DOPO IL SIONISMO, LE RADICI EVANGELICHE DELL’ALLEANZA USA-ISRAELE



 
 
 
 
 
1. NESSUNA RELAZIONE TRA DUE PAESI IN MEDIO Oriente suscita lo stesso interesse e lo stesso fascino come quella tra Israele e Stati Uniti. I critici…
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Nato per scopi geopolitici, l’asse tra Washington e Gerusalemme è sorretto dall’influente analogia protestante fra la «città sulla collina» americana e il Vecchio Testamento. L’esistenza dello Stato ebraico come pilastro dell’escatologia protestante.
di Morris M. Mottale
1. NESSUNA RELAZIONE TRA DUE PAESI IN MEDIO Oriente suscita lo stesso interesse e lo stesso fascino come quella tra Israele e Stati Uniti. I critici sostengono che la politica estera americana subisca una sorta di controllo ebraico, benché si possa ugualmente rilevare che sia Washington a direzionare quella dell’alleato mediorientale1. Parte di questa attenzione è dovuta al fatto che il Medio Oriente viene costantemente collegato, a torto o ragione, a Israele, agli ebrei in generale e per certi versi al conflitto arabo-israeliano, nonostante l’esistenza di altre profonde fratture tra gli Stati arabi o al loro interno, fra questi e l’Iran, fra gli sciiti e i sunniti. Tant’è vero che fino a poco tempo fa i tentativi di sanare le crisi regionali si focalizzavano sulla soluzione del contenzioso tra israeliani e palestinesi. Inoltre, durante la guerra fredda, il conflitto arabo-israeliano era diventato uno dei teatri più caldi della competizione sovietico-americana. Nel 1974, per esempio, nessuno Stato comunista, a eccezione della Romania, riconosceva Israele. Né lo facevano potenze come India e Cina, benché quello di Delhi fosse un riconoscimento di fatto. Diversi paesi africani, in seguito alla sconfitta egiziana nel 1967, interruppero le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Nel tempo, infine, la disputa si è sovrapposta, soprattutto dopo la guerra dei Sei giorni, al terrorismo internazionale.
Una dimensione cruciale dell’attenzione rivolta in America allo Stato ebraico è la religione. Tutte le ramificazioni della cristianità, anche le più recenti, fanno risalire la genesi della propria fede al Vecchio Testamento e all’opaca memoria di tribù perdute. Un esempio è il rastafarianismo: nato nei Caraibi nel XX secolo, il movimento collegava la ricerca di identità, storia e autenticità alla deificazione di Hailé Selassié. L’ultimo padrone d’Etiopia si faceva chiamare «leone di Giuda» e sosteneva di essere il discendente della biblica unione tra il re Salomone e la regina di Saba2. Essendo anche Gesù un discendente della casa di Davide, il monarca rafforzava ulteriormente la sua pretesa di legittimazione divina. Ancora oggi, per provare a ottenere la qualifica di immigrato legittimo in Israele, alcune popolazioni birmane o indiane si richiamano a una discendenza giudaico-tribale e si descrivono come ultime depositarie di una specifica identità ebraica. Altro potente esempio, i mormoni, nati nell’America del XIX secolo e caratterizzati da fortissime connessioni teologico-dinastiche all’antico Israele3. Movimenti del genere nacquero anche in Inghilterra. Di conseguenza, il protestantesimo nel mondo anglo-americano, vista la sua insistenza sulla Bibbia, non poteva non prendere di petto la relazione tra gli ebrei e la cristianità4.


2. Oggi le analisi storiche e politiche si concentrano sull’ascesa del movimento sionista nel XX secolo, ma così facendo trascurano le sue dimensioni bibliche, che risalgono alla distruzione da parte dei romani dello Stato ebraico nel I secolo dopo Cristo. La fondazione degli Stati Uniti deve molto della sua legittimazione ideologica e religiosa alla Bibbia. I primi coloni del New England si ispiravano al Vecchio Testamento e gli echi del puritanesimo nelle sacre scritture spinsero gli esponenti utopisti del calvinismo inglese a vedere l’esperimento americano come una ricostruzione di un’utopia politica plasmata dai precetti e dai valori della Bibbia. Nel fondamentale sermone del 1630 City Upon a Hill del leader puritano John Winthrop, la fondazione di un nuovo mondo cristiano è legittimata da una radicale visione biblica calvinista. L’impresa puritana nell’America del Nord era paragonata alla lotta tra i primi israeliti dell’èra di Mosè e alla lotta dei popoli di Israele per la libertà, nel solco dell’alleanza con Dio enunciata dal Vecchio Testamento5. Nella stessa Inghilterra il governo di Oliver Cromwell aveva approvato leggi per consentire il ritorno degli ebrei sull’isola dopo l’espulsione del 1290.
