Coloni israeliani: cosa dice Dani Dayan e perchè è interessante



di Richard Falk   – 28 luglio 2012
L’articolo di Dani Dayan “I coloni israeliani sono destinati a rimanere”  è stato pubblicato sul New York Times il 26 luglio 2012.  Dayan è presidente del Consiglio Yesha [organizzazione dei comuni ebrei nei territori occupati – n.d.t.] delle Comunità Ebraiche ed è noto da molto tempo come principale portavoce del movimento dei coloni. Un’ovvia reazione a tale sparata di un colono consisterebbe nell’ignorarla, senza neanche starci a pensare, come quell’espressione estremista dell’ottica israeliana che certamente è, ma sembrerebbe un errore farlo prima di aver preso in considerazione parte del suo contenuto e della sua tempistica. Le premesse legali e morali che supportano l’insistenza di Dayan sul fatto che i coloni non lasceranno mai la West Bank sono prive di consistenza, ma gli argomenti politici che egli avanza sono così forti da essere virtualmente inoppugnabili. Può anche essere utili ipotizzare che Dayan sia stato incoraggiato dallo schieramento di Netanyahu, noto per essere amico dei sogni dei coloni quanto ogni altro governo israeliano da sempre, a sganciare questa bomba nel mezzo del vortice elettorale statunitense come una specie di ballon d’essai.
La prima premessa di Dayan asserisce che il movimento dei coloni ha titolo al territorio ottenuto nel 1967 perché sono stati i palestinesi che per primi, all’epoca, hanno minacciato Israele con la prospettiva di cancellazione ed è stato Israele che ha agito per legittima difesa quando è entrato in possesso della West Bank e dell’intera Gerusalemme.  Questa è una posizione che non trova seguito quasi in nessuno specialista di legge internazionale, che è sempre più contestata dagli storici della diplomazie come sequenza effettiva degli eventi nel 1967 e rifiutata politicamente poco dopo il fatto dall’intera comunità internazionale, Stati Uniti compresi. Tale rifiuto è stato espresso nell’autorevole e unanime Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvata nel 1967 che chiedeva il ritiro di Israele dai territori che aveva occupato nella Guerra dei Sei Giorni. Nessun leader israeliano, compreso persino il rigettatore Netanyahu, ha contestato apertamente questa linea d’interpretazione, anche se il movimento dei coloni, dalle origini, ha tratto vigore dall’ambivalenza israeliana circa il fatto che un accordo di pace fosse realmente nell’interesse di Israele se significava la sostanziale restituzione dei territori occupati nel 1967.  Il compromesso israeliano di fatto è consistito nell’avallare l’accordo generale sulla soluzione a due stati per fasi incrementali contemporaneamente impegnandosi, però, in una serie di azioni concertate che ne rendevano sempre meno plausibile la realizzazione dal punto di vista della politica pratica.
E’ sorprendente che la maggior parte dei governi del mondo e i più alti dirigenti dell’ONU abbiano scelto sino a oggi di ignorare tale non plausibilità. Quello che Dayan sta, in effetti, dicendo al mondo è che la realtà della situazione rende ipocrita e inutile continuare a far finta che una pace negoziata tra le parti sia, o sia mai stata, un’opzione politica. A suo parere ci sono ora troppi coloni che non hanno alcuna intenzione di andarsene mai e la maggior parte di essi è disinteressata a incentivi economici, avendo rinunciato in passato a opportunità lucrose di vendere la loro proprietà colonizzata.  Dayan evidenzia efficacemente come sia stato quasi impossibile per il governo Sharon, favorevole ai coloni, ottenere che 8.000 di essi lasciassero Gaza nel 2005, rendendo l’idea che i 350.000 coloni che ora vivono nella West Bank (che ci si aspetta aumentino a 400.000 nel 2014), 160.000 dei quali sono all’esterno dei blocchi d’insediamento, una chimera mal consigliata o, nelle parole di Dayan, “esponenzialmente più difficile” e, dunque, la loro presenza “in tutta la Giudea e la Samaria … è un fatto irreversibile.” Si può ragionevolmente dubitare della forza del ragionamento di Dayan su questo tema centrale?
Dayan sviluppa la sua tesi invocando una combinazione di “diritti inalienabili” e una “realpolitik” favorevole alle pretese dei coloni. Trovo Dayan convincente dal punto di vista della realpolitik, considerata la realtà dell’attuale rapporto di forze in Israele/Palestina, nella regione e nel mondo, anch’esso potesse dimostrarsi di breve durata.  Per contro Dayan è del tutto egocentrico e unilaterale quando pretende che diritti inalienabili sostengano la sua concezione del Grande Israele. Una tale pretesa trascura la rilevanza della lettura generalmente accettata dell’articolo 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra che vieta a una potenza occupante di trasferire la propria popolazione in un territorio occupato o di alterare il carattere della società occupata. Dayan, nelle sue idee, sembra anche cieco all’immoralità di trasferire il popolo palestinese che vive su queste terre da secoli anche se si accetta la pretesa sottesa al sionismo di una patria nella Palestina storica.  Il fatto che i dirigenti palestinesi e i governi arabi vicini abbiano rifiutato il piano di spartizione avallato dall’ONU nel 1948 non significa che il popolo palestinese implicitamente abbia rinunciato al diritto all’autodeterminazione, o lo abbia perso, poiché il diritto è realmente inalienabile. E certamente non significa che i palestinesi possano essere condannati a vivere indefinitamente in condizioni di apartheid come una minoranza (che potrebbe presto diventare maggioranza) sottomessa e priva di diritti, ricordando che l’apartheid è elencato tra gli esempi di crimini contro l’umanità nello statuto della Corte Penale Internazionale. Ci sono, di certo, diritti inalienabili, ma appartengono ai palestinesi e certamente non ai coloni.
