Gaza, il cemento-fantasma e la ricostruzione che non c’è


 
 
 
 
 
Come funziona la ricostruzione? L'Onu si è inventato un sistema complesso, un fiume da cui partono tre torrenti. Ma è a secco: Israele blocca da mesi i materiali edili. Solo 2mila case ricostruite su 19mila
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Come funziona la ricostruzione? L’Onu si è inventato un sistema complesso, un fiume da cui partono tre torrenti. Ma è a secco: Israele blocca da mesi i materiali edili. Solo 2mila case ricostruite su 19mila
La scuola Unrwa di Beach Camp (Foto: Chiara Cruciati)
La scuola Unrwa di Beach Camp (Foto: Chiara Cruciati)
Chiara Cruciati – Il Manifesto
Gaza, 4 giugno 2016, Nena News – Una donna guida tre capre dentro il perimetro dell’asilo. Prende un pallet di legno, lo appoggia all’ingresso di una delle aule e la trasforma in un piccolo recinto. Approfitta dello stop ai lavori per la ricostruzione della scuola distrutta durante Margine Protettivo dalle bombe israeliane: da settimane l’ingresso di cemento dentro la Striscia di Gaza è bloccato dalle autorità israeliane, convinte che non arrivi ai legittimi destinatari ma finisca nelle mani di Hamas per la ricostruzione dei tunnel sotterranei. Come tanti altri progetti anche questo, l’asilo di Umm al-Nasser, comunità a nord di Gaza, è fermo.
Sono trascorsi quasi due anni dalla fine dell’operazione militare che nell’estate del 2014 devastò come mai prima la Striscia di Gaza. In mezzo la promessa mai mantenuta della comunità internazionale di donare 5,4 miliardi di dollari per la ricostruzione e un sistema di distribuzione dei materiali edili che differenzia tra progetti infrastrutturali di Qatar e Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi), progetti delle organizzazioni non governative e ricostruzione di abitazioni da parte di privati. Ideato dalle Nazioni Unite e dall’inviato per il Medio Oriente Robert Serry, è stato immaginato come un fiume da cui partono tre torrenti diversi. Ma il fiume è quasi a secco.
L'asilo di Umm al-Nasser (Foto: Chiara Cruciati)
L’asilo di Umm al-Nasser (Foto: Chiara Cruciati)
I progetti di ricostruzione delle ong internazionali per rimettere in piedi scuole, cliniche, pozzi, reti idriche sono alimentati dal primo torrente e dal cosiddetto Grm (Gaza reconstruction mechanism): «Il Grm è l’ente che gestisce l’ingresso di materiali di ricostruzione a Gaza – spiega al manifesto Mitia Aranda, architetto dell’ong italiana Vento di Terra, impegnata nella ricostruzione dell’asilo di Umm al-Nasser – È formato da tre soggetti: il Ministero degli Affari civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, il governo israeliano e l’Unops, agenzia Onu che monitora il materiale introdotto».
«La procedura da seguire è la stessa per tutte le organizzazioni: si presenta il progetto e si seleziona una compagnia locale riconosciuta come legittima dallo Stato di Israele. Progetto strutturale e architettonico e contratto con la ditta locale vengono portati al Ministero di Gaza, con l’indicazione delle quantità e la natura di materiale necessario ai lavori. A quel punto il progetto  viene iscritto nel Grm. La ditta locale chiede lo sblocco delle quantità di materiali edili che saranno consegnati al distributore, anche questo locale e anche questo approvato da Israele. Il cemento viene quindi portato in cantiere e l’Unops ne monitora l’utilizzo».
L'asilo di Umm al-Nasser (Foto: Chiara Cruciati)
L’asilo di Umm al-Nasser (Foto: Chiara Cruciati)
Oggi di operai nel cantiere di Umm al-Nasser non ce ne sono. Il cemento non entra da settimane: la data prevista per l’inaugurazione dell’asilo (entro inizio luglio, la fine del mese sacro di Ramadan) potrebbe restare un miraggio.
