Primavere arabe? Le mani di sauditi e Qatar sul Medio Oriente



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iMarco Santopadre - contropiano.org.
In ballo c'è una ‘rifondazione del Medio Oriente’ sulla base dei mutevoli equilibri geopolitici determinati dall’ascesa di nuove potenze regionali – Qatar e Arabia Saudita da una parte, Turchia dall’altra – in competizione/associazione con le vecchie potenze coloniali – Francia, GB e USA – senza dimenticare Israele e il tentativo da parte di Russia e Cina di evitare di perdere posizioni. Ogni volta che qualcuno, dati alla mano, denuncia il ruolo delle potenze straniere nella destabilizzazione del Medio Oriente e in particolare nello scatenamento della guerra civile in corso in Siria, viene tacciato di difendere il regime di Assad e di nasconderne i crimini. Che quello siriano sia un regime non ci piove. Come del resto tutti – ma proprio tutti – i regimi al governo in Medio Oriente e nel mondo arabo e islamico.
Secondo alcuni dovremmo scriverlo e ribadirlo ogni volta che proviamo a mettere in fila gli interessi e i progetti difesi in Siria dalle diverse forze in campo nella guerra civile in corso. Ma ciò che è in ballo a Damasco non è lo scontro tra una popolazione insorta e un regime dittatoriale. La rivolta di un settore importante del popolo siriano contro gli Assad e la loro corrotta e violenta burocrazia è uno degli elementi alla base delle guerra civile siriana. Uno degli elementi, ma non l’unico.
Basta leggere il chiarissimo intervento di un giornalista senza peli sulla lingua come Ugo Tramballi per capire quali sono le forze in campo oggi in Siria. Ciò che è in ballo è una ‘rifondazione del Medio Oriente’sulla base dei mutevoli equilibri geopolitici determinati dall’ascesa di nuove potenze regionali – Qatar e Arabia Saudita da una parte, Turchia dall’altra – in competizione e a volte in associazione con le vecchie potenze coloniali – Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti – senza dimenticare l’attivismo guerrafondaio di Israele e il tentativo da parte di Russia e Cina di evitare di perdere posizioni e di permettere alla Nato di arrivare con missili e basi fin sotto i loro confini.
Altro che primavere arabe. In questo quadro pensare che i popoli dell’aria possano difendere i propri legittimi interessi accettando la tutela – o la manipolazione – di uno degli attori in campo vuol dire essere ingenui o, più probabilmente, in malafede. Senza un rifiuto delle ingerenze esterne non ci può essere in Medio Oriente nessuna difesa degli interessi popolari e tantomeno una prospettiva di democratizzazione sociale e politica. Le petromonarchie del Golfo o il regime turco, è evidente, non hanno alcun interesse a democratizzare l’area, ma semmai a imporre nuovi regimi che invece di intavolare alleanze con la Russia o l’Iran siano strumento degli interessi di Ryadh o Ankara.
Come hanno dimostrato i casi di Tunisia, Egitto e Libia – pur diversissimi tra loro -  dalle rivolte di questi anni è scaturito un Medio Oriente rinormalizzato, all’interno del quale la voglia di libertà di di cambiamento di settori spesso minoritari ma attivi di quei paesi sono stati incanalati se non strumentalizzati a favore di un semplice ridisegno dei rapporti di forza tra le grandi correnti politiche dell’area e le varie potenze in competizione. Alle rivolte e alle guerre è seguita, sempre e comunque, una normalizzazione reazionaria, una restaurazione che non lascia spazi né alla libertà né alla democrazia. E in un quadro del genere che quello di Assad sia un regime autoritario e violento diventa davvero un elemento che non si può e non si deve negare ma che non può neanche essere elevato a giustificazione suprema di ogni intervento guerrafondaio in Medio Oriente.
Che un popolo si sollevi armi alla mano per rovesciare un regime dittatoriale è legittimo e sacrosanto. Che alcuni settori della popolazione di una paese – che ne siano coscienti o meno poco importa – si facciano strumento degli interessi e delle mire di potenze straniere al fine di sostituire un regime con un altro è invece tutta un’altra storia. La differenza non è da poco.
Non esiste nessun Hitler contro il quale valga la pena di unire in una santa alleanza gli interessi delle masse sfruttate e quelli delle potenze imperialiste. E tantomeno di scatenare una guerra mondiale. Assad non è Hitler, così come non lo erano Saddam Hussein, o Gheddafi, o Milosevic.


