Parigi e gli altri fronti della guerra allo Stato Islamico


 
 
 
 
 
Il fronte di Parigi: La controffensiva di Hollande e i suoi limiti Con il discorso di Versailles pronunciato al parlamento riunito in sede congiunta, il presidente…
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Il fronte di Parigi: La controffensiva di Hollande e i suoi limiti
Con il discorso di Versailles pronunciato al parlamento riunito in sede congiunta, il presidente francese ha annunciato l’obiettivo della Francia: “distruggere, non contenere” lo Stato Islamico (Is). Il suo piano d’azione è riassumibile in 3 punti.
  • Più poteri all’esecutivo. Per affrontare quello che l’inquilino dell’Eliseo ha definito “terrorismo di guerra”, è stata chiesta la modifica degli articoli 16 e 36 della costituzione per prolungare da 12 giorni a 3 mesi lo stato di emergenza e, in generale, per aumentare il potere d’ispezione e sorveglianza di polizia e autorità giudiziarie.
  • “Il patto di sicurezza ha la meglio il patto di stabilità”. Hollande vuole smarcarsi dalle regole dell’Unione Europea su deficit e debito pubblico pubblico. Il presidente non taglierà la spesa per il personale della Difesa fino al 2019 e riorganizzerà le Forze armate a beneficio delle unità operative, cibernetiche e d’intelligence.
  • Alla ricerca di una coalizione internazionale. L’Eliseo prova a coinvolgere gli alleati nella guerra allo Stato Islamico.
    Invocare l’articolo 5 della Nato – l’obbligo di difesa collettiva in caso di attacco a uno Stato membro – non è nelle corde del tradizionale autonomismo di Parigi e pare non sia un’opzione ben vista all’interno dell’Alleanza Atlantica. Hollande ha però chiesto l’applicazione dell’articolo 42.7 del Trattato Ue, preferito all’articolo 222 dello stesso documento perché dà maggiori margini d’azione ai singoli paesi piuttosto che alle istituzioni comunitarie.
Più o meno formalmente, sono già molti i paesi operativi militarmente contro lo Stato Islamico in Siria e in Iraq, anche se ciascuno di loro (dagli Usa alla Russia) persegue in realtà obiettivi diversi dalla sbandierata volontà di distruggere il “califfato”. Manca, oltre all’unità di intenti, la volontà di mandare truppe di terra.
Primo. Sgombrare il campo dalla retorica militarista. Possiamo e dobbiamo infliggere allo Stato Islamico qualche serio colpo che ne limiti l’aura d’invincibilità.
Ma non abbiamo mezzi, uomini e volontà per ingaggiareuna grande guerra “stivali per terra” nei deserti mesopotamici. Fra l’altro, è proprio quanto il “califfo” vorrebbe facessimo, certo di sconfiggerci sul terreno di casa, o almeno di conquistarsi un martirio che scatenerebbe per generazioni schiere di seguaci disposti a seguirne l’esempio.
Secondo. Definire il campo degli amici e dei nemici. Il nemico è chiaro: il jihadismo in generale e lo Stato Islamico, sua attuale epifania di successo, in particolare.
Il nemico del nemico è altrettanto palese: l’islam sciita, ovvero l’Iran e i suoi alleati a Baghdad, Damasco e Beirut, e in prospettiva gli stessi regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, che hannoalimentato i seguaci del “califfo”.
Meno definito il quadro occidentale. Alcuni di noi – americani e britannici su tutti – hanno flirtato col jihadismo. Spesso lo hanno armato e finanziato per provvisori fini propri, salvo poi perdere il controllo del mostro che avevano contribuito a nutrire.
Le priorità sono dunque due: ricompattare gli atlantici e comunicare ai sauditi e alle altre cleptocrazie del Golfo che il tempo del doppio gioco è scaduto. In questa battaglia non c’è posto per un “mondo di mezzo”, che con una mano istiga e con l’altra ostenta di reprimere l’idra jihadista.
Per approfondire:
Scacco al terrore in quattro mosse, di L. Caracciolo
Nella battaglia contro i jihadisti, il nostro destino non dipende dallo Stato Islamico ma da noi. Se non cadremo nella trappola della “guerra santa” ma capiremo chi sono e che progetti hanno i nostri nemici, potremo prevalere. Con alcuni caveat.
Gli errori della Francia prima degli orrori di Parigi, di padre G. Albanese
La capitale francese, vittima di un attentato disumano che non ha nessun legame con la religione, paga un prezzo altissimo alle politiche portate avanti dall’Eliseo in Medio Oriente e Africa.

