazioni leggere fuori tema». Clinton, dice Druker, non impaurisce Barak, forse perché sa che il presidente americano alla fine della giornata realizzerà i desideri di Barak stesso. Paradossalmente, proprio per il rifiuto di Barak di incontrarsi con Arafat, l’équipe israeliana aspettava la pressione americana su di lui «come potrai spiegare che non ti sei mai seduto con Arafat durante otto giorni per parlare correttamente sull’ordine del giorno?».Morale. Non dimenticare mai le radici del male.
 Le radici del male certo non iniziano con Barak ma con l’occupazione israeliana che dura da 35 anni. Dobbiamo lottare per la fine dell’occupazione israeliana e per il ritiro unilaterale d’Israele (incluso lo smantellamento di tutti gli insediamenti ebraici) dai territori occupati nel ‘67, destinati al futuro stato palestinese.
Bisogna però stare attenti e non dimenticare che prima ancora del ‘67, dalla nascita dello stato israeliano nel ‘48 fin ad oggi, tutti i governi israeliani e i loro capi hanno contribuito coscientemente alla radicazione e alla crescita di questo male, applicando sempre una politica basata su principi razzisti (sia verso i palestinesi sia verso gli ebrei non occidentali “sefaraditi”). Non dimentichiamo che il sionismo è nato ed è fiorito nella stessa epoca dei grandi colonialismi, (inglese francese ecc..). Non è per caso che nei libri scritti dai sionisti già dall’inizio del ‘900 si può leggere frasi che descrivono gli arabi come: poco illuminati, inferiori, fatalistici, non produttivi, apatici ecc. (citazione dal libro di Yoram Bar Gal, Patria e geografia in cento anni di educazione sionista, 1993 MANCA CITTA o CASA EDITRICE).
La costante politica razzista dei governi israeliani verso gli arabi dalla nascita dello stato d’Israele è riuscita a disegnare un’immagine dell’arabo, o dopo del palestinese, che difficilmente si presenta all’occhio dell’ebreo israeliano come un essere umano. Il palestinese diventa come un oggetto, come un oggetto con il quale giocano i bambini. Delle volte è invisibile, delle volte dà fastidio. Qualche volta può essere divertente per i suoi aspetti folclorici, ma soprattutto i ruoli nel gioco sono chiari. Il bambino è il padrone. L’oggetto deve fare quello che dice il suo padrone, pensare come vuole il suo padrone e quando l’oggetto animato manifesta desideri umani e rivendica i suoi diritti, il padrone prepotente è arrabbiato e con violenza lo può anche distrugge. Nel caso israeliano l’oggetto-arabo/palestinese si presenta come una massa d’oggetti eguali messi insieme creando un unico oggetto: gli arabi, i palestinesi, il nemico, i terroristi. Ma anche il bambino – l'essere umano ebreo israeliano – fa parte di un’unità chiamata “gli israeliani”. In questo modo diventa facile manipolare una società interna[o intera???]. Come nel gioco, tutti i passaggi mentali, psicologici e pratici diventano “naturali” per gli israeliani. Prima l’oggetto/palestinese è un nemico poi in un momento di grazia molto corto diventa un possibile futuro amico. Poi, il bambino vuole la soddisfazione immediata e quando scopre che il gioco non va come lo voleva lui, e solo lui, diventa ancora più prepotente. In questo modo diventa facile manipolare la società israeliana. Non è difficile capire l’uso comune delle frasi (sempre in prima persona plurale), masticate dalla maggioranza degli israeliani: «siamo delusi dai palestinesi», «non abbiamo un partner», «loro vogliano il terrorismo – non ci vogliano qui» ecc. Non resta che distruggere il palestinese/oggetto. Bambini, ragazzi, donne e uomini, anziani, civili, soldati, poliziotti. Kamikaze – tutti sono UNO.
Perciò è evidente perché, in mezzo alle atrocità criminali dell’esercito israeliano nei territori occupati, i soldati dal loro carro armato uccidono bambini mentre vanno a comprarsi le caramelle a Jenin. Di più. la maggioranza degli israeliani non sente nessun bisogno di riflettere sul loro comportamento perché ha già le giustificazioni (sempre in prima persona plurale): «Noi siamo sempre le vittime. Noi volevamo la pace. Noi rischiamo la nostra vita. Se loro non smettono con il terrorismo noi non abbiamo altre strade».
