L'incerto destino dei palestinesi in Siria




L’incerto destino dei palestinesi in Siria. 
di Anaheed Al-Hardan 
Dato che la rivolta in Siria ha acquisito il carattere di insurrezione armata – e dato che il regime ha modificato l’iniziale risposta alla rivolta dal piano della sicurezza a uno totalmente di tipo militare – lo spettro del caos e della devastazione che ha travolto l’Iraq dopo l’invasione statunitense del 2003 oggi perseguita il paese.
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Palestinesi che cercano di attraversare il recinto di filo spinato che separa la Siria dalle Alture del Golan occupate da Israele
(5 giugno 2011) 

Una delle minacce che incombono sulla Siria è quella di una guerra civile imminente – a meno che non sia già iniziata – che per il suo popolo e quello dell’intera regione starebbe a significare una catastrofe. In questi tempi di incertezze, ciò che appare certo è che il popolo siriano e le sue esigenze di un futuro migliore continuano a essere i veri sconfitti in relazione alle loro aspirazioni di contro ai contrastanti interessi geopolitici regionali e internazionali. 
In questo contesto in evoluzione, la Siria è pure sede di mezzo milione di palestinesi che fruiscono di diritti incomparabili con quelli di cui godono i profughi palestinesi negli altri paesi arabi. Lo stato siriano si è fatto garante di queste tutele sette anni prima che il partito di governo Baath prendesse il potere. Il fatto che i palestinesi in Siria fruiscano di tali diritti, associato allo spazio occupato dalla Palestina nell’ideologia e nella retorica nazionalista araba di regime, hanno contribuito a tenere alte le credenziali nazionaliste arabe del regime. 
Queste credenziali non includono solo l’esaltazione della causa palestinese e il supporto materiale ad Hamas e Hezbollah, ma anche l’accoglienza dei palestinesi nel paese alla stregua di ”fratelli arabi fino al ritorno”. 
Quest’ultimo fatto potrebbe giocare il ruolo pericoloso di un forte contraccolpo negativo nei confronti della comunità qualora il paese precipitasse nel baratro della guerra civile. Nel peggiore dei casi, per alcuni aspetti, il destino dei palestinesi in Siria potrebbe essere analogo a quello dei circa 30.000 profughi palestinesi provenienti dall’Iraq dopo l’occupazione americana del paese, includendo la perdita dello status di profughi permanenti e l’essere soggetti a una persecuzione generalizzata. 
Nel contempo, queste credenziali non sono senza contraddizioni che derivano da ciò che l’intellettuale e scrittore dissidente siriano Michel Kilo ha evidenziato come la discordanza tra gli interessi e le politiche nazionali interne ed esterne del regime. Le incongruenze derivanti da questo contrasto, tuttavia, sono risultate latenti e meno spiccate per i profughi giovani. Essi non solo costituiscono la maggioranza della popolazione palestinese, ma non hanno neppure avuto esperienza diretta della dimostrazione di tali contraddizioni, come nel caso degli scontri tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e il regime siriano in Libano. 
Ironia della sorte, può essere proprio questa storia di incongruenze, in quanto accentuata da ultimo proprio a causa della crisi, insieme alla relativa forza numerica della comunità, che potrebbe vedere i palestinesi capaci di superare il momento peggiore della bufera della transizione violenta in Siria. 
Marce per il diritto al ritorno hanno puntato i riflettori sui profughi palestinesi. 
In Siria, i palestinesi sono stati sospinti alla ribalta quando, nel maggio 2011, in occasione del 63° anniversario della Nakba – la distruzione sistematica della società palestinese e la loro espulsione durante la creazione dello stato di Israele – giovani profughi hanno preso parte a una marcia diretta verso la Palestina storica. 
