Continuare a portare in giro l’inutile spettacolo del processo di pace di Jonathan Cook

Obama e Abbas2

Per la prima volta da quando gli Stati Uniti hanno iniziato i colloqui di pace per il Medio Oriente l’estate scorsa, la dirigenza palestinese forse  percepisce  di avere un pochino di voce in capitolo.
Barack Obama la settimana scorsa ha incontrato a Washington il presidente Mahmoud Abbas  per  quella che i funzionari palestinesi hanno definito una riunione “schietta e difficile”. Il presidente degli Stati Uniti ha sperato di dissuadere Abbas dall’andare via quando tra un mese finirà il programma originario dei negoziati.
Il Presidente degli Stati Uniti e il suo segretario di stato, John Kerry, vogliono che “l’accordo quadro” così a lungo rimandato, fornisca il pretesto per tirare per le lunghe per un altro anno i colloqui già in stallo. Lo schema per la pace è probabile che ora equivalga a poco più di una serie di principi vaghi, probabilmente non scritti ai quali entrambe le parti possano dare l’assenso.
L’ultima cosa di cui ha bisogno il presidente degli Stati Uniti è che i negoziati saltino, dopo che Kerry ha ripetutamente sottolineato che trovare una soluzione per il conflitto israelo-palestinese è obbligatorio.
Il ciclo politico statunitense indica che il Partito Democratico di Obama si sta dirigendo verso le elezioni di medio termine del Congresso. Un fallimento umiliante nel processo di pace si aggiungerebbe alle percezioni che Obama sia un leader debole in Medio Oriente, in seguito a quello che è stato ampiamente presentato come il suo cedimento nei confronti con la Siria e l’Iran.
Scontri prolungati tra Israele e i palestinesi nell’arena internazionale aggraverebbero anche i guai diplomatici degli Stati Uniti in un momento in cui Washington ha bisogno di conservare le sue energie per continuare i negoziati con l’Iran e per occuparsi  della ripercussione  del suo conflitto con la Russia riguardo alla Crimea.
Obama perciò sembra impegnato a continuare a portare in giro lo spettacolo del processo di pace per un altro po’di tempo, per quanto sia consapevole della completa inutilità dell’impresa.
A questo riguardo, gli interessi statunitensi si sovrappongono a quelli del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Israele è stato il principale beneficiario degli ultimi otto mesi: la pressione diplomatica si è in gran parte sollevata; i funzionari israeliani hanno annunciato un’orgia di costruzioni di insediamenti in cambio del rilascio di poche dozzine di prigionieri palestinesi; la Casa Bianca ha gradualmente cambiato opinione andando anche  verso le rigide posizioni  di Israele.
I palestinesi, d’altra parte, non hanno nulla da mostrare per la loro partecipazione, e hanno perso molo del loro slancio diplomatico guadagnato in precedenza per avere ottenuto uno status di categoria superiore alle Nazioni Unite. Hanno anche dovuto mettere in attesa delle decisioni per entrare in molti di forum internazionali, e anche la minaccia di  incriminare Israele  di reati alla Corte Criminale Internazionale.
Abbas subisce una pressione crescente in patria per mettere fine alla farsa, mentre quattro fazioni palestinesi  la settimana scorsa avvertivano che il piano di Kerry sarebbe l’equivalente di un “suicidio” nazionale. Per questa ragione la Casa Bianca si sta concentrando sul proibire ad Abbas di dimettersi il mese prossimo – e questo richiede un’importante concessione da parte di Israele.
Si dice che i palestinesi stiano spingendo molto per l’accordo di Israele per fermare la costruzione degli insediamenti e liberare i prigionieri anziani, soprattutto Marwan Barghouti, che sembra essere il più probabile successore di Abbas come leader palestinese.
Un certo tipo di congelamento degli insediamenti a breve termine – sebbene sia profondamente sgradito ai sostenitori di Netanyahu – può essere possibile, dato il trionfo del diritto di Israele di far andare avanti, ultimamente, la costruzione degli insediamenti,  Si dice che Abbas ha regalato a Obama “una mappa molto brutta” di più di 10.000 case di coloni che Israele ha svelato dopo che sono iniziati i colloqui.