Quando un bambino non capisce la differenza tra il gioco e la realtà si manifesta un problema psicologico nel bambino. La politica israeliana invece ha un grande interesse che i confini tra il gioco e la realtà si lascino poco chiari e tanto confusi. È un gioco, semplicemente, molto sporco.
 L'organizzazione internazionale per la difesa dei bambini comunica dalla sua sede nei territori occupati che il numero dei bambini palestinesi uccisi dall’esercito israeliano è 294 e più di 700 sono i feriti. Tanti sono rimasti mutilati. Tutti questi numeri riguardano un periodo dall’inizio della seconda intifada fino al 31 giugno.
Una ricerca psicologica su 1300 bambini della Cisgiordania dimostra che il 70 % dei bambini palestinesi e il 30 % di bambini ebrei negli insediamenti soffrono di disturbi di stress post trauma a causa della situazione sanguinosa.
La psicologa Tamar Lavi, cha condotto questa ricerca che fa parte della sua tesi per l’università di Tel Aviv, dice che i bambini che hanno preso parte alla sua ricerca soffrono di incubi, incontinenza notturna, disturbi alimentari, ansia, e mancanza di senso d’orientamento.
Hazan Ziadah, uno psicologo di Gaza che lavora all’interno di un programma per la salute, afferma che i risultati della ricerca di Tamar Lavin sono simili alla ricerca fatta nel centro dove lavora. La ricerca del centro palestinese per la salute ha dimostrato che anche i bambini cresciuti nel periodo dal 1987 al 1993 (prima intifada) manifestano sintomi di stress post trauma. Ziahada dice: «La nostra prossima generazione soffrirà di questo trauma… Dobbiamo prepararci a trattare con le sue conseguenze psicologiche e sociali. Una generazione di bambini con problemi psicologici cronici ha degli effetti destabilizzanti per la società». Tamar Lavin conclude dicendo che le persone che decidono la strada della violenza e del conflitto devono capire che queste cose non passano così come niente sui bambini e che i bambini qui pagano un prezzo molto ma molto alto.
I bambini palestinesi non hanno tante scelte purtroppo; i bambini dei coloni invece si. In nome di cosa nell’ebraismo si permette ai coloni-genitori di questi bambini di rovinare la vita dei loro figli e dei figli dei palestinesi?
Victor Sabranski, 18 anni, è entrato in prigione per la terza volta per 28 giorni per il suo rifiuto di fare il suo servizio di leva nei territori occupati. Nella sua lettera al ministro della difesa scrive: «sono stato educato con i valori della democrazia... credo nella completa eguaglianza tra le persone... sono sicuro che la mancanza di una dichiarazione di rifiuto al servizio da parte mia finora è stata per la paura e la pressione imposta dalla società israeliana a favore dell'esercito dello stato... Non sono affatto soldato, sono ancora bambino e sono nato a questo mondo per vivere e non per morire nei territori seguendo una politica sbagliata dell’esercito e dello stato».
Tutti gli occhi di quelli che appoggiano “la guerra contro il terrorismo” puntano contro i libri di studio palestinesi ed arabi. Dicono che i testi studiati dai palestinesi sono pieni di odio e propaganda contro gli israeliani e contro gli ebrei. L’atteggiamento negativo nei confronti della presenza degli ebrei e dello stato d’Israele, si manifesta non solo nei testi scolastici, ma anche con la presenza delle cartine geografiche della grande Palestina: quella che include non soltanto il 22 % dei territori occupati dagli israeliani nel ‘67 ma anche il 78 %, territorio sul quale esiste lo stato d’Israele dal ‘48, dove prima di questa data c’erano 422 villaggi arabi che non esistono più.