Questa marcia, denominata la ‘Rivoluzione dei profughi’, è stata un’iniziativa dei giovani palestinesi ispirata dal fervore rivoluzionario che soffiava dalla Tunisia all’Egitto, e oltre ancora, dopo l’estromissione di Zine al-Abidine Ben Ali dal potere in Tunisia. Quel giorno si sono visti gli straordinari tentativi, da parte palestinese, coordinati a livello regionale, di marciare verso le case delle loro famiglie e le loro terre sotto il controllo dello stato di Israele. A differenza dei giovani profughi di altri luoghi, quelli palestinesi e siriani hanno attraversato la linea di demarcazione sulle Alture del Golan e sono entrati nella cittadina siriana di Majdal Shams occupata da Israele. Un giovane palestinese, nato in Siria, Hassan Hijazi, si è spinto da Majdal Shams fino a Jaffa, alla casa della sua famiglia, e in tono di sfida ha reso pubblico il gesto del suo ritorno simbolico sulla televisione israeliana. 
L’esercito israeliano si è affrettato a incolpare l’Iran, Hamas ed Hezbollah, mentre gli americani sono stati pronti nel denunciare la Siria di “incitamento”. Entrambi non hanno considerato, opportunisticamente, il fatto che, anche se la marcia non avrebbe potuto svolgersi senza l’autorizzazione dello stato, essa è stata organizzata da giovani profughi, alcuni dei quali hanno pagato questa loro iniziativa a prezzo della loro vita. 
Tre settimane dopo, quando è stato fatto un tentativo di ripetere l’evento in occasione del 44° anniversario della Naksa – l’occupazione israeliana del 1967 del resto della Palestina allora sotto la sovranità giordana, delle Alture del Golan e della penisola egiziana del Sinai – l’esercito israeliano ha superato sé stesso uccidendo manifestanti ancor più disarmati di quelli della volta precedente; dai rapporti risulta che in alcuni casi ci siano stati almeno 23 morti. 
In un’intervista ad Al Jezeera in inglese, il portavoce del governo israeliano e capo della propaganda, Mark Regev, ha giustificato le uccisioni con motivi di sicurezza. Ha accusato i profughi di costituire una “bolgia” di “cittadini nemici” e di aver armato e quindi investito i soldati israeliani della “difesa” dei territori siriani illegalmente occupati contro queste incursioni “violente” (“La violenza contrassegna la ‘Naksa’ sulle Alture del Golan”) 
A seguito dei cortei funebri per coloro che hanno perso la vita durante la marcia del Giorno della Naksa, sono affiorati una serie di racconti contrastanti relativi alla sparatoria e all’uccisione di “partecipanti al funerale arrabbiati” o “fanatici” per mano di guardie della sede centrale del gruppo secessionista PFLP – Comando Unificato (PFLP – GC), distaccatosi dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) sostenuto nei tempi andati dal regime. 
Questo è avvenuto nel campo di Yarmouk, un sobborgo di Damasco che ospita un terzo dei palestinesi del paese, così come siriani molto poveri. Secondo quanto riferito, queste sparatorie hanno fatto seguito agli scontri che erano iniziati durante i cortei funebri ad opera di “partecipanti al funerale arrabbiati” o “fanatici” che, secondo testimoni oculari, hanno affrontato i dirigenti delle fazioni in mezzo a loro a proposito della loro partecipazione alle marce. Questi, più tardi, hanno circondato la sede del PFLP-GC, dove hanno avuto luogo le sparatorie mandando in fiamme l’edificio. 
In una conferenza stampa, il leader del PFLP-GC, Ahmad Jibril, ha negato ogni responsabilità per le sparatorie, sostenendo che durante l’attacco alla propria sede il PLFP-GC ha perso tre guardie, mentre sono rimasti uccisi solo un attaccante e un passante. Jibril ha affermato che coloro che sono piombati sulla sede centrale della fazione erano fomentati dall’Arabia Saudita e dal presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, tra gli altri provocatori, allo scopo di trascinare in modo forzoso i palestinesi in Siria negli avvenimenti in corso nel paese. Ha negato pure il coinvolgimento della sua fazione nell’organizzare gli autobus che, il giorno della marcia, hanno trasportato i giovani al confine. 