2  Il peso di Qatar e sauditi nel nuovo Medio Oriente
di Ugo Tramballi - Il Sole 24 Ore
Ramadan mubarak. È piuttosto fuori luogo augurare un buon Ramadan con le cose che accadono. Il mese del digiuno e della preghiera che incomincia oggi, non sospenderà i combattimenti in Siria né eventuali altri attentati terroristici. Non è mai accaduto che un Ramadan fermasse la guerra. E non accadrà ora, che il Medio Oriente è di fronte al suo più grande sconvolgimento degli ultimi 100 anni.
Allora furono la fine dell'impero ottomano e gli anglo-francesi che sulle sue macerie disegnarono le nuove frontiere della regione. Potenze straniere padroni del destino. Questa volta no: americani, russi, ancor più gli europei, hanno solo un ruolo di supporto. I turchi credono di essere più importanti di quanto non siano. I protagonisti sono gli arabi. Soprattutto due Paesi, Arabia Saudita e Qatar: per dinamismo sarebbe giusto mettere in testa il Qatar; per dimensioni e dati statistici, cioè per massa critica, contano i sauditi. 
Nel 2011 la crescita qatarina è stata del 18%, spinta soprattutto dalle esportazioni di gas naturale liquido. Per prevenire eventuali primavere in casa, l'anno scorso il Governo saudita ha pescato 130 miliardi di dollari dal suo surplus petrolifero per finanziare sussidi: case, aumenti di stipendio, posti di lavoro. Sono questi gli arsenali che definiscono le potenze arabe oggi.
Una volta c'era l'Egitto popolatissimo, poverissimo, iperarmato. Ora solo la difesa strategica dei regni ed emirati sunniti del Golfo è garantita dagli Stati Uniti. Al resto pensano loro.
Fare shopping nell'Europa indebitata per diversificare le mono-economie energetiche, è solo una delle attività.
L'altra è investire le ricchezze nella rifondazione del Medio Oriente. Finanziano i Fratelli musulmani in Tunisia ed Egitto; distribuiscono armi agli insorti siriani che senza i mezzi venuti dal Golfo non sarebbero arrivati nel cuore di Damasco; hanno pagato la guerra e poi la ricostruzione in Libia; ritengono di non aver fatto ancora abbastanza in altri Paesi, per esempio il Libano controllato dagli hezbollah sciiti.
Abbiamo parlato di regni sunniti perché nel disegno modernista di cambiare il Medio Oriente con il potere economico si nasconde la fede. Uno scisma medievale fra sciiti e sunniti, irrisolto da quando esplose nella battaglia di Karbala del 680.
Forse in Siria un giorno ci sarà anche la democrazia: non prima che i sunniti tolgano di mezzo dal potere gli alawiti di origine sciita della famiglia Assad. Il Qatar è più attratto dalle idee democratiche rispetto ai sauditi che invece le temono: l'emiro al-Thani percepisce la forza della democrazia. Ma quando si è trattato di togliere di mezzo i manifestanti sciiti, anche il Qatar ha partecipato alla spedizione militare in Bahrain. In Tunisia ed Egitto dove non ci sono sciiti, sauditi e qatarini non hanno mosso un dito fino a che le piazze di Tunisi e del Cairo sono state piene di giovani blogger. Ma hanno incominciato a dare soldi quando è venuto il momento delle fratellanze islamiche. 
Le agende di Arabia Saudita e Qatar non sono del tutto identiche. Le due famiglie regnanti sono imparentate, entrambe sono sunnite wahabite ma i due Paesi non si sono sempre amati, un paio di volte si sono presi a fucilate lungo il confine. I sauditi non sopportano al-Jazeera né gli atteggiamenti liberali di al-Thani. Ma questo era parte del vecchio Medio Oriente. Ora ce n'è uno nuovo e l'obiettivo comune è più importante delle differenze.
Per pura scelta strategica gli americani sono con loro. Anche gli europei. E pure Israele: fra Iran, Siria e Hezbollah (gli sciiti) e i sunniti alcuni dei quali in pace con lo Stato ebraico, la scelta è obbligata.