Nella mia minuscola collezione di libri vecchi per l’apprendimento della lingua ebraica c’è un libro uscito in ebraico a Varsavia (Varsha) nel 1923. Ch.A. Kaplan, l’autore del libro Sfat ami – la lingua del mio popolo, era un pedagogista sionista, proprietario di una casa editrice a Varsha. Anche se è lungo, non posso non citare parola per parola uno dei passi che si trova nel capitolo «eretz avot» (il paese degli altenati [antenati??]), titolato «Tel – Aviv»: «Tel-Aviv è un angolo culturale sulla terra abbandonata e deserta del paese – la prima città ebraica in tutto il mondo. L’uomo che passa nel “eretz Israel” (il paese d’Israele) fa il suo percorso con la carrozza da Haifa a Jaffa attraversando cittadelle arabe sporche e fangose con le loro strade strette e storte; vede le loro case senza finestre, senza porte e canne fumarie, che somigliano alle stalle dei porci, i loro cittadini cechi e malati di tracoma; le loro donne con i visi coperti di sciarpe nere, che scendono sui loro cuori come barbe lunghe – chi vede tutto questo si ferma e si stupisce di ciò che vedono i suoi occhi, quando arriva alla città di Tel-Aviv, nella vicinanza di Jaffa. Davvero esiste un diamante che brilla in questo modo vicino ai villaggi arabi? Ecco davanti a te una città a perfezione e di cultura. Ecco le strade larghe, dritte e pulite! Ecco le belle case, quasi piccoli palazzi da re con i corridoi lunghi! Ecco passeggeri e passeggere vestiti con abiti europei! Ecco i tubi dell’acqua, la luce elettrica, purezza, pulizia, ordine e regime!!».
In tutte le scuole israeliane c’è la cartina geografica d’Israele. Al posto di tutti i villaggi palestinesi rasati al suolo dagli israeliani nel ‘48 ci sono i nomi di tutti i kibuzim, i villaggi e le città israeliane, ma ci sono anche tutti i nomi degli insediamenti israeliani nel Golan, la Cisgiordania e la striscia di Gaza... Sulla questione dei confini dello stato d’Israele, conclude Yoram Bar Gal: «per motivi vari (indicati nel libro) si può capire perché certi autori di libri di geografia e storia hanno misurato diversamente il territorio dello stato d’Israele. Alcuni l’hanno misurato da 60 fino 100 mila chilometri quadrati ed altri da 20 a 26 chilometri quadrati. Tali concetti diversi sui confini, sono stati trasmessi agli studenti; dopo, da adulti, una parte di loro diventa guardia che decide la politica israeliana». Da politici a intellettuali tutti quanti sono costretti a combattere sui confini del loro stato e decidere il loro futuro.
Senza negare l’esistenza di certi testi antieducativi e manipolati nella società palestinese sotto l’occupazione, si può anche invitarli a cambiare certi libri. Purtroppo anche questo non risolverà la situazione. Da una parte il bambino studiando imparerà (giustamente) a non odiare gli israeliani, ma come saprà gestire il contrasto tra quello che studia e la realtà nella quale vive? I bambini palestinesi non devono chiudere i loro libri di studio. Ci pensa l’esercito israeliano a chiudere le loro scuole per trasformarle in una gran prigione per i loro genitori, fratelli e purtroppo qualche volta anche per loro. L’atroce macchina dell’occupazione e la politica dell’apartheid si perfeziona anno dopo anno ed è la migliore scuola per insegnare ai bambini palestinesi ad odiare gli israeliani...
Gli studenti palestinesi (anche i palestinesi israeliani) i loro docenti e le loro università erano sempre nella mira dei politici israeliani al governo. Sistematicamente, dal ‘48, Israele ha discriminato gli studenti arabi israeliani. Già dalla scuola elementare si nota questa politica del governo israeliano che spende per l’educazione di ogni bambino ebreo israeliano 10 volte di più che per un bambino palestinese. Gli studenti della scuola superiore devono studiare soltanto dai libri scelti per loro dall’équipe del ministro dell’educazione israeliana, équipe che anche per “il settore arabo” è composto di una maggioranza d’ebrei israeliani e da una minoranza di palestinesi favorevoli al governo. Anche se le due lingue ufficiali in Israele sono l’ebraico e l’arabo gli studenti palestinesi in Israele sono obbligati a fare gli esami di maturità nella lingua ebraica.
