Paolo Mossetti : Il Fenomeno Trolling nella Dialettica Servo-Padrone




(Ovvero: piccola riflessione sull’autocoscienza ai tempi di Facebook)
Tempo fa un amico mi scriveva: “Ho saputo che da qualche settimana stai litigando su Facebook con ****, che nel mondo del giornalismo italiano e’ un astro nascente. Stai attento, che per il mestiere che fai e’ pericoloso.” Non era la prima volta che ricevo consigli del genere, e non era la prima volta che ne conoscevo le ragioni. Quante volte mi sono detto: sii più  cauto, commenta solo quanto necessario; clicca “mi piace” quando non e’ compromettente; evita un linguaggio acido e polemico. Magra e’ la consolazione di non essere solo in questa debolezza. Un altro amico mi confessava:  ”Quando leggo la maggior parte dei giornali online mi faccio prendere da un moto di rabbia… A volte non riesco a fare a meno di intervenire, condividere, dire la mia. Ma per il mio lavoro e’ imbarazzante. A volte creo profili fittizi. O resto anonimo.”
Non e’ una sorpresa che la struttura dei social media, e di Internet 2.0 in generale, si basi sulla tendenza umana a condividere sensazioni e informazioni. Sulla nostra nostra incapacità  di autocontrollo, sulla nostra mancanza di disciplina interiore. Il problema e’ che i social media rendono sempre più  trasparenti le nostre vite in una cultura che fa dipendere il nostro sviluppo sociale da una miriade di segni, di dettagli, di esami da superare. Rendendoci cosi’ vittime della nostra stessa addiction.
La prima vittima di questo nuovo panopticon in cui tutti sono controllori e controllati [1], è una figura quasi universalmente detestata,  che io invece vorrei qui difendere: il troll. Il termine troll viene ormai adottato, dagli addetti ai lavori, da quelle cinquanta-sessanta firme che davvero contano nel dibattito culturale d’ogni paese europeo, nella stessa maniera in cui la politica americana agita il termine “terrorismo”: per stigmatizzare agli occhi del pubblico qualunque disturbatore di manovra. L’unico modo per sfuggire al rischio di auto-esclusione è semplice: fai il cittadino della Rete corretto e ubbidiente, rispetta la netiquette, diventa fan del guru virtuale di turno. Allora va bene. Fai numero. Se invece cadi vittima della droga che ti viene somministrata – “Buongiorno, Paolo. Cosa stai pensando?” -, rischi di finire sulla black list di qualcuno.
Un tempo leggevo una “collega” – il cui nome tacero’ per amor di patria – che descriveva senza pudore alcuno, dal suo appartamento all’ottavo piano nell’Upper West Side, Obama come un Cristo in terra. Mi chiedeva pure di fare sharing delle sue pagine. Come individuo-numero, vuoi per una logica bizzarra, vuoi per un automatismo mercantile introiettato nel nostro comportamento, le servivo. Mi sono permesso di dissentire da certi suoi sproloqui. Con ironia forse un pò caustica ma garbata. Mi ha cancellato dai contatti e bloccato.  Poi, in privato, mi ha scritto: “Io di questo lavoro ci campo. Se lo ridicolizzi, a che pro dovrei tenerti tra gli amici?” Ha ragione pure lei: in tempo di crisi, non c’è spazio per i rompiscatole e le polemiche tra poveri. E quanti amici reali ho perso, o comunque mi sono fatto nemico, per via di boutade virtuali? C’è una suscettibilità, un’irritabilità nell’aria che fa spavento. La depressione di questo decennio è che ci facciamo fare di tutto dai nostri capetti, dalle società in cui siamo impiegati, dal nostro vicino di cubicolo, poi diventiamo intolleranti e dispettosi con chi si potrebbe fare qualche bella chiacchiera vivace e qualche litigata costruttiva. Perché, come sempre, “non c’è tempo”. E il tempo che ci resta tra l’alienazione da ufficio e il martellamento pubblicitario va suddiviso tra la famiglia e… gli onnipresenti meme.
Dunque ecco la scorciatoia per il Volo-pensiero, per il Fazio-pensiero,  per la Repubblica-pensiero: un moderatismo mellifluo e ambiguo che, mantenendo una garbata distanza tra realtà e irrealtà, non fa che il gioco dell’irrealtà. Le battute della Fornero, il buonismo esasperante di certi responsabili comunicazione PD, il sarcasmo post-modernista di certi artisti, l’indignazione telecomandata di certe femministe odierne, non sono solo, anch’esse, forme subdole di trolling nei confronti del lettore: sono esternazioni irreali. Irreali in senso morantiano: espressioni di una pseudo-cultura dall’istinto auto-distruttivo e auto-estraniante che non ha nulla di umano. Tutto ciò è possibile perché, va detto, i paladini della irrealtà non hanno pudore né paura: nessuna rappresaglia possibile che ne possa intaccare le conformiste certezze.  Pensare che nel 1977 a Milano tirarono le molotov sul palco di uno scarso come Santana: erano tempi duri, per le star.
