Richard Falk :I suicidi dei militari statunitensi e gli scioperi della fame dei Palestinesi


Di Richard Falk
13 giugno 2012
 C’è una certa consapevolezza,  negli Stati Uniti, che i suicidi tra le truppe militari forze armate americane sia arrivato al livello più alto dagli anni della Guerra del Vietnam.
Non c’è da meravigliarsi. Il senso di colpa e di alienazione associato con la partecipazione alla guerra in Afghanistan, specialmente le assegnazioni molteplici in una zona di guerra piena di minacce per una missione di combattimento  che è sempre più difficile da giustificare e quasi impossibile da compiere con successo, sembra sufficiente a spiegare questo fenomeno inquietante. Queste tragiche perdite di vite umane, che oramai superano quelle sul campo di battaglia, circa uno al giorno dall’inizio del 2012, non vengono tenute nascoste al pubblico americano ma neanche provocano un adeguato senso appropriato di preoccupazione, o meglio, di rabbia. Questo è del tutto in contrasto con quanto accadeva durante gli anni del Vietnam, specialmente verso la fine della guerra, quando molte famiglie con bambini  che erano a rischio in una guerra che aveva perso la strada e che si stava perdendo,sono  scese in piazza, hanno fatto pressioni sui loro rappresentanti dal Congresso, hanno parlato alle dimostrazioni contro la guerra, e hanno appoggiato la i loro figli che erano riluttanti a parteciparve. Ora c’è un silenzio di tomba nella società americana, che sembra essere una conferma che ora siamo ‘cittadini’ di o ‘patrioti’ in una democrazia autoritaria, o, in modo più raffinato, ‘soggetti’ di una democrazia costituzionale. Siamo meno che mai  consci  dell’imperativo di Jefferson: la salute di questa democrazia dipende dalla coscienza e dalla vigilanza dei suoi cittadini.
Anthony Swafford, un ex marine, cercando di comprendere che cosa Newsweek (in una notizia di copertina, 25 maggio 2012), riconosce che è   “un’epidemia” di suicidi tra i veterani di guerra, prende nota della resistenza all’auto-esame  da parte dei settori governativi più coinvolti. Secondo le sue parole” il Dipartimento degli Affari dei Veterani e i militari evitano di incolpare direttamente i costi psicologici e sociali delle uccisioni fatte durante i combattimenti. “ Si dà, apparentemente una certa attenzione a migliorare l’operazione diselezione, in modo che i potenziali suicidi non vengano arruolati, ma non c’è alcuna sensibilità  verso l’esperienza profondamente alienante  di essere assegnati a una missione per uccidere in un ambiente umano  così completamente sconosciuto, come è il caso dell’Afghanistan e dell’Iraq che sono naturalmente ostili a un’occupazione condotta da un  paese straniero con orientamenti culturali del tutto diversi. Se avete visto immagini di fanti americani pesantemente armati, in perlustrazione in un villaggio afgano, sembra impossibile sfuggire a sentimenti di disadattamento surreale. E tuttavia, non  c’è un senso nazionale di  responsabilità connesso con l’invio di giovani americani in situazioni dove il danno fatto a loro stessi non soltanto mette le loro vite e il loro benessere  a repentaglio     come risultato di essere esposti ad armi nemiche, ma li sottopone anche a ferite traumatiche spesso invisibili causate dall’assegnazione di mansioni belliche e che  raramente guariscono del tutto, anche  molti anni dopo che si è lasciata la zona di guerra.
Queste ferite sono molto più estese di quanto faccia pensare anche l’alta incidenza di suicidi, spesso espresse, in modi meno drammatici e mortali. E’un’espressione monumentale di insensibilità rispetto al benessere della nostra gioventù, il fatto che noi li abbiamo messi in pericolo per intraprendere uno sforzo bellico che da tanto tempo è stato svuotato di significato e che i nostri capi politici  non sanno come  spiegare. Il vero patriottismo di questo secolo dovrebbe suscitare un clamore rabbioso e un dibattito pubblico prima di  accettare questa indifferenza crudele per il destino dei nostri giovani combattenti, che sono sproporzionatamente poveri e che spesso appartengono a una minoranza emarginata. Questa insensibilità, è, naturalmente, molto meno penetrante di quella che si palesa  quando le vittime sono ‘altri’. Questo è dimostrato dall’incapacità nazionale di fare domande sul terrore di stato collegato agli attacchi con i droni contro comunità di villaggi in paesi stranieri che indubbiamente diffondono profondo timore e sentimenti di vulnerabilità in tutta la popolazione, e non soltanto tra coloro che potrebbero immaginare di essere stati scelti da un presidente americano come obiettivi da uccidere.