Poco più a sud, nel campo profughi di Beach camp, gli operai si muovono veloci nel cantiere della scuola dell’Unrwa: a piano terra spostano i sacchi di cemento, al primo piano fissano le reti di metallo a protezione delle finestre. Il 72% dell’edificio è stato completato, si prevede di finire i lavori ad agosto, prima dell’inizio dell’anno scolastico. L’ingegnere Abdul-Karim Barakat ci fa visitare la scuola, un edificio di 42 classi a forma di U: «Oggi [19 aprile] abbiamo ricevuto una comunicazione dall’Access Coordination Unit dell’Onu che ci ha assicurato l’ingresso del cemento. Per il resto della Striscia l’accesso è stato bloccato, ma non per i progetti infastrutturali di Nazioni Unite e Qatar, che proseguono».
La ricostruzione è in stand by solo per le abitazioni civili e i progetti delle ong, qui si continua a lavorare perché Onu e Qatar hanno accordi bilaterali direttamente con Israele: il secondo torrente. Ma non mancano gli ostacoli: «Siamo comunque in ritardo di due mesi – ci spiega Barakat – a causa del lento afflusso dei materiali che Israele considera a doppio uso, metalli, legno, acciaio. Ovvero materiali che Tel Aviv reputa utilizzabili anche per la costruzione dei tunnel sotterranei. Per questo dobbiamo chiedere un permesso speciale, che richiede tempo. Le reti per le finestre, ad esempio, non arrivano da mesi». Per il resto il sistema è apparentemente lo stesso del Grm: si presenta il progetto, si indice la gara d’appalto e si indicano i materiali necessari. La compagnia locale assunta dall’Unwra, obbligatoriamente registrata alla Palestinian Union Contractors, gestisce poi i subappalti per le diverse attività di costruzione, dalla falegnameria all’idraulica.
La scuola dell'Unrwa a Beach Camp (Foto: Chiara Cruciati)
La scuola dell’Unrwa a Beach Camp (Foto: Chiara Cruciati)
A monte sta la linea diretta che dal 2010 collega le autorità israeliane all’Unrwa e che permette l’accesso di materiali edili senza grossi intoppi per i progetti infrastrutturali: «Il cemento non entra per la ricostruzione delle abitazioni civili – ci spiega il vice direttore dell’ufficio Unrwa della Striscia, David de Bold – perché Tel Aviv ritiene ci sia una ‘perdita’ nel sistema di distribuzione. Questo rallenta la ricostruzione delle case distrutte e danneggiate, seriamente provata anche dalla mancanza di fondi: secondo la Banca mondiale del denaro promesso dalla comunità internazionale è arrivato solo il 20%. L’Unrwa aveva chiesto 700 milioni, ne abbiamo ricevuti 270. Con quel denaro possiamo ricostruire 2mila case su un totale di 7mila di proprietà di rifugiati. Ciò significa che dobbiamo investire fondi per sostenere le famiglie sfollate: distribuiamo denaro alle famiglie rifugiate per pagare l’affitto, per un totale di due milioni ogni mese. Denaro che potrebbe essere usato per ridare loro una casa».
Case fantasma e decine di migliaia di gazawi ancora schiacciati dal peso dello sfollamento: ad oggi le unità residenziali ricostruite sono meno di 2mila su un totale di 12.576 abitazioni totalmente distrutte e 6.455 gravemente danneggiate, quindi inabitabili. Fuori, oltre il muro che assedia Gaza, c’è Israele che, dopo aver distrutto, oggi gestisce tempi e modi della ricostruzione. Mettendo in piedi un ingente giro d’affari: «Il 70% del costo di un edificio va per i materiali da costruzione – ci spiega J. A., cooperante che segue da vicino il sistema della ricostruzione – Dopo il golpe in Egitto il 2013, tutto il materiale entra da Israele. Fate da soli il calcolo, quanto incassa Israele con il business della guerra».
