Libano. Storia di Mohamed


La storia di Mohamed somiglia a quella di molti altri siriani costretti a lasciare il paese. Se non fosse che è scappato dal campo di Yarmouk, alla periferia di Damasco, dove vivevano fino alla fine dello scorso anno 170mila rifugiati palestinesi giunti dal 1948 in poi.


Mohamed ha trentaquattro anni. A gennaio dello scorso anno assieme a sua moglie è fuggito dalla Siria a causa della guerra.
La sua storia somiglia a quella di molti altri siriani costretti a lasciare il paese. Se non fosse che Mohamed è scappato dal campo di Yarmouk, alla periferia di Damasco, dove vivevano fino alla fine dello scorso anno 170.000 rifugiati palestinesi giunti dal 1948 in poi.
Il più grande e popoloso campo profughi della Siria, e anche il migliore in termini di servizi e di qualità abitativa, nel dicembre del 2012 è stato trascinato, non per volontà dei suoi abitanti, negli scontri tra sostenitori pro e anti regime diventando una delle zone più calde del paese.
Da allora in tanti sono scappati.
A Yarmouk oggi sono rimaste 70.000 persone. Per la seconda volta nell’arco di cinquant’anni i profughi del campo si sono ritrovati ad essere nuovamente rifugiati.
Giordania, Iraq, Libano e Turchia sono i paesi che nell'ultimo anno hanno visto l'afflusso dei profughi siriani farsi di giorno in giorno più consistente. Da Damasco per arrivare a Beirut ci vogliono due-tre ore di viaggio. I 400 chilometri di frontiera che i due paesi condividono hanno fatto del Libano il paese che al momento accoglie il più alto numero di rifugiati siriani: 1.300.000 secondo le stime del governo.
E’ il paese più vicino e, nei campi libanesi (12 sono quelli riconosciuti dall'UNRWA), qualsiasi palestinese di Damasco ha almeno un parente che vi si è stabilito nella metà del secolo scorso.
Mohamed si è rifugiato con sua moglie a Tiro, uno dei luoghi più belli del Libano dove è possibile trovare spiagge incantevoli e dove il mare nelle giornate migliori offre allo sguardo sfumature stupefacenti.
Oltre a queste meraviglie naturali la cittadina ospita il campo profughi di Bourj al-Shemali dove vivono 20.000 rifugiati palestinesi, perlopiù ignorati dal governo ad eccezione degli anni della guerra civile.
Nelle innumerevoli file fatte per ottenere i primi aiuti Mohamed ha conosciuto gli operatori di Beit atfal al-Sumud, che sin dall'inizio si sono messi al lavoro per fornire un sostegno alla popolazione profuga. Poi con il tempo ha cominciato ad apprezzare l'enorme lavoro realizzato dall'associazione negli ultimi 40 anni, e a maggio è entrato a far parte dello staff del centro di Borj al-Shemali. Gli è stato assegnato il ruolo di responsabile del settore che accoglie i rifugiati siriani.
Questa è una breve intervista sul suo lavoro e sulle attività promosse da Beit atfal al-Sumud, con la quale Un ponte per ... lavora da dieci anni.
Quante famiglie siro-palestinesi vivono attualmente nel campo?
Al momento sono state registrate 1.200 famiglie, con una media di 4 membri per nucleo familiare. Quindi circa 4.800 - 5.000 persone.
E’ un numero importante se pensiamo che la popolazione totale del campo prima della guerra in Siria si attestava sulle 20.000 persone. Il problema non è solo riuscire a dare un aiuto a queste famiglie ma riuscire a rintracciare quanti per paura non si sono registrati e dunque sono in una posizione di estrema fragilità perché automaticamente vengono tagliati fuori dall’assistenza primaria e per loro il rischio è di trovarsi costretti ad accettare condizioni di lavoro degradanti pur di riuscire ad avere i soldi per comprare da mangiare.
Da quando al-Sumud ha iniziato a assistere i rifugiati siriani?
Immediatamente dopo i primi arrivi, quindi dal dicembre 2012, all’epoca l’afflusso era ancora contenuto ed era molto più semplice riuscire a fornire un supporto alle famiglie in difficoltà. Adesso la situazione è mutata radicalmente, siamo di fronte ad un lavoro immane, direi impossibile da gestire.
Anche coordinandoci con altre Ong o associazioni locali per essere più effettivi, non riusciamo a raggiungere la totalità della popolazione che si è rifugiata nel campo. Condividiamo i dati raccolti per avere un quadro più vicino alla realtà sul numero dei rifugiati e sulle necessità delle singole famiglie.