L’influenza protestante sui valori civili americani è sempre stata riconosciuta dagli studiosi e certamente molti tratti associati al calvinismo derivano non solo dalla Bibbia e da come Calvino ne interpretava alcuni passaggi utili al suo messaggio, ma anche da analogie tra i comportamenti economici dei puritani e quelli degli ebrei. Questo fenomeno fu oggetto del grande dibattito sulle origini del capitalismo, fra il XIX e l’inizio del XX secolo, i cui principali protagonisti furono Werner Sombart e Max Weber.
Nella storia precoloniale americana, diversi ebrei sefarditi si erano trasferiti a New York e nel Sud, radicando così una comunità giudaica prima che lo scoppio della guerra rivoluzionaria portasse Oltreoceano molti ebrei ashkenaziti. L’emigrazione di massa dall’Est Europa a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, conclusa nel secondo dopoguerra, fece il resto. Il legame protestante con il giudaismo non fu intaccato dagli sviluppi intellettuali europei di fine XIX secolo, dal razzismo al nazionalismo, che vedevano gli ebrei come il centro di una cospirazione per la supremazia politico-sociale. Anzi, nonostante i sentimenti antisemiti fossero diffusi anche nell’America di allora, queste tendenze rafforzarono l’interesse per la storia e la religione ebraica.


3. Il coinvolgimento politico e militare americano in Medio Oriente risale a molto tempo prima di quanto si pensi normalmente. «Dalle sale di Montezuma alle coste di Tripoli», recita l’inno del corpo dei marines, riferendosi nella seconda parte alla cattura nel 1807 di alcuni cittadini americani da parte dei pirati. In seguito, gli Stati Uniti, alla fine del XIX secolo, espressero il loro sdegno per il massacro dei cristiani dai Balcani all’Armenia nell’impero ottomano. Nel 1919, in seguito al crollo degli imperi centrali e alla disintegrazione della Sublime Porta, il presidente Wilson propose, tra gli altri tentativi di creare un nuovo sistema internazionale, l’idea di uno Stato curdo. Nel frattempo, i britannici avevano già acconsentito nel 1917 alla creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina con la controversa Dichiarazione Balfour. La seconda guerra mondiale vide nuovamente gli Stati Uniti impegnarsi nelle terre arabe, dal Marocco al Golfo Persico, intervenendo in Iran con l’aiuto britannico per impedirne la conquista da parte dei nazisti. Nel 1946, Washington e Londra spinsero l’Unione Sovietica fuori dalle terre azere di Persia e nel 1948 sostennero la spartizione della Palestina e la creazione di Israele.
Quando il 14 maggio 1948 nacque lo Stato di Israele, l’amministrazione Truman offrì il suo riconoscimento, ma fu la Francia, non Washington, ad assumere il ruolo di principale sponsor politico e fornitore di armamenti dello Stato ebraico per i successivi vent’anni. Il dipartimento di Stato americano fu addirittura molto freddo nei confronti della formazione di Israele, ma le simpatie per i giudei e il problema dei rifugiati ebrei in Europa scavalcarono tutte le riserve sulla nuova entità, anomala agli occhi di diversi osservatori6.
Prima della seconda guerra mondiale, la grande maggioranza degli ebrei negli Stati Uniti rigettava il sionismo come movimento politico. Le organizzazioni sociali e religiose giudaiche erano infatti contrarie alla creazione di un’entità statuale. La sua nascita fu invece in grado di attirare l’interesse religioso di diverse denominazioni protestanti, che la collegavano alle eredità puritane e calviniste della fondazione dell’America.
