Richard Falk :Il genocidio è un crimine internazionale controverso? – Prima parte


Di Richard Falk
1° agosto 2016
In questo libro notevolente originale, strano e brillante, Philippe Sands solleva una domanda inquietante tra un groviglio di argomenti affascinanti trattati in tutto il libro:
East-West Street: On the Origins of Genocide and Crimes against Humanity (New York: Knopf, 2016). E’ nello stesso tempo una biografia multipla (con l’aggiunta di un po’ di autobiografia), una favola di giurisprudenza e resoconto violento    dell’orripilante impatto che le crudeli politiche naziste  ebbero sulla vita dei membri della famiglia dell’autore e anche su quella dei suo eroi per i diritti umani. La  domanda inquietante è questa: era stata una decisione saggia e pratica tenere separato il crimine di genocidio dal quadro legale della legge penale internazionale usata per valutare la responsabilità individuale dei sopravvissuti leader nazisti politici e militari e poi successivamente usato nel trattare le atrocità di massa passate e presenti?
Riflettendo sui miei interessi nel corso degli anni circa l’uso e l’abuso del linguaggio del genocidio, ho scoperto che questa è la dimensione più provocatoria e duratura di questo libro affascinante per molteplici motivi, dove Sands mostra la sua versatilità di giurista, di professionista della legge, di giornalista investigativo e di storico dilettante dell’Olocausto poiché esso ha tormentato  una piccola regione della Polonia contemporanea che per caso è stato il luogo di nascita di suo nonno e anche di due dei più famosi “contributori” allo sviluppo della legge penale internazionale del secolo scorso. Il titolo del libro è oscuro fino a quando noi lettori non scopriamo che l’ East-West Street percorre Tutta la lunghezza della piccola città della Polonia attuale, da dove ebbero origine e dove hanno risieduto queste tre famiglie, fino a quando gli avvenimenti importantissimi degli anni ’30 li costrinsero a cercare un rifugio, spostandosi verso Occidente.
Il libro East-West Street, può essere letto da molte differenti angolazioni, ed è diviso in non meno di 158 capitoli oltre a un prologo che spiega in che modo un viaggio intellettuale/letterario così insolito ha avuto un tale inizio casuale, con un invito a una conferenza ricevuto dall’autore, e un epilogo che cerca di riassumere l’interazione Giuridica tra i due primi architetti dei fondamentali crimini internazionali (Sir Hersch Lauterpacht e Rafael Lemkin) e i crimini stessi (crimini contro l’umanità e genocidio). Ciò che crea la tensione drammatica nel modo in cui Sands tratta questa interazione, è il contrasto tra una logica tipica della giurisprudenza che è focalizzata sui crimini commessi contro singoli individui, in contrasto con una logica in concorrenza che mette in risalto i crimini contro i gruppi. Secondo Sands ci sono anche in gioco le personalità contrastanti e gli approcci legali di Lauterpacht, l’esperto professoriale, freddo, pragmatico e rispettato, e di Lemkin, l’estraneo spinto dall’emozione preoccupato, che ha dedicato la sua vita adulta a fare pressioni sui governi perché sostenessero il genocidio in quanto crimine, e che in qualche modo è riuscito a ottenere dei risultati.
Sullo sfondo di questa titanica lotta d’idee, c’erano le storie personali degli individui coinvolti le quali, in effetti, hanno fornito le motivazioni private per questi atti pubblici così influenti. Una coincidenza straordinaria di cui Sands ha fatto un eccellente uso letterario, sorge dal fatto che, sia Lauterpacht che Lemkin erano collegati, nei loro primi anni e studi, a una piccola città, che ha avuto vari nomi e che è passata di mano otto volte tra il 1914 e i 1945, essendo stata governata in tempi diversi, da: Germania, Polonia e Unione Sovietica. Il nome che è durato di più durante il periodo coperto in questo libro, è Lemberg, anche se oggi la città è nota con il nome polacco, Lviv. Ciò che forza la credibilità quasi fino al punto di rottura, è che anche il nonno di Sands, Leon Bucholz, era nato a Lemberg, ed intorno alle vite di questi tre uomini di legge che Sands tesse una complessa struttura narrativa che è sorprendentemente piacevole. Gran parte del libro è dedicata con appassionata attenzione ai dettagli più minuziosi, al modo in cui le loro vite e sensibilità personali siano state modellate dalla loro partenza da Lemberg prima che cadesse in mani naziste, e dal dolore associato con la realtà struggente di perdere il contatto con le loro famiglie che restavano lì. Soltanto tardivamente, anni dopo, ognuno di loro scoprì realmente le esperienze spaventose della vittimizzazione mortale sperimentata dai membri della famiglia dopo che i Nazisti si erano impadroniti di quello che era stato territorio polacco sovrano. E’ stato straordinario che il silenzio soltanto abbia potuto concedere dignità agli eventi che furono evidentemente sperimentati come indicibili e in grado di paralizzare un’immaginazione morale sensibile.