Qualsiasi sia la verità su quanto accaduto nel campo di Yarmouk, prese per buone le sparatorie sembrano confermare il controverso racconto israeliano e americano di giovani profughi palestinesi strumentalizzati come burattini, indipendentemente dal fatto che ci siano stati “partecipanti al funerale arrabbiati” o folle di “fanatici” che sono piombati sulla sede centrale del PLFP-GC. 
Tuttavia, qualora si tenga conto della volontà politica propria dei giovani profughi, quanto avvenuto alla sede del PFLP-GC potrebbe essere letto pure come espressione della rabbia popolare a un egoistico tentativo di dirottare e capitalizzare, da parte delle fazioni con sede a Damasco, un’iniziativa promossa dalla gioventù. 
Così, mentre l’inquadratura dei fatti israeliana e americana è servita a contestare ai giovani palestinesi l’essere profughi di terza e quarta generazione, e ostinati pretendenti di un diritto al ritorno alle loro terre legalmente conservato, ciò che hanno evidenziato irrevocabilmente le uccisioni al confine e le sparatorie a Yarmouk sono i conflitti di interesse di tutte le componenti coinvolte nelle marce: il regime, le fazioni, i giovani. 
Palestinesi in Siria, soli e non rappresentati. 
Come per le notizie contrastanti che circondano le sparatorie di Yarmouk, ci sono state informazioni discordanti circa la misura del coinvolgimento palestinese negli avvenimenti in Siria. Già nell’aprile 2011, sul quotidiano al-Watan – un giornale “privato” di proprietà di Rami Makhlouf, cugino del presidente siriano Bashar al-Assad – è stato fatto circolare un rapporto su “estremisti palestinesi” che a Deraa, la città meridionale ove è iniziata la rivolta, hanno danneggiato la città con atti di vandalismo, disordini, saccheggi e incendi dolosi. 
Lo stesso rapporto ha riportato inoltre la condanna – e quindi l’ammissione – del coinvolgimento palestinese da parte di una fonte “ad alto livello” palestinese di Damasco, negata e smentita il giorno dopo sullo stesso quotidiano da un membro dell’ufficio politico del PFLP-GC. Durante la stessa settimana, in un’intervista con la BBC araba, il consigliere di al-Assad Buthayna Sha’ban ha puntato il dito , tra le altre, contro persone provenienti da un “campo” che sono piombate sulla città costiera di Latakia e hanno cominciato a incendiare e distruggere negozi, uccidendo due membri della sicurezza e un manifestante 
Jibril si è affrettato a inviare una smentita al al-Watan su questo presunto coinvolgimento palestinese, facendo presente che il campo di Latakia è adiacente a una zona che ospita immigrati del governatorato di Idlib e altra gente di provenienza rurale-urbana, i veri colpevoli. Questa confusione, secondo quanto riportato nella sua dichiarazione, era simile a quella riguardante l’individuazione dei veri responsabili che stanno dietro alla rivolta di Deraa. Secondo Jibril, come emerso in secondo momento, i rivoltosi di Deraa non erano palestinesi, ma gente della zona adiacente al campo al cui interno sono ospitati gli sfollati siriani del Golan. 
Già in marzo, “fonti” all’interno degli sfollati siriani hanno inviato allo stesso giornale la smentita del loro coinvolgimento. A complicare ulteriormente le cose, mentre Jibril si è dimostrato impaziente di dissociare i palestinesi dall’ iniziale essere segnati a dito, la coalizione delle fazioni con sede a Damasco, nota con il nome di Alleanza delle Forze Palestinesi, che comprende il PFLP-GC di Jibril, si è pure affrettata a smentire il comunicato stampa dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Profughi Palestinesi, che faceva riferimento a violente sparatorie nel campo di Latakia, nel mese di agosto del 2011. 
Se un semplice corso d’acqua separa i palestinesi dagli immigrati rurali-urbani che vivono nel quartiere di al-Raml, vicino al campo di Latakia, come sostiene la replica fatta a marzo da Jibril alle affermazioni di Sha’ban, allora questa primitiva linea di demarcazione solleva una questione importante per i membri dell’Alleanza delle Forze Palestinesi: come potrebbe l’artiglieria pesante discernere questo corso d’acqua cinque mesi dopo? 