Tratto da: contropiano.org.

3    SABATO 4 GIUGNO 2011


I sauditi “uccideranno” la Primavera Araba?
Nel suo discorso di due settimane fa sul Medio Oriente, il presidente Barack Obama ha inteso lasciare pochi dubbi sul fatto che l’America sta dalla parte dei popoli della regione e della loro richiesta di cambiamento. Questo pone gli Stati Uniti in rotta di collisione con l’Arabia Saudita.
I governanti sauditi hanno fatto capire chiaramente che trovano il sostegno degli Stati Uniti alla democrazia ingenuo e pericoloso, una minaccia esistenziale per le monarchie del Golfo Persico. Se gli Stati Uniti sosterranno la democrazia, i sauditi stanno segnalando che gli USA non potranno più contare sul loro legame speciale con Riyadh (leggi: petrolio).La minaccia saudita ha lo scopo di mettere i politici americani di fronte a una scelta tra i valori e gli interessi statunitensi. L’idea è che o Washington sceglie di proseguire per questa strada, sostenendo le richieste dei popoli arabi e rischiando una frattura con l’Arabia Saudita, o sceglie di proteggere il  rapporto con i sauditi perdendo così il resto del Medio Oriente.



In effetti, la scelta tra i valori e gli interessi statunitensi è una falsa scelta, come ha chiarito il presidente nel suo discorso. Ma ora, la politica americana deve riflettere questa verità. Finora, Washington ha cercato di placare i sauditi. È ora il momento di sfidare le loro parole e azioni, invece.