Il fronte di Mosca: la bomba del Sinai e quelle sulla Siria
I servizi segreti russi sostengono che l’aereo Metrojet sia esploso in volo sul Sinai per “un atto terroristico”, causato da un ordigno improvvisato da 1,5 chili di dinamite e offrono una ricompensa da 50 milioni di dollari a chi aiuterà a trovare i responsabili.
Il ministro della Difesa ha annunciato il raddoppio delle sortite aeree russe in Siria; Mosca utilizza bombardieri di lungo raggio che opereranno da basi in Russia e missili da crociera.
Putin ha ordinato di trattare la portaerei francese Charles De Gaulle (quindi, la Francia) come “alleata” quando arriverà nelle acque prospicienti la Siria, dove già opera l’incrociatore russo Moskva. In questa fase il Cremlino ha buon gioco (e tutto l’interesse) a proporsi come alleato dell’Occidente nella lotta al terrorismo.
L’altro aspetto che non va sottovalutato nella scelta di fornire maggior sostegno alle milizie di Damasco è l’effettivo pericolo dello Stato Islamico per una Federazione Russa la cui popolazione è per circa il 15% musulmana. Se, come riportato da buona parte della stampa occidentale, si è sentito parlare in russo sui campi di battaglia siriani, si è quasi certamente trattato di uno degli oltre mille combattenti jihadisti (il numero potrebbe arrivare a 1700) che dal Caucaso russo (soprattutto da Cecenia e Daghestan) si sono spostati in Siria per combattere sotto le bandiere nere del “califfo” al-Baghdadi o per altre sigle terroristiche. Persino dall’assai meno irrequieta regione russa del Volga, circa 200 locali sono partiti per combattere. E nel Caucaso del Nord lo Stato Islamico ha dichiarato la nascita di una sua provincia, la più settentrionale del suo “califfato”.
Il timore di non riuscire a bloccare il flusso di cittadini che dalla Federazione Russa si reca a combattere per questo o quel gruppo terroristico e soprattutto di non poter impedire il loro rientro a conflitto finito preoccupano seriamente Putin e il suo paese.
Per questo il leader del Cremlino spingerà per combattere assieme all’Occidente l’Is e il terrorismo tutto.
Per approfondire:
Il Sinai ribelle, una carta di Laura Canali sull’incidente aereo e sulla presenza dei jihadisti nella penisola egiziana.
La partita mondiale della Russia in Siria, di G. Dottori
Il sostegno di Putin al regime di al-Asad ha origini e obiettivi che trascendono l’ambito regionale. Gli Usa per ora lasciano fare, ma sono pronti a usare tutto il loro smart power contro Mosca.