Tale questione è particolarmente rilevante data la replica del Direttore dell’Autorità Generale per i Profughi Arabo-Palestinesi, in massimo organo statale responsabile per i palestinesi in Siria, alla dichiarazione UNRWA sui fatti circostanti il campo di Latakia. Egli, non solo ha contestato la dichiarazione, ma ha pure confermato che la “questione” che è stata “affrontata” ha avuto luogo in una “zona limitrofa al campo” anziché nel campo stesso. 
Allo stesso tempo, anche opinionisti vicini all’Autorità Palestinese di Ramallah si sono uniti al coro che riguarda i fatti di Latakia per insinuare che il regime aveva affettivamente preso di mira i palestinesi sulla base della loro identità nazionale. C’è stato chi è arrivato al punto di rievocare il ricordo della “guerra dei campi” – una fase della guerra civile libanese che ha visto il regime siriano e i suoi alleati libanesi porre sotto assedio e fare guerra alla rinascita di Fatah nei campi profughi palestinesi del Libano – un’affermazione che crea confusione alla stessa stregua della replica all’UNRWA dell’Alleanza delle Forze Palestinesi. 
Questo perché non tiene nel giusto conto la realtà degli spazi etnicamente eterogenei e aperti quali sono i campi palestinesi in Siria – che spesso ospitano i siriani più poveri ai loro bordi e che si disperdono nelle aree adiacenti – e di conseguenza della portata dei fatti accaduti in una città che è stata segnalata per essere stata oggetto di violenti scambi di colpi di arma da fuoco e cui capita pure di essere la sede di un campo profughi palestinese. 
Tali racconti incentrati sui palestinesi in Siria fatti da coloro che sostengono di rappresentare i loro interessi sia all’interno che all’esterno del paese, mettono in evidenza i divergenti interessi di questi sedicenti portavoce. Essi rimarcano pure quanto i palestinesi in Siria siano veramente soli e non rappresentati in momenti tanto difficili come questi. 
Una necessaria neutralità 
Questi racconti contradditori e incentrati sui palestinesi in Siria, come tutto ciò che ne emerge, e che attiene al paese, non ci dicono nulla sulle reali e materiali ripercussioni in atto sulle persone dei due campi e delle aree circostanti. Ciò che ci fanno capire, se spogliate di tutta la loro retorica, le dichiarazioni e le conferenze stampa dell’anno scorso fatte dai membri dell’Alleanza delle Forze in Siria è il desiderio e il rilievo dato dalle fazioni alla neutralità politica dei palestinesi e dei loro campi, evidenziando in tal modo il pericolo di un loro coinvolgimento negli avvenimenti (e che spesso parlano di interessi nascosti che vorrebbero condurre proprio a questo). 
D’altro canto, le dichiarazioni dell’UNRWA dell’anno scorso dipingono un quadro coerente dei campi palestinesi, come pure delle zone limitrofe in cui vivono, in quanto colpiti dalle misure restrittive imposte sulle rispettive città, in primo luogo per la sospensione dei servizi di soccorso, del maggio 2011, a Daraa, nei villaggi circostanti e a Homs, così come per l’impossibilità per l’Agenzia di accedere a Latakia nel mese di agosto 2011. I portavoce dell’Agenzia hanno pure sottolineato la potenziale catastrofe che potrebbe capitare ai palestinesi nel caso in cui risultassero coinvolti in un modo o nell’altro negli avvenimenti, cosa che, nel peggiore dei casi, potrebbe portare una volta ancora alla loro espulsione. 
Anche Hamas è stato estremamente coerente fino alla sua recente partenza dal paese, anche se in maniera diversa. La leadership con sede a Damasco ha mantenuto una posizione di rigoroso silenzio sulla Siria, fino all’intervista di Khaled Meshal su Al Jezeera in lingua araba del tardo dicembre 2011. In tale occasione egli ha osservato che Hamas avrebbe gradito vedere la riforma della compagine di governo in casa propria, pur mantenendo il suo appoggio alla resistenza e che Hamas è al tempo stesso fedele al regime per il sostegno fornito nel corso degli anni, così come lo è al popolo siriano che ha accolto a braccia aperte il movimento. 