Spostamento tettonico
Non è una sorpresa che lo spostamento tettonico avvenuto nella politica araba, dovuto ad una rivolta popolare che ha chiesto riforme, apertura e responsabilizzazione, preoccupi la monarchia saudita.  Il regno, come il resto del mondo arabo, ha una popolazione giovane che vuole posti di lavoro, libertà e una voce in politica. Il 39% dei sauditi in età compresa fra i 20 e i 24 anni sono disoccupati. Dopo aver visto il presidente egiziano Hosni Mubarak farsi da parte in seguito alle proteste in cui i giovani egiziani hanno svolto un ruolo chiave, il re dell’Arabia Saudita, Abdullah, ha annunciato un piano di spesa di 35 miliardi dollari per migliorare le condizioni sociali al fine di scongiurare la richiesta interna di riforme. Questa mossa ha permesso alla monarchia di guadagnare tempo, ma sono ormai troppi i tasselli del domino che stanno cadendo nella sua direzione per consentire alla famiglia saudita di sentirsi tranquilla. Le violente proteste ai confini dell’Arabia Saudita, in Bahrain e nello Yemen, hanno destato particolare preoccupazione.
Fin dall’inizio, Riyadh ha incoraggiato ogni governante arabo a opporsi alle riforme.  Più Washington abbracciava la Primavera Araba, più Riyadh si preoccupava. I governanti sauditi si sono opposti alla richiesta di dimissioni fatta a Mubarak da Washington, e quando gli Stati Uniti hanno esortato le riforme in Bahrain, Riyadh ha percepito la politica americana come una minaccia diretta.
Incoraggiare il dialogo
Washington aveva incoraggiato il re del Bahrain, Hamad ibn Isa Al-Khalifa, ad aprire il dialogo con l’opposizione, e diplomatici americani sono stati direttamente coinvolti nella mediazione. Un accordo era stato quasi raggiunto quando Riyadh ha deciso di compiere l’inconsueto passo di compromettere la politica degli Stati Uniti.  I governanti sauditi hanno persuaso il Bahrain a far naufragare i negoziati facendo entrare truppe saudite e degli Emirati Arabi Uniti per reprimere le proteste.
La debole scusa per questa goffa repressione è stata che le proteste erano state orchestrate dall’Iran, e che l’espansionismo iraniano doveva essere fermato. Una protesta locale ispirata dalle manifestazioni popolari in Tunisia ed Egitto è stata trasformata in un conflitto regionale. La strategia saudita era palese: spostare l’attenzione dalla richiesta di democrazia allo spauracchio iraniano.
Incoraggiata dal risultato ottenuto in Bahrain, l’Arabia Saudita ha avviato una strategia regionale per sconfiggere la Primavera Araba. Riyadh ha chiesto l’espansione del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), un gruppo di paesi arabi produttori di petrolio che si affacciano sul Golfo Persico, per includere Giordania e Marocco, che non soddisfano nessuno di questi due requisiti.
Placare i manifestanti
L’espansione trasformerebbe il GCC nel club delle monarchie del mondo arabo. L’adesione di Amman e Rabat riempirebbe le casse quasi vuote di Giordania e Marocco delle risorse finanziarie necessarie per rabbonire la collera dei manifestanti. In cambio questi paesi dovrebbero abbandonare il riformismo ed essere pronti a prestare le loro forze armate più preparate per sedare le eventuali proteste che potrebbero nuovamente scoppiare negli Stati del Golfo.
La nuova posizione presa dall’Arabia Saudita rappresenta una sfida seria per la politica statunitense.  Cedere alle richieste dell’Arabia Saudita posizionerebbe l’America dal lato sbagliato di una storica trasformazione nella regione ampiamente appoggiata a livello popolare, dunque non facendo altro che nuocere agli interessi degli Stati Uniti sul lungo periodo. L’autoritaria repressione delle proteste in Bahrain ha già intaccato la posizione americana nella regione.
Il fatto che l’Arabia Saudita abbia poi deliberatamente alimentato le tensioni con l’Iran è rischioso. Le monarchie del Golfo Persico non hanno la forza militare per sostenere la loro politica aggressiva nei confronti dell’Iran. La loro credibilità dipende dal sostegno degli Stati Uniti. E se aizzare l’Iran dovesse intensificare le tensioni nel Golfo, gli interessi degli Stati Uniti e l’ampiezza della loro presenza militare nella regione, metterebbero inevitabilmente Washington nel mezzo del conflitto.
Affrontare la sfida
Per tutte queste ragioni, gli USA hanno bisogno di affrontare la sfida saudita a testa alta. Se non  dovessero riuscirvi, ciò nuocerà alla nostra posizione nella regione e ci allontanerà dall’opinione pubblica araba, a tutto beneficio dell’Iran.
Gli Stati Uniti dovrebbero affermare il proprio ruolo di leadership in Medio Oriente. Dovrebbero rendere chiaro che, nonostante i nostri stretti legami con l’Arabia Saudita, saremo attenti a spingere a favore delle riforme in Bahrain, come in Libia o in Siria. Washington dovrebbe essere pronta ad agire se la monarchia in Bahrain non dovesse mettere fine alla repressione e avviare un dialogo costruttivo con l’opposizione. Dovremmo anche chiarire alla Giordania e al Marocco che l’America sostiene le loro iniziative di riforma e non vedrebbe di buon occhio un’inversione di rotta
È vero che ci affidiamo al GCC per il petrolio, ma non ci saranno interruzioni nel flusso del petrolio se mostreremo di non essere d’accordo con gli Stati del Golfo. Il loro sostentamento dipende dal petrolio: per trarne profitto devono venderlo. Inoltre, i paesi del GCC hanno bisogno di noi per difendere la loro sicurezza, come è stato ampiamente dimostrato in entrambe le guerre con l’Iraq. Ciò che ci dovrebbe preoccupare, dunque, non sono le minaccie saudite, ma piuttosto come i popoli del Medio Oriente giudicheranno le nostre politiche in questa fase critica della loro storia.
Vali Nasr è un accademico iraniano-americano; è professore di Politica Internazionale presso la Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University

