"Israele ha 'inventato' la Nakba. E non ha mai smesso di attuarla"




Il termine fu usato per la prima volta nel luglio del 1948 dall’intelligence militare israeliana per dissuadere gli abitanti di al-Tira ad abbandonare il villaggio. Quest’estate, dopo sessantaquattro anni, la pulizia etnica della Palestina continua mentre la nostra attenzione è focalizzata su Siria, Egitto e Iran e la crisi finanziaria. Una realtà terribile aiutata anche dalla paralisi della politica palestinese e l’apatia della comunità internazionale.
 
 di Ilan Pappé* – traduzione a cura di Stefano Nanni

Nella fase di stasi di luglio tra le due tregue della guerra del 1948 che coinvolsero Israele e le truppe provenienti dagli stati arabi limitrofi intervenute per provare a salvare la Palestina, un’altra fase dell’operazione di pulizia etnica del territorio fu completata.
Mentre nell’aprile del 1948 lo spazio urbano della Palestina era stato quasi completamente distrutto dalle forze sioniste, piccole parti della zona rurale e due cittadine, al-Lid, Ramleh, e una città, Nazareth, erano ancora salve. 
Ma non per molto.
Durante quei dieci giorni di stasi (noti nella storiografia israeliana come “la guerra dei dieci giorni”) fu estirpata ulteriore terra palestinese ed altrettante persone furono espulse. Il neonato stato ebraico promise al mediatore dell’ONU di allora di cessare i combattimenti e spiegò che le operazioni di luglio erano soltanto “dei soffocamenti di piccoli focolai di resistenza”.
Le Nazioni Unite non bevvero questa bugia, ma erano già allora un’organizzazione impotente e sfortunata.
Solo la città di Nazareth era stata risparmiata e non è chiaro ancora oggi perché. Il primo ministro israeliano e storico leader sionista David Ben Gurion, il quale era assolutamente intenzionato a spopolarla non solo dei suoi abitanti originari ma anche delle decine di migliaia di profughi che vi trovarono rifugio a partire dal maggio del ’48, negli ultimi minuti fu convinto da qualcuno a lasciare la città intatta.
Ma altrove la magnitudine della crudeltà dello spopolamento iniziò a palesarsi chiaramente – prima che passassero altri due mesi esso fu completato con l’evacuazione totale della Galilea e del Negev – rispettivamente nel nord e nel sud della Palestina.

ISRAELE ANNUNCIÒ LA “CATASTROFE”
Molto prima che gli stessi palestinesi capissero che la vera essenza del piano generale israeliano era di espellerli, con l’obiettivo più ampio della pulizia etnica del territorio, gli esecutori trovarono un adeguato termine per descrivere ciò che stava avvenendo: Nakba (catastrofe).
Il termine fu menzionato per la prima volta non da fonti arabe o palestinesi, bensì dall’intelligence militare israeliana. Apparve nei volantini che le forze aeree israeliane distribuirono durante quei dieci giorni di luglio la sera prima di un attacco molto singolare ad un villaggio.
I volantini chiedevano in sostanza un “pacifico sfratto” del villaggio e delle sue aree circostanti. In caso contrario, mettevano in guardia i volantini, il villaggio sarebbe stato severamente punito. Non siamo in possesso di tutti questi “fogli informativi” ma il seguente è stato ritrovato nel grande e bellissimo villaggio di al-Tira, vicino Haifa, intorno alla metà del luglio 1948:
“La lama vi taglierà le gole senza pietà né risarcimento. Se insistete e continuate ancora con il vostro errare (ndr, resistenza)… dovete sapere che i nostri aerei, carri armati e artiglieria ridurranno il vostro villaggio in polvere, bombarderanno le vostre case, vi spaccheranno la schiena, vi estirperanno dalla vostra terra… ed il vostro villaggio diventerà un deserto. Oh, gente di al-Tira, se desiderate evitare una Nakba [sic]… arrendetevi! Il vittorioso esercito israeliano ha già demolito il focolaio criminale di Jaffa, Acre, Tiberia, Safad. Ha occupato decine di villaggi a sud e a nord e questo trionfante esercito vi distruggerà in poche ore!”
Distruzione ed espulsione significavano una nakba agli occhi dell’embrionale intelligence israeliana, impegnata nel preparare la campagna di propaganda ed intimidazione contro la nativa popolazione palestinese.
Nel corso degli anni, fino ad oggi, la Nakba è stata portata avanti con altri mezzi, e questo lo sappiamo.

