Phyllis Bennis : Dopo gli attacchi di Parigi un appello alla giustizia, non alla vendetta






Phyllis Bennis – 15 novembre 2015
La Francia è sconvolta e in lacrime. Ancora non sappiamo quanti siano stati gli uccisi e i feriti. In realtà c’è molto che ancora non sappiamo, compreso chi sono i responsabili. La rivendicazione della responsabilità da parte dell’ISIS non ci dice virtualmente nulla riguardo a chi ha pianificato o condotto gli attacchi; le rivendicazioni opportunistiche sono una vecchia storia. Ma l’assenza di informazioni non ha impedito un mucchio di supposizione su quali “evidentemente” siano i responsabili e su che cosa si dovrebbe far loro. Sta già emergendo in tutta la Francia l’appello: “Questa volta è una guerra a tutto campo”.
Ma sappiamo che cosa succede quando gli appelli alla guerra e alla vendetta sommergono tutte le altre voci; li abbiamo già sentiti in passato.
Alcuni giorni dopo gli attacchi dell’11 settembre noi all’IPS e alcuni nostri alleati organizzammo una dichiarazione pubblica le cui prime firme inclusero Harry Belafonte, Danny Glover, Gloria Steinem, Rosa Parks e molti altri. La dichiarazione rifletteva la paura profondamente radicata che tutti condividevamo, che per quanto orribili fossero stati gli attacchi dell’11 settembre, era la dichiarazione di George W. Bush in risposta a tali attacchi che minacciava il mondo. Quello fu il momento in cui egli annunciò che la reazione a quell’enorme crimine odioso contro l’umanità sarebbe stata una guerra; che egli avrebbe guidato il mondo nella guerra “contro il terrorismo”.
Le guerre di vendetta non funzioneranno per la Francia più di quanto abbiano funzionato per gli Stati Uniti.
Sappiamo come si sono svolte le cose. Non sono andate molto bene. Già stiamo sentendo dirigenti e giornalisti e guru francesi chiedere ancora la stessa cosa. “Questa volta è una guerra tutto campo” è la versione francese dell’affermazione di Bush: “O siete con noi o siete con i terroristi”.
Ma le guerre di vendetta non funzioneranno per la Francia più di quanto abbiano funzionato per gli Stati Uniti.
La dichiarazione pubblica da noi diffusa nel 2011 era un appello alla “giustizia, non alla vendetta”. Cominciava:
I nostri cuori e le nostre preghiere vanno alla compassione per le vittime e per le loro famiglie che hanno sofferto tanto dagli indicibili atti di brutalità commessi l’11 settembre 2001.
Condividiamo lo sconvolgimento, la rabbia e il dolore di tanti negli Stati Uniti e nel mondo e chiediamo una risposta che sia pronta, giusta ed efficace. Prevediamo che una reazione militare non porrà fine al terrorismo. Piuttosto innescherà un ciclo di intensificazione della violenza, la perdita di vite innocenti e nuovi atti di terrorismo. Da cittadini di questa grande nazione appoggiamo gli sforzi in corso per scoprire chi sta dietro gli atti di terrorismo. Portarli davanti alla giustizia sotto il primato della legge – non l’azione militare – è il modo per por fine alla violenza.
Segnaliamo che anche se gli atti terroristici dell’11 settembre erano mirati contro gli Stati Uniti, tra le vittime si contano cittadini di più di 50 nazioni. La carneficina del terrorismo non conosce confini. La nostra possibilità migliore di prevenire simili atti devastanti di terrorismo consiste nell’agire con decisione e collaborativamente come parte di una comunità di nazione nel quadro della legge internazionale per sradicare il terrorismo e per lavorare per la giustizia in patria e all’estero.
Affermiamo che gli Stati Uniti sono una nazione retta dalla legge, radicata in fondamentali valori statunitensi di democrazia, giustizia, diritti umani e rispetto per la vita. Le leggi che proteggono le nostre libertà civili negli Stati Uniti fanno parte di ciò che ci definisce come nazione. Non devono essere ridotte; farlo significherebbe offrire la vittoria a quelli che hanno provocato questi atti vendicativi.