4    MERCOLEDÌ 10 AGOSTO 2011


EMAD GAD, SAUDITI A GAMBA TESA IN MEDIO ORIENTE


   Il Cairo, 10 agosto 2011, Nena News – Il mondo islamico sunnita scende in campo contro il presidente alawita (sciita) Bashar Assad. Ad alzare la voce di fronte alle decine di civili uccisi nelle città sunnite di Hama e Dayr az-Zor sono stati emiri e re del Golfo, capeggiati da Abdallah dell’Arabia saudita, che hanno richiamato gli ambasciatori a Damasco e rilasciato dichiarazioni durissime contro il regime siriano. Sono andati ben oltre il comunicato preoccupato diffuso dalla Lega Araba e il loro passo conferma come la protesta in Siria, cominciata sull’onda della«primavera araba» per la democrazia, la libertà e i diritti, ha assunto le caratteristiche di un conflitto settario, di uno scontro tra sunniti e sciiti già visto in diversi paesi della regione, specie in Iraq, negli ultimi anni. Sullo sfondo c’è lo scontro a distanza tra Arabia saudita e l’Iran sciita, stretto alleato della Siria, per il controllo strategico della regione. Ne abbiamo parlato con Emad Gad, analista del Centro Al Ahram per gli studi strategici del Cairo, specializzato in islamismo e rapporti tra cristiani e musulmani.
D. Nella crisi siriana scendono in campo l’Arabia saudita e altre monarchie del Golfo, persino quella assoluta del Bahrein che ha represso la sua rivolta per la democrazia, condotta in maggioranza dai cittadini sciiti.
R. Questo intervento era atteso da tempo. L’Arabia saudita si considera un baluardo del sunnismo nella sua versione wahabita. Di fronte al massacro di tanti siriani di fede sunnita, re Abdallah e gli altri regnati del Golfo hanno voluto mandare un segnale molto forte ad Assad: non resteremo in silenzio ma agiremo con forza. Damasco perciò affronterà un pesante isolamento non solo da parte occidentale ma anche di questi paesi.
D. Non è nuovo però il protagonismo saudita.
R. Riyadh è molto coinvolta nelle vicende regionali. L’inizio della «primavera araba» ha fatto scattare l’allarme nella capitale saudita. La monarchia dei Saud ha temuto che l’onda della protesta giovanile potesse travolgerla come è avvenuto ai regimi di Egitto e Tunisia. Per questo ha agito per impedire che la rivolta araba raggiungesse il Golfo. Lo dimostra l’intervento armato in Bahrein in appoggio alla monarchia locale. Il caso siriano tutto è molto complesso. Nessun leader arabo vuole la caduta rovinosa del regime di Assad perché potrebbe innescare una guerra civile come è avvenuto in Iraq dopo l’invasione anglo-americana. Riyadh in realtà vuole vedere il regime siriano fortemente indebolito, nella condizione di dover offrire la fine dell’alleanza con Tehran in cambio della sua sopravvivenza. E rompere l’allenza con gli iraniani per Damasco vorrebbe dire dover rinunciare anche al rapporto privilegiato con il movimento sciita libanese Hezbollah. Un Assad fragile, costretto al compromesso, metterebbe fine al revival sciita al quale abbiamo assistito in questi anni di pari passo con la crescita della potenza iraniana.
D. Ma Riyadh si muove anche in Egitto, con finanziamenti ai salafiti.
R. Certo, per impedire, con il caos e l’estremismo, che il modello egiziano per uno Stato civile fondato sul diritto possa diventare regionale. I salafiti egiziani sono molto vicini al wahabismo e stanno ricevendo finanziamenti pubblici e segreti da varie fonti saudite. Rappresentativi della base religiosa più povera della nostra società, oggi i leader salafiti si dicono pronti anchre ad aprire una loro banca. Si può immagine la provenienza dei capitali. Nena News
questa intervista e’ stata pubblicata il 10 agosto 2011 dal quotidiano il Manifesto