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Verrebbe in mente un aggiornamento della famosa dialettica servo-padrone di hegeliana memoria, ai tempi del troll e del VIP: il padrone-VIP, esponendosi, rinunciando all’intoccabilità dell’anonimato pur di affermare la propria opinione, ha raggiunto il suo scopo primario. Si eleva cioe’ su quello che è divenuto il suo servo-troll. Questi ha nell’anonimato – nel suo essere un numero, un’entità ininfluente – la sua caratteristica principale. Anche il servo-troll però diventa importante per il padrone-VIP, poiché dal lavorio anonimo del primo dipende il mantenimento in “visibilità” del secondo. Il servo-troll, criticando, leggendo una pagina, cliccando, condividendo, infiammando il dibattito, dà al VIP ciò di cui ha bisogno. Il padrone-VIP non riesce più a fare a meno del servo-troll. Dunque la subordinazione si rovescia: il VIP, cedendo alla patologica necessità di “comunicare” diviene troll, poiché è strettamente legato all’attività del troll medesimo. Viceversa, il troll, con il suo piccolo, costante lavorio, diviene in qualche modo padrone del VIP. In poche parole, nella dialettica troll-VIP, l’apparente superiorità del secondo non gli assicura il controllo del mondo che aveva con tanta tenacia provato a conquistare.[2]
I troll hanno dunque una precisa funzione nell’universo patologico nel quale si muovono: essere antidoto ad un perbenismo velenoso tanto quanto la volgarità gratuita.
Capisco coloro che vogliono fluttuare sopra le dispute penose e interloquire solo con la compostezza dei gentiluomini. Detto questo, ci sono volte in cui ciò che ci scorre sotto gli occhi è nettamente, terribilmente ingiusto, senza sfumature. Qui sopraggiunge il fremito tipico dell’addiction: quando qualcosa è nettamente, terribilmente ingiusto, e non sto parlando di un Toh-ha-sbagliato-la-citazione-di-Gandhi-ingiusto, devo ammettere di provare un certo piacere nell’assistere alla alla riduzione in poltiglia degli argomenti di un altro essere umano – nell’assistervi coltivo e accresco anche un corroborante pregiudizio, che e’ cosa umanissima e comprensibile.
Non c’è giorno in cui non legga qualche scrittore di una certa fama, qualche giornalista giovane o anziano lamentarsi per la quantità di bile ricevuta a margine delle loro pubblicazioni. Qual è il costo inflitto alla civiltà dai commentatori online più  sgarbati? In qualche caso non si può non convenire che con la nascita della Rete e’ morta la decenza nel disaccordo. Certo, conosciamo tutti quella tipologia di troll che, nascondendosi dietro l’anonimato, arrivano a minacciare, offendere senza ritegno, pubblicare immagini pornografiche o scioccanti, tirando in ballo affetti familiari, malattie, la derisione di difetti fisici, di lutti e di tragedie.
La verità è che, si parli dell’uccisione di soldati in Afghanistan, si scada nella crudeltà parlando di un decesso o si tratti di far sapere ad uno scrittore che ha torto marcio, il trolling è un’attività non solo inevitabile, ma direi persino salutare. Dovrebbe essere rispettata e studiata. Non perché il potere liberatorio del commento indecente sia qualcosa in più o di diverso di una delle tante patologie del nostro capitalismo – è un potere fittizio, infatti – ma perché esso ha il merito di scoperchiare la falsità dell’ “educazione” di chi si scandalizza. Se infatti uno dei mantra più  in voga tra gli “educati” è: non scrivere online quello che non diresti nella vita reale, bisognerebbe rispondere che mai, nella storia dell’umanità, siamo stati tempestati da una tale quantità di opinioni, battute, freddure, punti di vista, calati dall’alto e moltiplicati dai media. Non c’è forse molto di nobile, né di naturale, nel trolling. Ma non c’è davvero niente di naturale nemmeno nel bombastico riprodursi dell’intellettualismo odierno.
Il punto è che in un certo senso siamo in guerra. Una guerra che va aldilà delle parole. E’ una guerra che ha a che fare con l’immigrazione, la religione, la politica a livello terreno. Tutta la nostra vita è un sedersi in poltrona e lasciare che gli altri la facciano franca. Permettiamo al nostro boss di giudicarci, alla pubblicità di giudicarci, di farci intendere che non siamo importanti, non siamo unici ma piuttosto stupidi, che apparteniamo a questo e a quello, mai a noi stessi. Li vediamo ridere sotto i baffi.  Ma alcuni di noi hanno capito il vero significato dietro i loro sorrisi, dietro il loro bon-ton e la loro etichetta, dietro le loro parole, scritte o no. “Se questo è il vostro gioco, noi ci entriamo con le nostre regole e la nostra barbarie.”, potrebbe iniziare un immaginario manifesto dei troll.