La dimensione religiosa, tuttavia, non risultò immediatamente in un corrispettivo interesse politico degli Stati Uniti nei confronti di Israele. Incrociando le spade con l’Unione Sovietica nella guerra fredda, gli interessi di Washington trascendevano ogni tipo di Stato. La dottrina Truman originariamente si focalizzava su Grecia e Turchia, per aiutarle a sopportare le pressioni sovietiche. Inoltre, gli americani individuarono un interesse nell’Iran, direttamente confinante con l’Urss, tanto da creare nel 1955 un’alleanza di nome Cento, nella quale figuravano anche Pakistan e Iraq. Le relazioni con Israele invece si raffreddarono in più di un’occasione, come nel caso dell’affaire Lavon o della crisi di Suez, nella quale Washington obbligò lo Stato ebraico a ritirarsi dal Sinai e Francia e Gran Bretagna ad abbandonare le residue ambizioni imperiali sul Vicino Oriente.
Il rapporto con Israele assunse importanza strategica solo dopo la guerra del giugno 1967. In questo periodo, le relazioni sovietico-americane divennero sempre più problematiche a causa dell’intervento di Washington in Indocina e dell’invasione guidata da Mosca della Cecoslovacchia nel 1968. L’aumento della presenza dell’Urss in Egitto, Siria, Iraq, Libia e Sudan spostò l’interesse strategico americano verso Gerusalemme. Fino al 1968, era stata la Francia a procurare a Israele gli armamenti e, quando Parigi decise di promuovere i suoi interessi nel mondo arabo, gli Stati Uniti assunsero il ruolo di primo fornitore di sicurezza7. Da quel momento, l’obiettivo primario divenne impedire ai sovietici di prendere il potere nell’area; a tale scopo, Washington sosteneva i regimi conservatori.
A partire dagli anni Settanta, gli Stati Uniti e l’Occidente in generale dovettero confrontarsi con un nuovo fenomeno, oggi genericamente definito fondamentalismo islamico8. Da quel momento, il mondo islamico è stato testimone della nascita di movimenti dedicati, almeno pubblicamente, alla distruzione della civiltà americana e occidentale. La rivoluzione iraniana e le tre guerre del Golfo (1980-88, 1990-91, 2003) sono state lo sfondo della politica estera statunitense in Medio Oriente. Si sono sovrapposte al conflitto arabo-israeliano e alla preoccupazione euro-giapponese per la stabilità delle riserve petrolifere.
A partire dalla cosiddetta primavera araba la regione è entrata in un ciclo di instabilità ancora maggiore, caratterizzato dalla violenza politica e dalle guerre regionali. La nascita dello Stato Islamico a cavallo di Siria e Iraq ha fatto il paio con l’ascesa di un movimento sciita che articola le ambizioni imperiali persiane nella Mezzaluna fertile, in Yemen, in Libano e in Palestina. Le rivolte arabe hanno visto gli Stati Uniti oscillare verso movimenti venati dalla religione, come i Fratelli musulmani, che hanno incontrato il favore di alcuni ambienti della politica americana. Compreso lo stesso presidente Obama, inizialmente apparso propenso a incoraggiare il governo di Erdoğan in Turchia, Mursī in Egitto e pure degli islamisti in Tunisia e in generale i segmenti sociali religiosi favorevoli a una crescente islamizzazione.
Mentre gli Stati Uniti tentavano di accelerare i negoziati nucleari con l’Iran, Washington si trovava ai ferri corti con Israele e gli Stati arabi sunniti, soprattutto con l’Arabia Saudita e i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, non proprio a loro agio con questo riavvicinamento a Teheran. I mullah sono arrivati a controllare diverse capitali arabe, nella fattispecie Baghdad, Damasco e Beirut. Ma a fare più notizia negli Stati Uniti era l’acrimonia tra il governo israeliano di Netanyahu e l’amministrazione americana, con il premier di Gerusalemme che interveniva direttamente nelle diatribe politiche tra il Congresso repubblicano e l’esecutivo democratico. Negli Stati Uniti, nonostante l’approvazione dell’accordo di Vienna, resta forte l’opposizione e lo scetticismo a proposito delle buone intenzioni iraniane, dal momento che pubblicamente Teheran continua a minacciare Israele.