Dayan si riferisce sempre alla West Bank come alla “Giudea e Samaria”, i nomi biblici nella tradizione ebraica, apparentemente come modo per segnalare la sua sfida all’opinione pubblica mondiale sullo status dei territori. Di nuovo, possiamo almeno apprezzare questa spudorata espressione di onestà, che non si nasconde dietro scuse e ambiguità come tendono a fare da anni i diplomatici quando si tratta di riconoscere il significato della continua espansione degli insediamenti, della creazione di una costosa rete stradale per i coloni e della costruzione del muro di separazione mentre si continua ad affermare la disponibilità a negoziare la creazione di uno stato palestinese indipendente. Dayan non usa mezzi termini, insistendo che uno stato palestinese tra la Giordania e Israele sarebbe sempre stato un disastro insostenibile per la sicurezza di Israele. Un simile stato palestinese cadrebbe rapidamente sotto il controllo di Hamas nel diventare un luogo di rifugio per le centinaia di migliaia di palestinesi inaspriti che vivono in campi profughi da quasi 65 anni. Secondo Dayan un simile stato palestinese sarebbe un crogiolo di estremismo anti-israeliano che provocherebbe inevitabilmente la rioccupazione da parte di Israele. Ciò ha del senso, una volta di più, dal punto di vista della realpolitik israeliana, ma le sue implicazioni per i palestinesi sono così manifestamente inaccettabili da rendere la sua una dichiarazione di guerra permanente e totale contro le speranze, le aspirazioni e i diritti dei palestinesi. Forse per questa ragione una tale logica, così come sposata da Dayan, viene raramente espressa fuori da Israele.
Per esser giusti, Dayan non trascura interamente considerazioni che portino al benessere dei palestinesi. A suo credito, egli non tratta, e tanto meno appoggia, la pulizia etnica per garantire l’identità ebraica in una politica democratica. Dayan accontentarsi di subire una popolazione a maggioranza palestinese fintanto che sono gli israeliani ad avere il controllo, cioè il dominio israeliano pare sufficiente per la sicurezza e questo mette in secondo piano la ricerca della legittimazione democratica. Senza sollevare la questione dei diritti dei palestinesi, Dayan afferma che l’Autorità Palestinese non è insoddisfatta dello status quo e che lo sviluppo economico palestinese sta procedendo in aree sotto il loro controllo, specialmente a Ramallah e dintorni. Inoltre, se soltanto i palestinesi rinunciassero alla loro futile resistenza, Dayan afferma che la maggior parte dei posti di controllo sarebbe eliminata. La sua ‘soluzione’ al problema dei profughi consiste nel migliorare la situazione dei campi, che egli riconosce essere miserabile. Pensare che questo sia moralmente, legalmente o politicamente adeguato significa capire quanto distante si spinga Dayan dalle idee accettate di giustizia mentre cerca di convincere i lettori che non soltanto l’occupazione è finita ma che ogni cosa può essere resa soddisfacente persino per i palestinesi.
Perché quest’assalto alla dignità umana non va semplicemente rifiutato e accantonato come conferma semplicemente di quanto sia divenuto estremista e sfrontato il movimento dei coloni? Ci sono diversi motivi per una reazione più ponderata. Cosa più importante, l’analisi di Dayan demolisce l’esistente indiscusso quadro diplomatico che ha imprigionato i sogni dei palestinesi in un incubo interminabile di oppressione e futilità.  Facendo questo, egli apre la via a un dialogo necessario su qual genere di soluzione possa essere plausibilmente proposto in luogo del consenso generale sui due stati.  Meno significativamente egli presta credibilità alle tesi dei critici, come me, del processo di pace in quanto impone un inganno crudele ai palestinesi e all’opinione pubblica, mentre la bomba a orologeria degli insediamenti continua a ticchettare senza essere disinnescata.
Inoltre, forse, deliberatamente o no, il New York Times evidenziando le idee di Dayan così offensivamente in contrasto con la sua costante posizione editoriale negli anni, ha deciso tardivamente di riconoscere che esiste un nuovo insieme di realtà riguardo al conflitto israelo-palestinese. Forse quest’augusto giornale che non si allontana mai troppo dalla linea del Pentagono/Dipartimento di Stato sulla politica estera del Medio Oriente ha ricevuto un segnale da Washington che era ora di avviare un nuovo dibattito su come rappresentare il conflitto o addirittura di iniziare il difficile compito di ideare la forma e gli auspici di un nuovo processo di pace. Naturalmente gettare una simile bomba fumogena nel mezzo di una campagna elettorale presidenziale già disorientante sembra così strano che ci si chiede se i custodi dell’opinione, al New York Times, solitamente così vigili, possano essere stati colti nel sonno in quest’occasione, consentendo al dissenso radicale di Dayan di superare inosservato il convenzionale buon senso liberale del giornale.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Originale: Richardfalk.com

traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2012 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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