Il fronte del Golfo: come hanno reagito Iran e petromonarchie sunnite alla strage di Parigi.
Analizza la reazione di Teheran Nicola Pedde:
Gli attentati del 13 novembre hanno profondamente scosso l’opinione pubblica iraniana, che ha tributato la sua vicinanza al popolo francese con manifestazioni e fiaccolate. Anche le autorità politiche della Repubblica Islamica si sono associate a questi sentimenti, abbinandoli tuttavia al rammarico per quella che considerano una tardiva presa di posizione dell’Occidente contro lo Stato Islamico in Siria e in Iraq.
I tragici avvenimenti di Parigi, verificatisi alla vigilia del viaggio del presidente Rohani in Italia e in Francia, hanno poi comportato l’annullamento e la riprogrammazione di entrambe le visite di Stato.
Il presidente iraniano ha reputato inopportuno recarsi in Europa all’indomani di un così grave lutto, soprattutto in considerazione dell’elevato valore politico ed economico delle visite in programma, che certamente avrebbero stonato in un clima di così profondo cordoglio.
L’Iran rinnova l’invito agli occidentali non solo a un maggiore impegno nella lotta all’Is, ma anche – e soprattutto – a un più incisiva azione per estirpare i canali di finanziamento del terrorismo. Un’allusione al ruolo delle monarchie arabe alleate dell’Occidente.
Cinzia Bianco commenta invece la reazione delle petromonarchie arabe, a partire dai sauditi:
Dopo gli attentati di Parigi, alcuni monumenti del Golfo – la Kingdom Tower di Riyad, lo Sheikh Zayed Bridge di Adu Dhabi, il Burj Khalifa e il Burj Al Arab di Dubai e la Kuwait Tower – si sono illuminati con i colori della bandiera francese. Una mossa simbolica, ma anche una significativa presa di posizione a livello domestico delle monarchie arabe, che allineano le loro icone architettoniche a quelle delle capitali occidentali.
Le autorità religiose e politiche di tutto il Golfo si sono unite alla condanna degli attacchi e al cordoglio per le vittime. Il ministro degli Esteri del Qatar ha definito gli attentati “contrari a tutti i valori umani e morali”. Sulla stessa linea i regnanti di Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Oman. Il Consiglio supremo degli ulama saudita, massima autorità della giurisprudenza islamica, ha dichiarato: “questi terroristi non sono protetti dall’Islam e anzi contraddicono i valori di compassione che l’Islam ha portato nel mondo”.
Il re saudita Salmān ha parlato della necessità di “estirpare il male del mondo”, proponendo la creazione di un’agenzia internazionale contro il terrorismo sotto l’egida delle Nazioni Unite. Salmān ha aggiunto che “una soluzione radicale al terrorismo implica trovare una soluzione pacifica alla crisi siriana e mettere fine alla sofferenza del popolo siriano, esacerbata dall’inazione della comunità internazionale”.
I sauditi sanno bene che ogni attacco terroristico in Occidente rafforza la narrazione del blocco Asad-Russia-Iran, ovvero che l’alternativa al regime alawita in Siria è consegnare il paese ai terroristi, a partire dallo Stato Islamico. La posizione di Riyad è che l’inazione di Europa e Stati Uniti ha permesso ai terroristi di proliferare in Siria e Iraq: se avessero combattuto il dittatore di Damasco per tempo, questi gruppi non sarebbero potuti emergere. Per questo, i sauditi e tutta la sponda araba del Golfo sono contrari ad accettare passivamente la permanenza di Bashar al-Asad al potere.
Per approfondire:
La radice quadrata del caos, numero di Limes sullo scontro fra Iran e petromonarchie sunnite del Golfo.

Lo Stato Islamico su misura: come ogni attore geopolitico, il gruppo di al-Baghadi strumentalizza e viene strumentalizzato. Apriamo una finestra (che rischia di diventare quotidiana) sulla propaganda dei jihadisti e su chi sfrutta il marchio dell’Is per i suoi scopi.
  • Rifugiati 1: l’Is vuole convincerci che tutti i rifugiati sono potenziali terroristi.
  • Rifugiati 2: negli Usa ci sta riuscendo: i governatori di 27 Stati su 50 non vogliono i profughi siriani, “cavallo di Troia” del jihadismo. Quindi niente Steve Jobs?
    Gli Stati Uniti hanno accolti pochissimi rifugiati siriani (1500 dal 2011) e la decisione spetta al governo federale.
  • Rifugiati 3: il ministro degli Affari Europei del nuovo governo polacco entra in carica lunedì prossimo ma ha già detto che il sistema delle quote per ricollocare i migranti va ridiscusso per motivi di sicurezza dopo gli attentati di Parigi.
  • Rifugiati 4: la verità è che lo Stato Islamico detesta chi fugge dalla Siria e non sceglie il “califfato”.
  • Opposizione siriana: 48 gruppi (fra cui alcuni jihadisti, ma non i qaidisti di al-Nusra) denunciano gli attentati di Parigi e si impegnano a continuare a combattere il terrorismo “del regime di Asad e del suo pupazzo Daesh“.
  • Lo sportello dell’Is: i jihadisti avrebbero un helpdesk attivo 24 ore su 24 per coordinare gli attacchi e aiutare le reclute a crittografare le comunicazioni.

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