Questa intervista, seguita dalla partenza del leader del movimento e il cenno alla rivolta fatta dal primo ministro di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, in occasione del discorso del febbraio 2012 fatto alla moschea Al-Azahr del Cairo, è venuta in mezzo ai mutamenti interni ed esterni al movimento che si sono dischiusi in vista dei cambiamenti apportati alla mappa politica del mondo arabo del dopo-rivoluzione. 
La saga della politica nazionale palestinese si è svolta anche lontano dagli interessi quotidiani e dai pericoli reali che devono affrontare i palestinesi in Siria, la cui presenza nel paese è antecedente a quella di Hamas di circa cinque decenni. Questi interessi e pericoli includono non solo la minaccia di una seconda espulsione, ma anche la crescita delle difficoltà economiche più immediate, che sono conseguenti alle sanzioni, alla situazione del paese che si traducono in un’inflazione galoppante, nell’impennata dei prezzi e nella rovina dei proprietari delle piccole imprese. 
Presente incerto e futuro. 
Dato che, fino a poco tempo fa, Damasco e i suoi dintorni, dove vivono i tre quarti dei palestinesi del paese, sono stati perlopiù risparmiati dallo sconvolgimento della rivolta, allo stesso modo lo sono stati pure i campi e i gruppi di palestinesi della capitale e del suo circondario. Tuttavia, questa situazione ha cominciato a cambiare per le aree costituenti il governatorato di Damasco e quello della sua campagna, tanto da colpire tutti i residenti di queste zone. Anche se oggi i palestinesi costituiscono una minoranza nel campo di Yarmouk, esso è stato perlopiù risparmiato, mentre le aree ad esso adiacenti risultavano cariche di tensione. 
Video di controverse manifestazioni pro- e anti-regime erano in circolazione da almeno la scorsa estate, in numero superiore a quello del gennaio inoltrato del 2012. Ad alcuni di questi hanno fatto seguito le smentite del coinvolgimento palestinese riportate su al-Watan, il quale in precedenza aveva pubblicato rapporti contrastanti sul coinvolgimento palestinese nelle iniziali manifestazioni a Deraa e Latakia. Invece, le manifestazioni in discussione sono state attribuite da fonti anonime palestinesi a siriani – provenienti presumibilmente dai bordi del campo, dalle aree adiacenti e anche da più lontano. 
In marzo, è esplosa un’auto in una delle vie più tranquille del campo, il giorno stesso in cui due bombe hanno squarciato il centro di Damasco, uccidendo coloro che si trovavano nell’auto. Nell’ambito di sviluppi ancor più inquietanti, ci sono state le segnalazioni di misteriosi omicidi di quadri di diverso rango dell’Esercito di Liberazione della Palestina – una brigata dell’esercito siriano nella quale devono svolgere il servizio militare tutti i giovani palestinesi di età superiore ai diciotto anni – e l’uccisione avvenuta questa settimana di tutti i sedici soldati del PLA del campo di Neirab ad Aleppo e quella del loro autista che era stato sequestrato sulla strada vicino a Idlib circa due settimane fa. 
Inoltre, il “rapimento” e il successivo “rilascio” di un ex funzionario di Hamas compiuti due giorni dopo a Damasco ad opera di “sconosciuti” sequestratori, ha ricevuto molta meno attenzione della morte recente di Kamal Ghanaja, quadro militare di Hamas, avvenuta nella sua casa di Damasco. Ciò non sorprende, dato che Ghanaja, come Mahmoud al-Mabhouh che è stato assassinato a Dubai circa due anni e mezzo fa, era sconosciuto al di là di una ristretta cerchia di persone fidate, e che la natura dell’aggressione è stata riferita inizialmente come assassinio, e comprendeva relazioni sul furto di file e l’incendio della casa di Ghanaja che è seguita al suo assassinio. Mentre Hamas ha annunciato che condurrà una propria indagine sulle circostanze che circondano la morte di Ghanaja, fonti anonime presumibilmente del movimento si sono fatte avanti sostenendo che la sua morte è stata un incidente, sollevando così ancor più dubbi su quanto sia realmente avvenuto. 