Ma quelle leggi, le leggi radicate nella “democrazia, giustizia, diritti umani e rispetto per la vita” furono, ovviamente, ridotte. Peggio che ridotte, furono schiacciate, dalle torture a Bagram e Abu Ghraib e a Guantánamo , dagli attacchi aerei e dagli attacchi dei droni che hanno ucciso dozzine di afgani, iracheni, pachistani, yemeniti, somali e altri civili per ogni presunto criminale preso di mira. Le leggi sono state messe da parte dalla profilazione razziale e dai rastrellamenti di mussulmani e arabi e arabi statunitensi, sono state violate dallo spionaggio della NSA su una scala tanto vasta da risultare incomprensibile, ignorate da membri vili del Congresso contenti di consentire a presidenti fondi illimitati per condurre guerre unilaterali.
C’era un’altra reazione possibile, quella riflessa dal giornale francese Le Monde solo poche ore dopo gli attacchi dell’11 settembre. “Nous sommes tous americains maintenant” diceva il titolo. Ora siamo tutti statunitensi. Era un sentimento riflesso in veglie alla luce di candele, in lettere manoscritte, nella solidarietà umana di folle che scendevano in strada da Teheran a Tokio. Ed è stata sprecata dalle guerre che sono seguite, le guerre a favore delle quali Bush ha parlato al mondo e mentito agli statunitensi con l’affermazione che la scelta era o entrare in guerra o “lasciare che loro la facciano franca”. E poiché nessuno voleva che “loro” la facessero franca con un crimine così odioso, una vasta maggioranza del popolo statunitense appoggiò la guerra. All’inizio. Ma poi, con l’emergere di un forte movimento contro la guerra, più persone cominciarono a vedere, a capire, il costo – umano, economico, ambientale, legale, diplomatico e oltre – di queste guerre e il loro fallimento quanto al conseguire uno qualsiasi dei forti obiettivi che era stato assicurato sarebbero stati realizzati.
Il terrorismo sopravvive alle guerre; le persone no.
Perché oggi tutti sanno che le devastanti guerre che hanno ucciso tante centinaia di migliaia di persone comune non hanno spazzato via il terrorismo. Il terrorismo sopravvive alle guerre; le persone no. Abbiamo visto di nuovo la prova di questo la notte scorsa a Parigi e l’abbiamo vista il giorno prima a Beirut. Abbiamo sentito gli inni di vittoria dei belligeranti statunitensi. La strategia di Obama stava funzionando, dicevano. L’ISIS era respinto da Sinjar dalle milizie curde. Un attacco aereo statunitense aveva ucciso Mohammed Emwasi, noto come ‘jihadi John’ dai video dell’ISIS. Tuttavia la guerra – una nuova versione di quella stessa ‘guerra globale al terrore’ – è tuttora in corso e chiaramente continua a non funzionare. Perché non si può bombardare il terrorismo; si possono solo bombardare le persone. Si possono bombardare le città. A volte si può uccidere un terrorista, ma ciò non fa finire il terrorismo; non fa che incoraggiarne altro.
Non doveva andare così. Un giorno o giù di lì dopo gli attacchi dell’11 settembre noi all’IPS ricevemmo un messaggio da un nostro collega, il grande attivista boliviano per il diritto all’acqua Oscar Olivera. “Continuiamo a credere che un altro mondo sia possibile”, scrisse. “Siamo con voi”. La solidarietà globale con noi, con gli statunitensi, era reale. Non più, non da quando il nostro governo ha portato in guerra il mondo.
Non deve andare così a Parigi. Non è troppo tardi. “Siamo con Parigi” è il nostro grido oggi, come “nous sommes tous americains” fu il grido dei nostri compagni francesi 15 anni fa. Forse possono fare la cosa giusta.

Da Z Net Italy- Lo spirito della Resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/after-paris-attacks-a-call-for-justice-not-vengeance/
Traduzione di Giuseppe Volpe
©2015 ZNet Italy- Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

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