Vale la penna di fare dei commenti sul rapporto che esiste tra questi suicidi e la recente ondata di scioperi della fame intrapresi da detenuti palestinesi che si oppongono ai metodi israeliani di detenzione senza accuse e senza processo, all’arresto deprecabili e alle condizioni di prigionia. Coloro che fanno lo sciopero della fame, suscitano attualmente vasta comprensione  tra i loro connazionali  e un crescente impegno a protestare contro la loro  reclusione  e a lodare il loro coraggio,      comprendendo le loro azioni come espressioni essenziali della resistenza palestinese non violenta all’occupazione, all’ annessione e alle condizioni di apartheid. Al contrario dei suicidi tra i veterani, che sono atti solitari di disperazione causati dalle condizioni di vita diventate insopportabili, i Palestinesi che fanno lo sciopero della fame si impegnano volontariamente e consciamente in un rifiuto punitivo auto-decretato,  di accettare cibo come unico mezzo disponibile per richiamare l’attenzione sulle loro serie rimostranze. Le loro azioni esprimono un intenso desiderio di vita, non di morte, ma vogliono dichiarare al mondo che quando le condizioni diventano così terribili, è preferibile morire piuttosto che essere ulteriormente umiliati da maltrattamenti intollerabili.
Il primo detenuto che ha iniziato ha fatto lo sciopero della fame, Khader Adnan, da quando è stato rilasciato in aprile, ci ha detto il motivo per cui si è impegnato in questo atto di  estrema violenza nei riguardi del suo corpo, malgrado il  profondo attaccamento alla sua famiglia e alla vita del villaggio:”I motivi che mi hanno portato a fare lo sciopero della fame sono stati i frequenti arresti e il trattamento che ricevevo quando dopo l’arresto;  il terzo motivo sono i metodi barbari usati durante gli interrogatori in prigione: erano umilianti. Mi mettevano sui baffi la polvere delle loro scarpe, mi strappavano i peli della barba, mi legavano le mani dietro la schiena e alla sedia che era fissata al pavimento. Mettevano per terra la mia fotografia e ci camminavano sopra. Imprecavano contro mia moglie, e mia figlia che aveva meno di 16 mesi, usando  le parole più offensive possibili.” Gli scioperi della fame hanno finalmente portato alla luce questi  forme di umiliazione da molto tempo imposte ai detenuti palestinesi. Quello che ha fatto Adnan è stato motivante per molti altri prigionieri palestinesi e al  momento restano almeno tre Palestinesi che rischiano di morire per rispettare il loro appello alla la vita e alla dignità;  tra questi c’è un importante componente della squadra nazionale di calcio palestinese che è stato detenuto come ‘combattente illegale’ dal luglio 2009: si chiama Mahmoud Sarsak, che da 90 giorni non tocca cibo (gli altri due sono Akram al-Rakhaw, che digiuna da 70 giorni e e Sunar al-Berq).
Questo triste doppio insieme di circostanze implica delle ingiustizie fondamentali collegate alla violenza degli stati. I suicidi americani sono essenzialmente sacrifici di vite sull’altare di Marte,  dio della guerra, mentre gli scioperi della fame in Palestina sono la lotta per sopravvivere di fronte a un terrore di stato imposto nel buio a coloro che mostrano segni di opposizione a un’occupazione che è andata avanti per 45 anni e che è diventata sempre più oppressiva con il passare del tempo. Come ha detto Adnan, a proposito dell’esperienza del suo arresto nel cuore della notte e del suo rilascio: ”stanno cercando di ferire la nostra dignità…. E mi hanno rilasciato nel buio, nel cuore della notte…operano soltanto nell’oscurità.”
Malgrado questo buio, dovremmo essere in grado di vedere che cosa succede, e rispondere con qualsiasi mezzo a nostra disposizione. In America ci si tiene per lo più all’oscuro riguardo alle sofferenze dei palestinesi, e in quanto alle nostre vittime di guerra, siamo informati, ma non illuminati e quindi siamo   incapaci di muoverci  e supponiamo che questi suicidi tra i militari siano un mistero insondabile  invece che realizzare che sono inevitabili effetti secondari di guerre condotte in strane terre straniere senza alcun credibile scopo difensivo.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale : Richardfalk.com
Traduzione di Maria Chiara Starace

Commenti

Post popolari in questo blog

Alberi,piante e fiori della Palestina: i gelsi

Né Ashkenaziti né Sefarditi: gli Ebrei italiani sono un mistero - JoiMag

Hilo Glazer : Nelle Prealpi italiane, gli israeliani stanno creando una comunità di espatriati. Iniziative simili non sono così rare

Passaggi: Le parole di Jabra Ibrahim Jabra per la giornata della Nakba