La morte di Ghanaja ha messo in ombra anche il bombardamento del campo di Deraa, con un resoconto di almeno quattro morti, e il precedente attacco al campo di Neirab fatto da aggressori armati che hanno lasciato almeno altri tre morti. Mentre il PFLP-GC ha rilasciato una dichiarazione sull’attacco al campo di Neirab, accusando “gruppi armati terroristici”, del bombardamento di Deraa non ha fatto alcuna menzione. Quello che ci fa capire quest’ultima serie di avvenimenti è che in Siria i confini tra i palestinesi e i disordini sono fittizi e stanno diventando sempre più difficili da mantenere. 
Dato che la situazione sul terreno continua a cambiare, il destino dei palestinesi nel paese, come quello dei siriani e del paese nel suo complesso, rimane imprevedibile. Tuttavia, a differenza dei loro omologhi siriani, i palestinesi sono profughi senza un posto in cui andare nel caso di un ulteriore deterioramento della crisi in Siria. 
Recenti rapporti riguardanti la Giordania che esaminano la possibilità di realizzare al confine con la Siria una “zona cuscinetto” per i palestinesi che dopo il 17 hanno attraversato la frontiera, dipingono un quadro preoccupante su ciò che può succedere. In aprile, un membro del parlamento giordano ha descritto il campo di Bashabsha, trasformato in ricovero per i palestinesi profughi dalla Siria, come un campo di “detenzione” piuttosto che un campo profughi, che mette in evidenza il contrasto tra il trattamento che il suo governo ha riservato ai palestinesi e l’ospitalità che ha garantito ad approssimativamente 95.000 siriani profughi in Giordania.
                                                                             bashabsha camp
                                                                     Bashabsha camp 
Inoltre, un ultimo rapporto di Human Right Watch sottolinea un tacito cambiamento della politica del governo giordano in relazione ai palestinesi che arrivano dalla Siria fin dal momento in cui ciò è avvenuto. Quelli che attraversano irregolarmente, non solo si trovano di fronte la minaccia di un rimpatrio forzato, ma coloro che non sono in grado di trovare un “garante” giordano vengono al momento incarcerati a tempo indeterminato in un altro centro di detenzione, la “Cyber City”, un complesso murato che, come Bashabsha, è anche vicino alla città
settentrionale di confine di al-Ramtha.
                                                                 cyber city
                                                                                        Cyber City camp 
Un altro stato arabo che chiude le porte in faccia a palestinesi che sono alla ricerca di un altro rifugio, ha troppi precedenti. Se ci qualcosa ci può dire questa interpretazione del posto occupato dai palestinesi negli avvenimenti siriani dello scorso anno, è che, al di là della retorica, durante i periodi di agitazione e sconvolgimenti negli stati arabi, i palestinesi si trovano ancora una volta soli e in una posizione estremamente precaria. 
Questa loro precarietà, in ultima analisi, deriva dal persistere della mancanza di riconoscimento e di risarcimento per la loro espulsione dalla Palestina durante la creazione dello stato di Israele e la conseguente apolidia dei palestinesi che dura da oltre sessant’anni.

Una versione completa di questo articolo è pubblicata con il titolo “Un anno dopo: i palestinesi in Siria” sulla siriana Newsletter Studies Association. 
Anaheed Al-Hardan è Postdoctoral Yellow presso l’Institute for Cultural Inqiry a Berlino. 
(tradotto da mariano mingarelli)
    L'incerto destino dei palestinesi in Siria


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Pericolo in agguato per i profughi palestinesi in Siria

di Ramzy Baroud  – 27 luglio 2012
“Le fiamme si stanno rapidamente avvicinando a Yarmouk (come se) qualcuno stesse cercando di trascinare i palestinesi nel fuoco”, ha scritto il commentatore palestinese Rashad Abu Shawar (secondo la citazione del Jerusalem Post israeliano del 20 luglio).