Gli studenti palestinesi alle università israeliane si trovano spesso a disagio. Già trovare un alloggio in affitto nelle grandi città è difficile per loro. I proprietari degli appartamenti sono ebrei e non amano tanto affittarli a loro. Le quote degli alloggi dell’università sono destinate prima per gli studenti ebrei israeliani o i nuovi immigrati o per gli ebrei della diaspora che arrivano per gli studi e dopo per i cittadini palestinesi israeliani. Gli studenti palestinesi non possono entrare in tutti gli archivi dell’università (scienze politiche) per motivi di sicurezza... il comitato degli studenti palestinesi israeliani non ha gli stessi diritti di quelli israeliani, nè di riunirsi, nè di manifestare, nè di avere alle loro richieste una risposta non di discriminazione da parte dell’università. Durante la guerra fredda, negli anni sessanta, i governi israeliani hanno sempre favorito le università islamiche nei territori. L’università di Bir Zeit è una lisca in gola??. Tanti studenti palestinesi “occidentalizzati”, senza shador ma con i jeans. Tanti docenti noti anche all’estero. Ma soprattutto una fabbrica di intellettuali e di gente di sinistra aperta al dialogo. Anche lì, gli studenti di chimica non potevano dal ‘67 avere i laboratori necessari, perché «possono sempre fabbricare bombe invece di fare ricerche»... Non è sorprendente che gli israeliani abbiano chiuso gli uffici del rettore dell’università di Gerusalemme est, Sari Nuseiba, un uomo simbolo del dialogo anche per i laburisti israeliani,un intellettuale più che moderato che critica Arafat e la corruzione all’interno dell’autorità palestinese, che firma la petizione degli intellettuali palestinesi che chiama al dialogo, alla democrazia e condanna il terrorismo.
Nella logica della politica israeliana entra anche un piano chiaro che cerca di eliminare tutte le voci moderate, che vogliano portare la società palestinese verso la democrazia e verso il dialogo.
Per Israele è più comodo avere un palestinese con la bomba in mano.


Nel giugno 2001 ho fatto con un gruppo d’israeliani un viaggio in cerca delle radici delle nostre famiglie. Il villaggio di miei nonni e parenti materni in Ucraina. A Rokitna (5 ore da Kiev verso la Polonia), i nazisti hanno ammazzato nel ‘44 nella piazza del mercato 350 ebrei. Bambini donne ed uomini di tutte le età sono caduti a terra, certi sono morti per soffocamento sotto i cadaveri dei loro parenti. 33 persone della mia famiglia sono nella fossa comune nel cimitero di Rokitna. La storia di Rokitna ha accompagnato la mia vita dalla nascita.e lasciando nel 1984 Israele ho portato con me il libro delle testimonianze dei sopravissuti. Mi ricordo che quando ero giovane mi trovavo spesso a guardare le foto di tutti i bambini che c’erano nella piazza del mercato, le foto dei tre bambini dello zio della mia mamma. Anche di sua moglie. Lui si è salvato e risposato e nel gruppo c’erano con me le sue figlie, le due cugine della mia mamma, Shamira (nome composto dalle iniziali dei nomi dei figli morti di mio zio) e Shuni (il nome della sorella dello zio). È stato un viaggio pieno di emozioni. Il gruppo era guidato da Asher Binder, 82 anni, un partigiano ebreo, sopravissuto, che ha visto l’uccisione della sua mamma e che ha una memoria eccezionale. Non ho mai fatto un viaggio di gruppo. Sapevo che tra le emozioni collettive e il senso della gran famiglia, avrei dovuto sopportare quello che ho sempre evitato: certi aspetti spiacevoli che appartengono alla gran maggioranza degli israeliani. Mio figlio, Noam, che mi ha accompagnato in questo viaggio ha notato, malgrado la sua giovane età di 11 anni, che queste due componenti sono molto costanti e tanto presenti. Durante una passeggiata nel villaggio un gruppetto ha parlato della politica d’Israele.