Liberare Barghouti, così come anche Ahmad Saadat, la cui fazione dell’OLP ha assassinato il ministro di estrema destra Rahavam Zeevi, nel 2001, sarebbe una pillola ancora più amara da ingoiare per il governo di Israele. I ministri del gabinetto israeliano stanno già minacciando una rivolta per il rilascio finale dei due prigionieri, previsto per la fine della settimana. Però i rapporti da Israele di domenica fanno pensare che Washington potrebbe considerare di rilasciare la spia israeliana Jonathan Pollard, probabilmente in cambio della liberazione, da parte di Israele, di altri palestinesi, in modo che i colloqui  continuino.
Le tensioni che ribollono tra Stati Uniti e Israele, sono tuttavia indicative dell’intensa pressione che viene esercitata dalla Casa Bianca dietro le quinte.
Quelle tensioni sono esplose chiaramente di nuovo la settimana scorsa quando il ministro della difesa di Israele, Moshe Yaalon ha usato un discorso per criticare aspramente la politica estera di Washington in quanto “debole”. In modo analogo, Yaalon  ha fatto infuriare la Casa Bianca in  gennaio chiamando Kerry “ossessivo” e “messianico” nel suo perseguimento del processo di pace. Però, al contrario dell’altro incidente, Washington si è rifiutata di lasciar cadere la cosa, e ha chiesto con rabbia delle scuse esplicite.
La pressione da parte della Casa Bianca, tuttavia, non è intesa principalmente a forzare le concessioni da parte di Israele su un accordo. Dopo tutto, il parlamento israeliano ha approvato questo mese la cosiddetta legge del referendum, considerata dalla destra come una polizza assicurativa. Dà al pubblico israeliano, allevato con l’idea di Gerusalemme come esclusiva “capitale eterna” di Israele, un voto per decidere se condividerla con i palestinesi.
L’obiettivo di Washington è più modesto: pochi altri mesi di quiete. Ma anche in base a questo calcolo, data l’intransigenza di Netanyahu, i colloqui presto o tardi imploderanno. E allora?
Obama e Kerry hanno stabilito uno scenario convincente che nel lungo termine Israele si troverà a essere rifiutato  dal mondo. La dirigenza palestinese presenterà la sua causa all’ONU, mentre invece i movimenti popolari dentro e fuori dalla Palestina
cominceranno a chiedere a gran voce un singolo stato garantendo l’uguaglianza tra
gli ebrei israeliani e i palestinesi. L’opposizione veemente e aggressiva su entrambi i fronti servirà soltanto a danneggiare la sua immagine, e le sue relazioni con gli Stati Uniti.
Una voce inaspettata in appoggio della soluzione di un solo stato, è emersa la settimana scorsa quando Tareq Abbas, il figlio quarantottenne del presidente palestinese, ha detto al New  York Times che una lotta per pari diritti in un solo stato sarebbe “il modo più facile e più pacifico”.
Sostenendo l’argomento di Washington che queste pressioni non possono essere tenute sotto controllo per sempre, un sondaggio di questo mese riguardo all’opinione pubblica degli Stati Uniti, ha rivelato una conclusione allarmante. Malgrado il clima politico negli Stati Uniti sia di impegno per la soluzione dei due stati, quasi due terzi degli Americani sostengono un unico stato democratico per ebrei e palestinesi se uno stato palestinese si dovesse rivelare irrealizzabile. Questa opinione è condivisa da più di metà dei sostenitori di Israele negli Stati Uniti.
Questo costituirebbe un cambiamento rivoluzionario che si avvicina ogni giorno di più, mentre il processo di pace finisce balbettando nell’irrilevanza.
Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale  Martha Gellhorn per il Giornalismo.  I suoi libri più recenti sono: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [ Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) e Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [La Palestina che scompare: gli esperimenti di Israele di disperazione umana] (Zed Books).  Il suo nuovo sito web è: www.jonathan-cook.net.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata su The National, ad Abu Dhabi.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org

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