4. Alla fine degli anni Sessanta non si verificò soltanto una svolta geopolitica nel rapporto tra America e Israele. Nel 1968, il panorama politico statunitense vide l’ascesa del movimento evangelico, in seguito uno dei pilastri principali del cosiddetto neoconservatorismo. L’eredità calvinista e puritana e l’idea dell’eccezionalismo americano alimentarono la pressione a favore di un legame con Gerusalemme che trascendesse le considerazioni strategiche, economiche e politiche. L’esistenza dello Stato ebraico venne interpretata da molti leader e denominazioni protestanti come parte dello speciale piano di Dio per gli Stati Uniti. Il raggiungimento delle aspettative messianiche cristiane era collegato al ritorno degli ebrei in Israele e alla prosperità della nuova entità9.
Molti evangelici vedevano il sostegno allo Stato ebraico come condizione necessaria per avverare le profezie sul secondo avvento di Cristo. Il ritorno dei giudei in Terrasanta era un capitolo fondamentale nella visione escatologica del mondo di milioni di protestanti. Ad attingere a questo bacino elettorale fu il Partito repubblicano che, grazie al suo conservatorismo sociale a proposito di famiglia, religione e sistema politico-economico decentralizzato, aveva un certo richiamo presso la classe lavoratrice bianca e protestante.
Sempre in questo periodo nacquero i neoconservatori. Si trattava principalmente di intellettuali e accademici delusi dalle tendenze liberali nel sistema economico e in quello del welfare. Essi ritenevano necessario reagire alla crisi sociale ed economica con un ritorno a valori più tradizionali, aiutato e implementato dal governo federale. Divenne fondamentale la convinzione che molti problemi sociali americani, dal crimine alla povertà, dai fallimenti dell’educazione alla disintegrazione delle famiglie, fossero il risultato dell’allontanamento dai valori cristiani. Niente descrive meglio questo fenomeno degli aspri dibattiti su aborto, matrimoni omosessuali e liberalizzazione delle droghe. La maggiore insistenza sui valori sanzionati dalla Bibbia rese inevitabile ai gruppi evangelici considerare maggiormente l’esistenza dello Stato di Israele, peraltro alleato americano contro l’Unione Sovietica. Alcuni leader politici americani di entrambi i partiti iniziarono a farsi portavoce del sostegno a Israele per aumentare i propri consensi. Una postura rafforzata dalla nascita del terrorismo radicale arabo-palestinese a partire dagli anni Settanta, che fece aumentare il supporto allo Stato ebraico e le diffidenze verso il mondo islamico.
Dal 1968 in poi, i leader evangelici di orientamento repubblicano divennero veri e propri lobbisti degli aiuti a Israele, sebbene, paradossalmente, gli ebrei americani mainstream propendessero sempre più per il Partito democratico. Lo Stato ebraico resta oggi un’importante meta del turismo religioso americano. Benché lo stesso possa dirsi per l’Europa e la Russia, nel caso degli Stati Uniti la presenza religiosa, culturale e linguistica rafforza il rapporto speciale tra Gerusalemme e Washington. E l’influenza americana nella Terra Promessa.

5. Per qualunque osservatore o analista delle relazioni israelo-americane, la sfida è capire se si possa affermare definitivamente che esse subiscano le influenze veterotestamentarie, eco delle radici cristiane dell’esperimento politico statunitense. Dal punto di vista del realismo classico, la risposta non può che essere negativa; tuttavia, per riscontrare il legame biblico, è necessario adottare una prospettiva idealista. Le dinamiche del processo decisionale nella politica estera americana, infatti, rispondono spesso ai valori radicati nelle aspettative dell’opinione pubblica statunitense.