5   SABATO 11 GIUGNO 2011

FONDI REALI PER ‘COMPRARE’ PACE E CONSENSO
Una cifra equivalente a 90 miliardi di euro per ‘comprare’ la pace sociale e contrastare i venti della ‘primavera araba’ che soffia dal Marocco allo Yemen e che ha già travolto alcuni regimi pluridecennali della regione. E’ in questo modo, scrive Neil MacFarquhar da Riad per il ‘New York Times’ , che la casa reale saudita sarebbe finora riuscita a “comprare l’ordine”, sfruttando le enormi rimesse petrolifere, e cercando “di placare le richieste della popolazione, premiando le leali istituzioni religiose del paese”. Ecco così il pagamento di due mensilità aggiuntive agli impiegati governativi, il finanziamento di mezzo milione di unità abitative, la disposizione di fondi per organizzazioni religiose, per la polizia.“Mentre gli Stati Uniti hanno fatto pressioni perché altri paesi arabi aprissero le porte al cambiamento – scrive MacFarquhar – sono rimasti pressoché silenziosi sull’Arabia Saudita e sugli sforzi del regno per spegnere le rivolte popolari nei vicini Bahrain e Oman”. Questa politica, prosegue il giornalista, ha avuto successo nel breve termine, “ma alcuni critici la definiscono un sistema di ‘comprare’ favore e, dunque, una strategia insostenibile perché non affronta i problemi di fondo”.Nonostante i miliardi investiti, la monarchia non sarebbe infatti rimasta immune dagli appelli al cambiamento: “Ci sono state almeno tre petizioni… per la costituzione di un consiglio consultivo eletto”. E se manifestazioni organizzate lo scorso 11 marzo sono ampiamente fallite, nell’est a maggioranza sciita, la polizia ha arrestato decine di dimostranti.
“I principi sauditi – prosegue l’articolo del ‘New York Times’ – si sono mossi contro il dissenso anche per altre vie, imponendo per esempio una nuova legge sulla stampa che prevede sanzioni fino a circa 140.000 dollari americani (100.000 euro circa, ndr) per crimini vagamente definiti come quello di attentato alla sicurezza nazionale”.
Nel panorama apparentemente granitico dell’Arabia Saudita qualcosa, però, si muove. Così, se è vero che le elezioni municipali rinviate dal 2009 e in programma il prossimo 29 settembre, sono considerate “la facciata di una vuota democrazia”, gruppi giovanili stanno cominciando a organizzarsi e diffondersi. Tra questi, c’è il gruppo dei giovani di Jeddah che potrebbe vincere un seggio al consiglio municipale e che si sta diffondendo in altre città: la domanda, conclude il MacFarquhar è quale impatto potranno avere e quale sarà la risposta della monarchia


8   EMIRATI: UN ESERCITO MERCENARIO PER SEDARE LE RIVOLTE, 
SOPRATTUTTO NEL GOLFO



9   Così l'Arabia Saudita conquista il Medio Oriente
E' il vincitore delle rivolte arabe senza sparare un colpo.
25 luglio 2012 - Vittorio Emanuele Parsi
Fonte: La Stampa - 23 luglio 2012
 Non hanno sparato un solo colpo, non hanno concesso nessuna sostanziale riforma, non credono nella democrazia comunque declinata e sono interessati solo all’aspetto tecnologico della modernità. Sono stati appena sfiorati dal vento delle intifadas che hanno scosso il mondo arabo, eppure sono quelli che ne hanno tratto il maggior vantaggio politico-strategico.