Yarmouk è il più grande campo profughi palestinese in Siria. I suoi abitanti costituiscono quasi un quarto dell’intera popolazione di quasi 500.000 profughi in Siria. Nonostante la persistenza del ricorso e l’insistenza sul loro diritto al ritorno in Palestina, la comunità palestinese in Siria è, nel complesso, come ogni altra comunità ordinaria.  
Naturalmente ”ordinarietà” non è un termine che si adatti agli sfortunati palestinesi profughi in paesi arabi.Ghassan Kanafani, un famoso romanziere palestinese, scrisse: “Oh, palestinesi, attenti alla morte naturale.” Egli espresse orgogliosamente con chiarezza come il suo popolo era preparato a ogni possibilità. Lo stesso Kanafani fu assassinato, assieme a sua nipote, in attentato orchestrato dal Mossad israeliano a Beirut nel luglio 1972.
I profughi palestinesi in Siria non possono neppure aspettarsi di vivere al di fuori di un paradigma di pericolo e imprevedibilità. I loro fratelli in Libano hanno imparato la stessa lezione anni fa. Anche i palestinesi in Kuwait sono stati perseguitati su vasta scala nel 1991, assieme ad altre comunità accusate di aver simpatia per Saddam Hussein. Come c’era da aspettarsi, la piccola comunità palestinese in Iraq ha ricevuto anch’essa la sua quota di maltrattamenti dopo l’invasione statunitense del 2003.
Con questo non si vuol dire che la comunità palestinese sia stata la sola a soffrire in tempi di guerra. Ma, a causa della loro mancanza di scelte, la condizione dei profughi palestinesi è spesso la più pericolosa e disperata. Sono apolidi. La maggior parte dei paesi arabi concede loro intenzionalmente, in vari modi, uno status legale precario per mantenerli chiusi e facilmente controllati. Il problema è, tuttavia, complicato da guerre che alimentano esodi di massa. I profughi apolidi sono sempre piantati in asso, lasciandoli vulnerabili a infinite sofferenze e prevaricazioni.
Prima del 2003 risiedeva in Iraq una piccola comunità di 35.000 palestinesi. Non erano stati praticamente mai associati a controversie politiche. Quando ebbe luogo l’invasione USA, tuttavia, divennero un facile bersaglio per diverse milizie, forze statunitensi e bande criminali. Molti furono uccisi.  Altri correvano in circolo in cerca di un porto sicuro altrove in Iraq, inutilmente, e a migliaia si sono trovati arenati in campi profughi ai confini con la Giordania e con la Siria. Ciò evidenziava come il problema dei profughi palestinesi fosse reale e urgente come sempre. La condizione di senzatetto dei palestinesi imbarazzava, anche, gli arabi che non hanno mai smesso di dichiarare guerre verbali contro Israele e tuttavia non ospitavano campi profughi. Persino le fazioni palestinesi, con le loro proprie guerre intestine, offrivano soltanto non impegnative e pietose dichiarazioni di sostegno.
La situazione in Siria promette di essere anche peggiore. Storicamente c’è stato cattivo sangue tra la Siria e alcune fazioni palestinesi, compreso Fatah, il partito dominante dell’OLP, e anche l’Autorità Palestinesi (PA) con sede a Ramallah. Mentre Damasco ha ospitato negli anni varie fazioni palestinesi di sinistra, Hamas non è tornato a Damasco se non dopo la rottura con la Giordania.
In mesi recenti Hamas ha silenziosamente abbandonato i propri uffici di Damasco. Era impossibile per il movimento islamico operare in una situazione in cui riceveva forti pressioni perché prendesse posizione. Il suo tentativo di trovare un’accettabile via di mezzo – sostegno al popolo siriano ma ammonimento contro i tentativi stranieri di indebolire la Siria – ha trovato orecchie sorde. Alcuni governi arabi hanno insistito nel premere sui dirigenti di Hamas per giungere a una decisione conclusiva a proposito del conflitto non scelta da loro e alla fine li hanno costretti a separarsi dalla Siria.
