Ma quale Primavera, questa è una rivoluzione. Nonostante l'Occidente



Secondo un recente studio condotto da Hivos, organizzazione no profit olandese, l’incredibile ondata di rivolte popolari che ha attraversato l’area Mena rappresenta un vero e proprio cambiamento epocale per la regione mediorientale. Ma "l’incomprensione occidentale del tessuto sociale che le alimenta, non aiuta a capire di più". 
di Nino Orto
 E' UNA QUESTIONE DI TERMINOLOGIA

“This is not a spring, this is a revolution”. La terminologia è importante, e l’uso di un termine rispetto ad un altro spesso cambia il valore stesso delle cose.
Ecco perché è fondamentale capire quale di questi vocaboli dovremmo usare per descrivere quello che è realmente successo durante il 2011 in molti paesi arabi.
La nozione di 'primavera' è superficiale, indica un fenomeno passivo. Si tratta di un concetto fuorviante che si riferisce ad un breve momento di transizione che rapidamente cede il passo ad una stagione successiva.
Lo stesso termine primavera araba è confuso e non identificativo quando ci ostiniamo a racchiudere in esso tutti i cambiamenti in atto mentre appare molto più convincente quando si declina all'interno dei suoi contesti locali.
Neanche ricorrendo alla parola "rivolta" si può davvero inglobare l’insieme di attori e dinamiche scatenatosi nel mondo arabo dopo i fatti avvenuti in Tunisia.
L’azione di rivoltarsi contro l’ordine e il potere costituito prevede infatti che un'azione sia improvvisa e poco organizzata, e non riflette la vera essenza della lotta democratica che i cittadini di questi paesi combattono quotidianamente per abbattere la ben radicata concezione repressiva dei regimi autoritari.
Meglio, forse, il concetto di rivoluzione, che esprime maggiormente il capovolgimento totale dei paradigmi sociali e politici che hanno dominato la regione per decenni, e il faticoso ma obbligatorio passo verso una maggiore democratizzazione all’interno delle strutture politiche arabe.
Prima di queste rivoluzioni dunque, era difficile prevedere un così ampio sommovimento della società civile nella regione.
L'attenzione degli organismi internazionali che promuovono la democrazia nell’area era concentrata solo sulla società civile perlopiù laica, come le Ong che si occupano dei diritti umani, delle questioni di genere e dei sindacati, perché il resto della popolazione sembrava sicuramente meno reattiva nei confronti dell’attivismo politico in generale.
La scarsa conoscenza del contesto in cui questi attori sociali hanno operato e la non prevedibilità del cambiamento sociale che è avvenuto all’interno dei contesti autoritari, non hanno aiutato poi ad inquadrare in maniera esauriente il fenomeno.
Prendendo come esempio la Siria, prima dello scoppio delle proteste popolari avvenute nel marzo 2011, la ricerca empirica condotta da Hivos ha rivelato come il confine tra la società civile e lo Stato risulti essere meno netto rispetto a quanto previsto durante la fase di teorizzazione.
La maggior parte degli attivisti siriani hanno un rapporto piuttosto ambivalente con l’apparato statale e, nonostante le organizzazioni possano sopravvivere solo se tollerate dal potere centrale, questo non ha comportato necessariamente una subordinazione degli attivisti al regime, ma ha semplicemente creato un diverso modo di portare avanti forme di associazionismo militante.


CHE COSA È SUCCESSO VERAMENTE?

Fino al 2011, nonostante i successi apparenti dei regimi per limitare qualsiasi forma di democrazia, l'autoritarismo non era una strategia ma piuttosto, era una risposta interna alle pressioni verso una maggiore democratizzazione politica del sistema e per una più intensa partecipazione della società civile nel processo politico.
Il risultato è stato che sia la società civile tradizionale, sia i nuovi attori sociali quali gli attivisti dei social media, sebbene abbiano operato in un'ambigua atmosfera autoritaria, sono riusciti ad acquisire una relativa autonomia che ha poi dimostrato grazie alle rivolte, che l'idea liberale della società civile come motore della democratizzazione non riflette la realtà di questi paesi.
Ci sono due ragioni concatenate per cui l’Occidente non è stato in grado di prevedere quello che poi si è manifestato: si è sopravvalutato lo Stato arabo e la sua capacità di riconfigurare le dinamiche stato-società in suo favore, e si è sottovalutata la società civile e la sua capacità di confrontarsi con la cultura della paura tipica di ogni regime.
Oltretutto si sono trascurati anche gli elementi più importanti: la sempre maggiore istruzione della popolazione e la nuova consapevolezza politica dei popoli arabi.
La scolarizzazione unita al fallimento dello Stato nel soddisfare le aspettative delle nuove generazioni ha creato una maggiore consapevolezza politica tra dei giovani altamente istruiti, disoccupati e sottoccupati, che hanno poi costituito la miccia che ha dato vita a questo storico cambiamento che ha attraversato la regione.
In altre parole l’Occidente non è andato oltre l’analizzare il documentato autoritarismo arabo, ignorando le evoluzioni degli ultimi 50 anni.
Come spesso accade in crisi che si rivelano sistemiche, i fenomeni erano noti, ma la loro veloce individuazione è stata ostacolata dalla mancata comprensione di come esse avrebbero potuto interagire.
L’urgenza di voler spiegare le cause e le conseguenze del terremoto sociale innescato nel mondo arabo ha fatto perdere di vista il momento storico che vivono questi paesi, alimentando ulteriormente l’incomprensione da parte dei paesi occidentali.
D’altronde le transizioni rivoluzionarie sono processi a lungo termine con veloci progressi e repentine battute d'arresto. 
Ciò contrasta con le analisi di breve termine che la maggior parte delle nazioni 'avanzate' usano per giustificare le loro azioni all’estero agli elettori a casa.
Le transizioni in corso in Tunisia, Egitto, Yemen e Libia sono impegnate in una continua lotta per la futura forma dello Stato, per la creazione di nuove costituzioni, per determinare gli equilibri di potere tra le varie anime della società.
Ora bisognerebbe esaminare il ruolo di quelli che appaiono gli 'attori emergenti' di questi processi di transizione.
Ad esempio i gruppi non organizzati, come le popolazioni delle baraccopoli, i braccianti, i disoccupati analfabeti come i sottoccupati laureati che si sono mobilitati a contribuire al cambiamento.
Anche se per toccare con mano i 'risultati' delle rivoluzioni che hanno coinvolto questi paesi dovremo aspettare diverso tempo, c’è qualcosa che si può affermare senza ombra di dubbio: i due paradigmi dominanti tra gli analisti del Medio Oriente - come l'eccezionalismo arabo e la passività dei popoli della regione mediorientale - sono stati scardinati, definitivamente.
Per leggere il rapporto, clicca qui.

Commenti

Post popolari in questo blog

Alberi,piante e fiori della Palestina: i gelsi

Hilo Glazer : Nelle Prealpi italiane, gli israeliani stanno creando una comunità di espatriati. Iniziative simili non sono così rare

Né Ashkenaziti né Sefarditi: gli Ebrei italiani sono un mistero - JoiMag

Lesbo : tre nonne e un nipotino venuto dal mare