Nel corso degli ultimi dieci anni, i loro nemici e rivali - da Saddam Hussein agli Assad ad al Qaeda - sono stati sconfitti o drasticamente ridimensionati. Hanno rafforzato la propria egemonia sulla penisola arabica, trasformando il Consiglio di Cooperazione del Golfo in una vera e propria alleanza rivelatasi decisiva per schiacciare la rivolta sciita in Bahrein e per trovare una soluzione alla guerra civile yemenita. Hanno enormemente accresciuto il proprio ruolo nella Lega Araba e mantenuto la posizione centrale nell’Organizzazione della Conferenza Islamica da loro stessi creata nel 1970 proprio come contraltare della prima. Hanno visto estendere la propria influenza in tutto il mondo arabo attraverso il finanziamento a milizie, movimenti e partiti salafiti, che si ispirano alla concezione iper-tradizionalista dell’islam wahabita. Sono secondi solo a Israele per la forza della propria lobby a Washington, in grado di ottenere dagli Stati Uniti sistemi d’arma che l’Egitto di Mubarak non poteva neppure sognarsi e continuano ad avere ottime relazioni politico-militari con il Regno Unito, loro antico protettore.

Sono i Saud, i principi-padroni di un Paese cui han dato il nome di famiglia (Arabia Saudita): al contrario di quanto normalmente avviene per le famiglie regnanti che dalla regione prendevano il nome (Savoia, Hannover…), tanto per non lasciar dubbi sul loro modo di intendere la distinzione tra pubblico e privato. Una famiglia estesa di diverse centinaia di persone che governano lo Stato come si gestirebbe un’impresa privata, collocando i diversi membri nelle posizioni chiave del consiglio di amministrazione.

Come quasi tutte le monarchie del Golfo, anche quella saudita ricorda la Repubblica di Venezia dopo la «serrata del Maggior Consiglio» del 1297, con un ristretto ma non esiguo numero di beneficiari cui è limitato l’accesso al potere. Come Venezia, anche le monarchie del Golfo preferiscono non combattere ma finanziare altri perché combattano le proprie battaglie, e spendere piuttosto che sparare. Il denaro saudita (e qatariota) è notoriamente quello che consente ai ribelli siriani di resistere da oltre 16 mesi contro uno dei più potenti eserciti della regione, così come i loro aiuti economici hanno consentito ai salafiti egiziani di ottenere la seconda posizione nel Parlamento ora disciolto e a quelli tunisini di fare il loro (rumoroso) «debutto in società». Come Venezia, infine, anche la monarchia saudita è resiliente, ma proprio per questo estremamente difficile da riformare, perché per farlo occorrerebbe innanzitutto la sua trasformazione da «azienda familiare» a «Stato moderno». La cassaforte di idrocarburi sulla quale i Saud sono seduti rende molto più semplice continuare così, almeno per ora, «comprando» il consenso dei sudditi, piuttosto che tentare la rischiosa via di riforme liberalizzanti.

L’esito della rivoluzione siriana è particolarmente cruciale per i Saud. La caduta del regime di Damasco implicherebbe infatti la spaccatura di quell’«arco sciita» che dall’Iran, attraverso l’Iraq e, appunto la Siria, arriva fino alle coste del Libano di Hezbollah. E l’Iran degli ayatollah è il solo «nemico naturale» della monarchia saudita: proprio il fatto che entrambi fondino la legittimità del proprio potere sulla relazione strettissima e strumentale con l’islam li ha resi acerrimi nemici.
Una transizione di regime in Siria, inoltre, indebolirebbe la posizione degli sciiti di Hezbollah e potrebbe facilitare il ritorno al potere in Libano (dove i sauditi hanno giganteschi interessi) della coalizione riunita intorno al sunnita Hariri. I «guardiani della Mecca» hanno insomma una curiosa coincidenza di avversari con Israele e non a caso, finora, per gli Stati Uniti non è stato poi così difficile mantenere un discreto equilibrio tra le due più potenti lobbies di Washington (filoisraeliana e filosaudita). Ma le cose potrebbero farsi molto più complicate se, per vendicare l’attentato di Burgas, Tel Aviv dovesse decidere di colpire il Libano meridionale in maniera talmente devastante da scatenare un nuovo conflitto. Un’ipotesi che potrebbe saldare le intifadas del 2011-2012 al conflitto arabo-israeliano, e che rappresenterebbe un gigantesco grattacapo strategico tanto per Washington quanto per Riad.

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