Nonostante l’inevitabile pluralità delle posizioni, i valori popolari americani sono vicini alle posizioni degli idealisti sulle relazioni internazionali. A partire dalle idee sulla natura umana come essenzialmente buona e altruista, rafforzate dalle nozioni cristiane di carità e benevolenza. Intrinseca a questa particolare premessa è l’idea che il progresso sia possibile, che la civiltà umana sia destinata a uno sviluppo storico positivo. Questo impianto liberale può essere meglio inquadrato grazie al prisma intellettuale di Immanuel Kant, che prospettava un mondo libero dalla guerra e governato da leggi e convenzioni internazionali. Capire quanto questa visione sia plasmata dalle influenze bibliche, per esempio dalla visione profetica di Isaia nel Vecchio Testamento, aiuta a rintracciare l’eredità degli ideali giudaico-cristiani, ma è un interrogativo spesso trascurato da politologi e storici. I movimenti politici nazionali, come quello per i diritti civili, sono stati influenzati dalla retorica biblica, articolata da leader liberali sia bianchi sia neri, come Martin Luther King jr.
È un fatto che la maggiore comunità ebraica al di fuori di Israele risieda negli Stati Uniti. Ma rappresenta solo il 2% dell’elettorato americano: la spiegazione dell’inclinazione di Washington verso Gerusalemme non può essere costruita solo in termini di influenza giudaica alle urne. Può essere valida in alcune aree urbane, ma non getta luce sulle trasversali e diffuse simpatie popolari nei confronti di Israele. È anche vero che l’evoluzione della politica estera americana in Medio Oriente ha portato a riconoscere in Israele un alleato affidabile e che l’ideologia a stelle e strisce fondata su democrazia, libertà e Stato di diritto favorisce una certa propensione per Gerusalemme. Ma lo stesso potrebbe dirsi per Canada, Australia e persino qualche paese europeo, dove la popolazione ebraica è altrettanto contenuta e di scarso peso elettorale. In questa prospettiva, si potrebbe aggiungere, gli ebrei nel mondo sono pochi (sono meno di 15 milioni10) e quelli che vivono al di fuori di Israele sono culturalmente, linguisticamente e politicamente integrati nelle nazioni di residenza. Inoltre, il commercio euro-americano con il mondo arabo-islamico è decisamente superiore alle relazioni economiche con Israele. Le simpatie dei presidenti e del Congresso in America non possono dunque essere spiegate solamente in termini politico-economici.
È necessaria una spiegazione ideologica. La costante attenzione delle scienze sociali per le strutture e gli interessi economici – che tradisce un certo grado di determinismo – non spiega, soprattutto nel caso americano, il sostegno all’esistenza dello Stato ebraico. La persistenza del supporto di Washington a Gerusalemme smentisce la premessa realista che esso non sia un «interesse nazionale americano». L’unica alternativa è adottare una prospettiva idealista, in questo caso di tipo biblico-religioso. Benché i mass media possano amplificare la portata di alcuni problemi regionali, i persistenti riflettori su Israele indicano un interesse di tipo ideale, che trascende altre contingenze politico-economiche del sistema internazionale.
La spinta della religione a simpatizzare per i dilemmi della sicurezza dello Stato ebraico potrà anche diminuire nel futuro, vista l’erosione, a causa dell’immigrazione, dei valori cristiani, protestanti e anglo-americani che ancora oggi plasmano il sistema politico americano. Ma, per il momento, persistono le fratture politiche in America tra conservatori e liberali che vedono i primi sostenere valori sociali e religiosi e che condizionano a loro volta le simpatie per Israele. Nonostante l’identificazione con i valori religiosi protestanti spinga il Partito repubblicano a una politica filoisraeliana, nei contesti competitivi della politica americana anche il Partito democratico è costretto per motivi di consenso elettorale a distanziarsi da politiche interpretate dalla maggioranza della popolazione come antisraeliane.
L’esistenza dello Stato di Israele in Medio Oriente ha sempre dovuto fare i conti con una notevole insicurezza esistenziale. L’area sta diventando sempre più caotica e l’ascesa del radicalismo islamico sta riscrivendo la geografica politica e l’equilibrio di potenza tra sciiti e sunniti e tra paesi arabi e non arabi. Anche dal punto di vista realista, è nell’interesse nazionale statunitense poggiarsi su un alleato che gode della simpatia della popolazione americana e ne condivide gli ideali religiosi. Così, paradossalmente, nonostante alcuni tentativi di Washington di spostare l’equilibrio dei propri interessi nazionali verso il mondo islamico e delle proprie relazioni diplomatiche verso l’Iran, il rapporto con Gerusalemme persiste. Realismo e idealismo si sovrappongono.