***
Il VIP vorrebbe dominare il mondo nel quale esercita la sua notorietà, pretendendo rispetto delle regole, educazione e compostezza del lettore, partendo dalla premessa che egli è un suo pari. Ma è una premessa fuorviante: il lettore non pubblica, al massimo commenta, e il suo commento subisce un filtro. Anche quando il lettore si trasforma in troll, come abbiamo visto prima, e la dialettica con il VIP arriva al punto da rendere l’uno dipendente dall’altro, la distanza tra le due figure non viene mai del tutto eliminata: il lettore, che mantenga o no le sue buone maniere, rimarrà sempre marginale nel discorso che si sviluppa online. Anche un semplice rompiscatole può finire avviluppato dalla patologia di “commento ossessivo” invogliata dai social media; mentre il VIP, per quanto condizionato dal lettore, resta appollaiato, gongolante, sulla sua poltrona di titoli, contratti, protezioni e alleanze.
Il trolling è un fenomeno comprensibile verso il quale provo solidarietà. Ma che effetti ha su chi ne è vittima? In fondo, bisognerebbe solo confrontare costi e benefici. Alcune esternazioni online, benché intelligenti acute e puntuali, non sortiscono alcun effetto se non quello di costare caro a chi le scrive.  L’errore del troll, paradossalmente, è spesso quello di dire cose troppo deboli e troppo forti allo stesso tempo: troppo deboli per cambiare alcunché, troppo forti per non costargli caro in termini di esclusione.
Cosa scegliere allora? La cooptazione verso un modello di partecipazione virtuale alienata ma perlomeno non rischiosa? Quella che Hegel, nella dinamica servo-padrone, chiamava l’emergere dello stoicismo o la “coscienza infelice” del servo? Ovvero la consapevolezza di essere liberi solo virtualmente, ma non nelle realtà; di dover vivere una vita ai margini del dibattito, una vita che non s’allinea con la consapevolezza di ciò che è invece la realtà – non il freddo fact-checking giornalistico, ma una sincera vicinanza con le cose del mondo. Da qui in fondo nasce l’ossessivo cliccare e condividere indignato di siti complottisti fino al paradosso, di movimenti online populisti e di guru della controinformazione: il corrispettivo domestico del buddista che si brucia vivo o del detenuto che si lascia morire di fame.
Forse l’unica via d’uscita per il lettore che voglia essere troll senza essere servo, è nel riuscire a dominare i propri desideri, attraverso un lavorio che contenga in sé disciplina e non spreco. Il liberarsi dalla catena di montaggio virtuale dell’indignazione. Un lavorio che lasci traccia e non si disperda nell’oblio della Rete. In una sintesi: la dignità la si ritrova con l’autocoscienza aggiornata ai tempi di Facebook.
L’autocoscienza, che già  in Hegel ha valore sociale e politico e in Marx diventa coscienza di classe; l’autocoscienza che si raggiunge solo se si confronta  la nostra particolare esistenza con quella degli altri. Ebbene questa autocoscienza non si raggiunge solo attraverso lo scambio di amorevoli opinioni, bensì attraverso la lotta. Una lotta per cui, addirittura, alcuni individui arrivano a sfidare la morte sociale – oggi diremmo: la fine della carriera, l’esclusione dal consesso civile – per potersi liberare tra quelli che, al contrario, hanno paura e finiscono per subordinarsi ai padroni. Se chi pratica il trolling si dedicasse a spaccare sepolcri imbiancati senza far diventare la distruzione il proprio tratto caratteristico, senza far diventare il trolling il suo lavoro, allora gli potremmo essere ancora più vicini.
Vale la pena, in una società dove tutto è networking ed equilibrio tra consenso/assenso, prendere questione – come dicono a Napoli – per una questione di principio? Affliggere i consolati anziché consolare gli afflitti? Ribellarci all’ovvio, alla retorica – in poche parole: rompere le uova nel paniere? Nonostante tutto, nonostante la tentazione ad avere un approccio piu’ strategico e calcolatore alla vita, se fatto nei modi giusti, penso ancora di sì: forse non si raggiungeranno mai certe platee vaste e a Sanremo non finiremo mai. I prof. non ci chiameranno mai a tenere lezioni e gli amici che cercano di sfondare si guarderanno bene dal chiederci supporto. Ma qualche risata tra di noi, da pochi a pochi, nella nostra piccola tribù di non-del-tutto-alienati, ce la potremo fare ancora.
[1] `Si legga a tal proposito il bel saggio di E. Morozov The Net Delusion. Vd. http://www.prospectmagazine.co.uk/magazine/how-dictators-watch-us-on-the-web/
[2] F. Hegel, Fenomenologia dello spirito.

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