Sullo sfondo restano i privati, le famiglie di Gaza, individuate dal Grm come beneficiarie ma che di cemento ne vedono ben poco: è il terzo torrente, ma di acqua non ce n’è. «Mentre l’Unrwa ha condotto un censimento sulle case dei rifugiati demolite, il Ministero dei Lavori Pubblici di Gaza si è occupato delle abitazioni dei non rifugiati. 9mila i primi, 3mila i secondi: un totale di 12mila case. Cosa deve fare una famiglia per avere il cemento? Si registra al Ministero e viene inserita in una delle liste dei donatori, quella dell’Unrwa, quella del Qatar e quella del Kuwait, i due paesi che hanno messo sul tavolo il denaro per la ricostruzione dei privati. Entra quindi nel sistema del Grm, con la quantità di materiale accordata. Alla famiglia viene comunicato l’arrivo dei materiali e il distributore dove ritirarli. A monitorare il tutto è l’Unops che, con telecamere in ogni compagnia di distribuzione, controlla le consegne ai beneficiari».
La scuola dell'Unrwa a Beach Camp (Foto: Chiara Cruciati)
La scuola dell’Unrwa a Beach Camp (Foto: Chiara Cruciati)
Fuori dal sistema restano quelle famiglie che vorrebbero ampliare la propria casa o costruirne una nuova, vista la naturale crescita della popolazione. Hanno bisogno di cemento ma non rientrano nel sistema Grm: «È qui che entra in gioco il mercato nero: alcuni distributori bypassano i controlli e rivendono i materiali destinati ai beneficiari a chi beneficario non è, a prezzi molto più alti del previsto – continua J. A. – Se il Grm ha stabilito un prezzo di 520 shekel [120 euro circa] a sacco di cemento, ovvero 50 kg, sul mercato nero viene rivenduto a 1.500-2000 shekel [350-470 euro]».
La mancanza di cemento crea un gap, un vuoto dove le famiglie beneficarie restano invischiate: in molti chiedono prestiti per iniziare a ricostruire, aspettando di ricevere la donazione. Ma la donazione non arriva e ci si ritrova indebitati con banche e privati e con una casa ricostruita a metà. Chi può prova a fare economia del cemento che riceve: «Se il Grm ti riconosce 100 tonnellate di cemento, la quantità media per un’abitazione di 100 m², la famiglia ne usa di meno, risparmia un 5-6% del totale per rivenderlo poi sul mercato nero».
A Gaza il sentimento che prevale è la rassegnazione. Solo così, ci dicono, possono spiegarsi i 30 casi di tentato suicidio e i 5 di suicidio da gennaio, numeri impressionanti che raccontano la frustrazione di chi è stato spogliato della propria dignità. Sharif Hamad vive a Beit Hanoun, ha perso la sua casa (un palazzo di 8 appartamenti, dove vivevano 8 famiglie) e oggi vive in affitto. Da un anno è stato inserito nella lista del Kuwait insieme ad altre 1.150 famiglie ma ad oggi non ha ricevuto nemmeno un sacco di cemento: «Israele ha raggiunto il suo obiettivo – ci dice – Dall’ultima operazione voleva ricavare una tregua di 15-20 anni e l’avrà. Ci ha lasciato nel limbo della ricostruzione, o meglio della non ricostruzione, impegnati a garantirci un tetto sulla testa invece che a pensare ai nostri diritti di popolo sotto assedio. Lavorano sulle frizioni interne alla società, tra chi riesce a costruire e chi no, tra chi sfrutta il mercato nero per arricchirsi e chi è ancora sfollato. E Israele fa affari: qui a Gaza un sacco di cemento è venduto a 520 shekel, in Cisgiordania costa 380. Dove va la differenza? In tasca a Tel Aviv».

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