Sino ad oggi siamo arrivati a includere 500 famiglie, ma questo significa che altre 700 restano tagliate fuori. Al-Sumud da sola ne segue 200. Ogni giorno lunghe code si formano fuori dal nostro centro; sono persone che chiedono un aiuto. Accontentare tutti sarebbe il nostro obiettivo, ma la realtà è un’altra; senza il contributo del governo e della Comunità internazionale è impossibile anche solo pensare di destinare un poco, il minimo indispensabile a tutti. A volte ci accorgiamo che quello che ricevono da noi è, per alcune famiglie, il primo aiuto da quando hanno messo piede in Libano.
UNRWA distribuisce i kit alimentari, abbigliamento, buoni e voucher ogni tre mesi. Non basta. Gli aiuti in denaro non sono sufficienti a pagare gli affitti.
Quali sono i problemi principali che i siriani affrontano ogni giorno?
Sicuramente le spese per l’affitto.
Circa il 30% vive in case che non possono essere considerate tali. Ormai anche la sistemazione peggiore, una baracca di ondulato dove magari ci si vive in 8 può arrivare a costare oltre 150 dollari. L’affitto è il problema più pressante per quasi ogni famiglia arrivata nell'ultimo anno nel campo. A volte dopo la distribuzione degli aiuti, vediamo che alcune persone rivendono i kit che gli sono stati appena consegnati. Non lo fanno perché hanno già del cibo, coperte, stufette, o fornelli da campeggio, ma perché non hanno soldi a sufficienza per pagare la pigione. Avere un tetto anche malridotto sopra la testa è la priorità di tutti.
Quali sono le attività promosse nei centro di al-Sumud?
Per i bambini abbiamo avviato classi temporanee, visto che le scuole sono affollate e molti minori quest'anno non sono potuti andare a scuola. Abbiamo istituito tre classi rispettivamente per la prima, la seconda e la terza elementare. Inoltre abbiamo aggiunto due classi d’asilo. Nel pomeriggio i più piccoli partecipano ai laboratori di riciclaggio, costruiscono da soli i loro giocattoli. Ci sono poi laboratori di disegno, di recitazione e di musica. Se ci accorgiamo di casi difficili, di bambini che sono rimasti traumatizzati, prima parliamo con i genitori e con il loro assenso facciamo in modo che un equipe di psicologi si prenda cura di loro.
I più grandi vengono indirizzati ai corsi di formazione professionale che possono durare un anno oppure quattro mesi. Distribuiamo cibo, coperte, vestiti e buoni alle famiglie. Attualmente lavorano nello staff due ragazze siriane che insegnano all'asilo e uno psicoterapeuta è stato inserito nell'equipe di psicologi.
A differenza di altre associazioni che hanno scelto di lavorare solo con i bambini, noi ci siamo rifiutati di farlo e accogliamo nei nostri ambulatori e nei nostri consultori anche gli adulti. Ma da soli non possiamo farcela. La comunità internazionale deve promuovere un dialogo tra le parti in Siria, lavorare per la fine del conflitto e destinare più aiuti alla popolazione profuga.
Come hanno reagito i palestinesi di Bourj al-Shemali all'arrivo dei profughi?
Inizialmente bene, alcuni li hanno ospitati o gli hanno destinato una camera senza che pagassero l'affitto. Altri hanno distribuito acqua e cibo. Ma la maggior parte della popolazione qui è povera e non può dare molto e per un periodo lungo. C'è anche stato chi non li ha accettati e non li accetta tuttora perché i profughi pur di lavorare accettano trattamenti economici inferiori.
E la società libanese come sta reagendo?
La società libanese non entra nei campi, tranne quei rarissimi casi di persone che lavorano per associazioni locali o ong.
E dunque la gente in Libano si confronta soprattutto con i rifugiati che vivono al di fuori dei campi stessi. In principio c'era maggiore sensibilità e attenzione, adesso la situazione è più critica e c'è chi pensa che i rifugiati siriani porteranno la guerra nel paese … Il libano sta attraversando una crisi economica e politica profonda. Dal 2005 si sono susseguiti 5 governi. Negli ultimi mesi ci sono stati tre attentati. Tutti vivono nel timore che si possa scivolare in un nuovo conflitto confessionale. Non è facile per nessuno.
Cosa avete fatto per rendere più serena la convivenza nel campo di bourj al-Shemali?
Abbiamo pensato di iniziare dai bambini. Hanno meno preconcetti degli adulti e sono quindi meno condizionati. Comunicano più liberamente e fanno squadra subito. Sono stati organizzati dei giochi di gruppo a cui partecipavano palestinesi libanesi e palestinesi siriani; non è stato facile, c'erano dei bambini che in principio non volevano partecipare ma poi non hanno saputo resistere al gioco. Partendo dai bambini è stato più facile arrivare agli adulti, ma c'è ancora tanto da fare.

*Paola Robino Rizet è responsabile del Progetto di Sostegni a distanza di Un ponte per…
01 Febbraio 2015
di: 
Paola Robino Rizet*
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