(traduzione di Federico Petroni)
1. È voluminosa la letteratura sull’influenza ebraica sulle relazioni internazionali, sul sistema bancario, sulla politica estera americana e sui mass media nordamericani, europei e islamici. La genesi di questa produzione è l’ascesa del moderno antisemitismo e razzismo nel XIX secolo. Il migliore esempio è Protocols of the Learned Elders of Zion. Per una versione più sofisticata, si veda P. FINDLEY, They Dare to Speak Out: People and Institutions Confront Israel’s Lobby, Chicago 2003, Laurence Hills Books. Per un lavoro più recente, si veda J.J. MEARSHEIMER, S.M. WALT, The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy, New York 2008, Farrar Straus and Giroux. Un contraltare che argomenta come il filoisraelismo sia insito nella cultura politica americana è J. RYNOLD, The Arab-Israeli Conflict in American Political Culture, Cambridge 2015, Cambridge University Press.
2. Si veda per esempio, R. PANKHURST, The Ethiopians: A History, London 2001, Blackwell, soprattut- to la prima parte sulle origini mitico-bibliche.
3. Cfr. C. LONDON, Far From Zion: In Search of a Global Jewish Community, New York 2009, Harper- Collins, cap. 2. Per una prospettiva mormona sulla teologia del movimento, si veda C.R. HARRELL, This Is My Doctrine: The Development of Mormon Theology, Salt Lake City 2011, Greg Kofford Books. Per una storia critica della Chiesa degli ultimi giorni si veda R. ALBANES, One Nation Under Gods: A History of the Mormon Church, New York 2003, Basic Books; D.M. QUINN, Early Mormoni- sm and the Magic World View, Salt Lake City 1998, Signature Books. Per una biografia del movimen- to mormone, si veda F.M. BRODIE, No Man Knows My History: The Life of Joseph Smith, New York 1995, Vintage. È molto probabile che Joseph Smith fosse influenzato dalle logge e dalle credenze massoniche; in questo contesto, bisogna ricordare che la massoneria fa risalire le sue origini ai tem- pi di Salomone.
4. Bisogna anche notare, in questa tradizione, la quasi totale assenza dell’islam e di altre religioni.
5. Anche qui la letteratura è voluminosa, si veda per esempio P. MILLER, The New England Mind: The Seventeenth Century, Boston 1983, Belknap Press. Per una prospettiva moderna, J. SLEEPER, «American Brethren: Hebrews and Puritans», World Affairs, autunno 2009.
6. Per un’introduzione sul ruolo di Truman nella fondazione di Israele, si veda R. RADOSH, A. RADO- SH, A Safe Haven: Harry S. Truman and the Founding of Israel, New York 2010, HarperCollins Pu- blishers. Per una storia del ruolo americano in Medio Oriente, si veda M. OREN, Power, Faith, and Fantasy: America in the Middle East: 1776 to the Present, New York 2008, W.W. Norton & Company, Inc. Un’eccellente introduzione alla storia del sionismo moderno in H.M. SACHAR, A History of Israel: From the Rise of Zionism to Our Time, New York 2007, Random House, Inc.
7. Per un’introduzione al coinvolgimento americano nel conflitto arabo-israeliano, si veda W.B. QUANDT, Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict since 1967, Berkeley 2005, University California Press, 3a ed.; si veda anche, E.R.F. SHEEHAN, The Arabs, Israelis, and Kis- singer: A Secret History of American Diplomacy in the Middle East, 1976, Readers Digest Press. Stan- do a questo libro, è durante gli anni di Nixon che gli Stati Uniti vennero attivamente coinvolti nella soluzione del conflitto.
8. Si veda l’articolo di B. LEWIS, «The Return of Islam», Commentary, gennaio 1976.
9. Per un’analisi critica e una prospettiva liberale sul neoconservatorismo e sul fondamentalismo protestante, si veda S. FRIEND HARDING, The Book of Jerry Falwell: Fundamentalist Language and Po- litics, New Jersey 2001, Princeton University Press.
10. Cfr. S. DELLA PERGOLA, World Jewish Population, 2013 e Jewish Population of the World, Jewish Virtual Library (www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/Judaism/jewpop.html).

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