Parlavano dei palestinesi e degli israeliani. «Sapete qual è il problema d’Israele?» chiedeva uno di loro. «Il nostro problema principale sono i giornalisti e le televisioni. Non dobbiamo lasciare che succeda di nuovo un documentario che mostra in tutto il mondo quello che accade nei territori». «Si – rispondevano gli altri – il documentario che mostra in tempo reale il bambino palestinese e suo padre ammazzati dal nostro esercito è contro di noi». «Meno male che dopo c’era il documentario del linciaggio dei soldati israeliani da parte dei palestinesi» concludeva uno di loro.
Io e mio figlio eravamo dietro di loro. Io mi sono promessa, prima del viaggio, di non creare, per rispetto alle nostre famiglie, nessun conflitto. Per dieci giorni non ho espresso mai le mie opinioni politiche. Mi ha salvato la lingua italiana. «Mamma mia, come sono!» mi diceva mio figlio disgustato dal loro modo di ragionare. Una delle donne del gruppo è stata a giugno 2002 qui a Firenze per un convegno internazionale. «Dimmi – mi ha chiesto stupita al telefono – perché ci odiano cosi tanto?». «Anche io non vi amo» le ho risposto. «Cara mia – diceva lei arrabbiata – è troppo facile vivere a Firenze ed essere contro di noi. Spegni la CNN!»[1]


So già cosa possano dire la maggioranza degli ebrei, israeliani e non, della mia riflessione. È da quando avevo 18 anni che sento i soliti argomenti. Prima, negli anni settanta, eravamo per loro troppo giovani per capire… Dopo eravamo, e siamo tuttora, traditori. Poi, se non viviamo più in Israele, non abbiamo il diritto di criticare il governo israeliano. Abbiamo solo il diritto di manifestare a favore di Sharon. Certi israeliani ci dicono che, visto che non abbiamo i bambini lì, non possiamo capire la necessità di quest'operazione....
Io non ho mai avuto in Israele amici che non condividano con me le opinione politiche. Tutti i miei amici sono pienamente e da sempre contro l’occupazione. Tutti sono impegnati in un modo o nell’altro nella lotta per la fine dell’occupazione. Abbiamo tutti amici palestinesi con i quali condividiamo anche questa sofferenza comune. Tutti i miei amici in Israele hanno figli e vivono la paura, la preoccupazione e lo stress tutti i giorni.
La maggioranza degli israeliani e degli ebrei non ha nessun amico palestinese. Tanti israeliani non hanno mai parlato con uno di loro e non li conoscono personalmente.
Questa fa la grande differenza e questo è anche il motivo per cui bisogna dare una mano alla coalizione israeliana per la fine dell’occupazione, che unisce ebrei e palestinesi israeliani in piena uguaglianza tra loro.
Il desiderio di porre fine all’occupazione è lo stesso desiderio di poter vivere in pace.
 Ci uniscono i desideri ma purtroppo anche la grande disperazione.
Morale. Non bisogna dimenticare le radici del male. Dagli americani non c’e nulla da aspettarsi, ma l’Europa dov’è? Non sono forse i palestinesi le vittime delle vittime dell’Europa? Che responsabilità hanno i palestinesi di pogrom, nazismo e fascismo.
Tutti i governi europei che condividono la guerra di Bush contro il terrorismo, guerra tra “buoni e cattivi”, hanno la piena responsabilità sul presente e futuro di questi due popoli.
Tutti i giorni arrivano decine di lettere alla mia posta elettronica. Palestinesi ed israeliani quasi in modo ossessivo raccolgono e documentano quello che succede. Migliaia di testimonianze e di proteste. Centinaia di petizioni, articoli, ricerche e riflessioni. Sembra un museo virtuale interattivo, che cerca di documentare il presente in tempo reale.
Real time per chi non sa più se ha futuro.
* Ronit Dovrat, pedagogista e artista israeliana. Nota attivista che vive in Italia e autrice di numerosi articoli.
[1] Molti israelini ritengono che la CNN – così come la televisione e la stampa europea – sia antisraeliana, antisemita e addirittura filo palestinese. [n.d.c.]

Ronit Dovrat, una donna israeliana contro la guerra a Gaza


PS ringrazio G. F . per  l'articolo

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