ESPROPRIO
Ma quest’estate quando la nostra attenzione è focalizzata su Siria, Egitto e Iran e la crisi finanziaria stiamo creando da questa distrazione una pausa dalla mai conclusa pulizia etnica della Palestina. Una situazione terribile aiutata anche dalla paralisi della politica palestinese e l’apatia della comunità internazionale. 
Il target della nuova pulizia etnica è rappresentato, tra gli altri, dai Beduini del Negev.
Il prossimo mese le autorità israeliane sono intenzionate a mettere in pratica il piano Prawler (da Ehud Prawler, il nome del vice direttore del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano e capo del team di esperti che l’hanno preparato) per l’espropriazione di questa minoranza presente nel deserto a sud della Palestina.  
Prima di essere finalizzato ed autorizzato dal governo nello scorso settembre la strategia israeliana per dislocare i 70.000 beduini palestinesi dal sud del paese è stata attuata attraverso lo strangolamento: negare l’elettricità, l’acqua, l’educazione e l’accesso a qualsiasi servizio basilare.
Una politica che in se stessa, se commessa in qualsiasi altra parte del mondo, sarebbe stata condannata come un crimine contro l’umanità. 
Ma in ogni caso è fallita, perché non ha dissuaso né indebolito lo spirito e la costanza dei Beduini.
Quindi il piano Prawler prevede un approccio molto più attivo: mira a distruggere fisicamente e con la forza 35 villaggi nei quali vivono queste 70.000 persone. I primi passi in questa direzione sono stati già fatti tra lo scorso settembre e oggi: già 1000 case sono state demolite.
Le prossime tappe saranno molto più ampie e letali dato che una forza di polizia speciale è stata dispiegata per la loro esecuzione.
Tuttavia, questo piano non è che una piccola parte di un piano più grande piano concepito nel 2001 dall’allora primo ministro Ariel Sharon e perfezionata da un suo successore, Ehud Olmert, nel 2007.
Uno schema unilaterale – e se possibile con almeno il tacito consenso dell’Autorità Palestinese – per la demarcazione finale del XXI secolo dello Stato di Israele.
Le componenti di questa strategia sono una Striscia di Gaza ghettizzata, l’annessione dell’area C della Cisgiordania (una zona definita creata dagli Accordi di Oslo comprendente il 60% della Cisgiordania) e la creazione di un Bantustan palestinese nella parte restante. 
Comprende anche la ghettizzazione dei palestinesi nel deserto del Negev; lo strangolamento dei palestinesi in Galilea attraverso un’intensificazione della costruzione di colonie ebraiche; e l’iniezione di popolazione israeliana nei quartieri arabi di Gerusalemme, Jaffa, Haifa, Acre, Ramleh e al-Lid (accompagnata dalla costruzione di una nuova e complessa rete di strade a autostrade all’interno di queste aree). 
La Nakba del 2012 – a differenza della Nakba del 1948 – viene perpetrata attraverso pianificazioni municipali, regolamenti amministrativi e forze speciali di polizia. E’ graduale e burocratica e quindi fuori dai radar di un mondo che comunque non sembra preoccuparsene tanto.
Ma per varie ragioni questa politica più subdola e criminale non può essere attuata completamente nel Negev.
Questo particolare momento rappresenta una possibilità per esporla al mondo e per portare a casa il messaggio che coloro che hanno inventato il termine Nakba sono ancora determinati ad attuarlo pienamente.

*Ilan Pappé, israeliano, autore di importanti opere storiografiche sul conflitto israelo-palestinese, è professore di Storia e direttore dell'European Centre for Palestine Studies all'University of Exter. Questoarticolo è stato pubblicato da Electronic Intifada, dove Pappé scrive regolarmente. 
 

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