Il dibattito politico a proposito della Siria è divenuto una delle narrazioni più polarizzanti in rapporto alla cosiddetta Primavera Araba. I palestinesi sono stati presi in tale polarizzazione. Al Jazeera ha reso un cattivo servizio ai profughi palestinesi insistendo nel contestualizzare i palestinesi come parte del più ampio discorso sulla Siria. La rete televisiva sa bene cosa accade agli apolidi, vulnerabili palestinesi quando finiscono i conflitti. I giornalisti hanno fatto un buon lavoro nel documentare le umiliazioni sofferte dai palestinesi in Iraq. Anche se solo per motivi puramente umanitari i media arabi dovrebbero cercare di descrivere come  neutra la presenza palestinese nel conflitto siriano.
I palestinesi sono già nel mirino. Da quando è iniziato il conflitto sono stati riferiti 300 morti palestinesi in Siria. La PA afferma di essere in contatto con le autorità siriane per garantire la sicurezza della grande popolazione dei profughi. Molte delle uccisioni risulterebbero aver luogo a Yarmouk. I media arabi che si oppongono al governo siriano di Bashar Assad incolpano le forze di sicurezza siriane per gli attacchi ai palestinesi. Ma altri media raccontano una storia diversa.
“Nell’incidente peggiore, sedici membri dell’Esercito di Liberazione della Palestina, che è appoggiato dalle autorità siriane, sono stati uccisi dopo che uomini armati avevano fermato il loro autobus e li avevano rapiti”, ha riferito Khaled Abu Toumeh il 20 luglio sul Jerusalem Post. “I corpi dei palestinesi, le cui gole erano state tagliate, sono stati scoperti successivamente in un campo alla periferia di Damasco.” Una dichiarazione diffusa il 16 luglio dal comando congiunto dell’Esercito della Siria Libera, e citato dall’AFP, ha definito ‘bersagli legittimi’ “i dirigenti palestinesi favorevoli al regime sul suolo siriano”. Considerando che la collaborazione tra le varie fazioni dell’OLP e la Siria risale a decenni addietro, l’appello suona come una campana a morto per i numerosi palestinesi in Siria. L’Esercito di Liberazione della Palestina, per una volta, ha svolto un ruolo più o meno simbolico. E’ stato a malapena coinvolto in una qualsiasi azione militare, in Siria o all’estero. L’odioso macello di questi uomini segnala un deciso tentativo di punire palestinesi innocenti.
I profughi palestinesi probabilmente si troveranno di nuovo in fuga in quanto la situazione è così pericolosa. Le fazioni palestinesi devono mettere da parte il proprio interesse individuale e unirsi, anche se temporaneamente, per proteggere i profughi palestinesi in Siria. L’agenzia dell’ONU per i rifugiati, UNHCR, il cui scopo principale consiste nel “salvaguardare i diritti e il benessere dei profughi” deve agire ora per garantire la sicurezza dei profughi palestinesi in qualsiasi sinistro scenario futuro. La Lega Araba, che ha fatto poco per proteggere i profughi palestinesi quando rimasti prigionieri di conflitti regionali, deve agire questa volta per redimere le sue mancanze del passato.  
Non c’è nulla di peggio che essere un profugo in fuga, eccetto essere un profugo in fuga continuamente, con un perpetuo status legale di apolide e senza alcun paese in cui cercare rifugio. Quanto ai media arabi, dovrebbero sapere bene che il loro insistere nel presentare i palestinesi come una parte di rilievo nel bagno di sangue in Siria equivale a preparare per loro un disastro enorme, per dire il minimo.
Ramzy Baroud (www.ramzybaroud.net) è un giornalista internazionali indipendente e direttore di PalestineChronicle.com. Il suo libro più recente è ‘My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story’ (Pluto Press, Londra) [Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non narrata di Gaza].

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2012 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
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