Considerato uno sfondo di questo genere, ci si deve aspettare che il libro esamini da vicino la persona e il comportamento di Hans Frank, uno dei 21 nazisti processati a Norimberga, che aveva operato come crudele e devoto Governatore Generale della Polonia durante gli anni della guerra quando il paese era caduto in mani tedesche ed era diventato il più famigerato campo di stermino dell’era nazista. E’ anche molto rilevante che tre uomini, la cui vita e carriera sono il punto focale della narrazione,  a cui è stata data ulteriore realtà da documenti e foto di famiglia sparpagliate, fossero ebrei, anche se nessuno aveva  alcun notevole impegno religioso. Le loro vite e carriere, furono determinate in molti modi, da questa identità ebraica e da ciò che questo significava in un periodo di persecuzione e di sterminio di massa. L’interesse per Frank è rafforzato dalla straordinaria collaborazione di Sands con il figlio di Frank, Niklas, con cui visita l’aula di giustizia di Norimberga dove, 68 anni prima, una condanna a morte era stata inflitta a suo padre. Non soddisfatto del coinvolgimento di Niklas, Sands persuade anche Horst, figlio di Otto von Wacher, che amministrava per conto dei governanti nazisti una zona che comprendeva Lemberg e che prima era stato compagno di studi di Lauterpacht nella facoltà di Legge nella locale università, a collaborare alla ricostruzione degli avvenimenti. Questi collegamenti tra generazioni hanno condotto Sands a scrivere la sceneggiatura    e a rappresentarla come documentario: My Nazy legacy: What our Fathers Did [La mia eredità nazista: che cosa che cosa hanno fatto i nostri padri] la cui prima è stata presentata nel 2015 al Tribeca Film Festival , ricevendo riconoscimenti e premi.
Tale tentativo di far rivivere questi eventi storici, illustra gli adattamenti contrastanti al tempo presente in cui Niklas sente che il padre ha pienamente meritato la punizione ricevuta a Norimberga, mentre Horst esibisce un morboso orgoglio, ricordando la prominenza del padre, senza alcun segno di vergogna e non si rammarica neanche del ruolo avuto dal padre nell’attuazione delle malvage politiche degli occupanti nazisti. Philip Sands si pone sia dentro sia fuori questo passato apocalittico, cercando di mettere insieme i pezzi in un coerente resoconto pluri- dimensionale senza perdere il contatto con il suo personale coinvolgimento in questa enorme tragedia familiare.
Mettendo da parte i livelli biografici e autobiografici affascinanti della costruzione fatta da Sands di queste varie vite, desidero concentrare le mie osservazioni sulle eredità legali collegate a Lauterpacht e a Lempkin, dipinte con tale vivacità in tutto il libro e che raggiungono il culmine a Norimberga. Come osserva Sands, i crimini contro l’umanità (CAH – Crimes against Humanity) e il genocidio, erano entrambe idee giuridiche radicali e innovative che cercavano di criminalizzare le atrocità naziste.
L’idea di CAH era focalizzata sul proteggere l’individuo contro la criminalità di qualsiasi stato, compreso il proprio, mentre si concepiva che il genocidio criminalizzasse l’uccisione di massa gruppi etnici o religiosi identificabili come distinti. Lauterpacht ha, in parte, inventato l’idea di CAH con l’intenzione di denunciare l’impunità che tradizionalmente era collegata al crimine da un governo sovrano contro individui soggetti alla sua giurisdizione territoriale e che quindi preservava chi agiva per conto di uno stato, da qualsiasi tipo di responsabilità personale. I CAH lanciavano una sfida legale diretta a una sovranità territoriale incondizionata e alla prevalenza di una monarchia assoluta che aveva a lungo dominato l’ordine mondiale incentrato sullo stato, istituito in Europa dalla Pace di Westfalia nel 1648. Tale impunità continuò a essere una caratteristica dell’ideologia nazionalista, nonostante la Rivoluzione Francese e l’emergere del costituzionalismo democratico. I successivi numerosi tentativi di rendere internamente responsabili i governi dei loro atti tramite la legge e una varietà di procedure costituzionali, comprese le elezioni, non si estendevano al comportamento esterno. Ciò che ha fatto in modo che i CAH fossero un  passo avanti così radicale, è stata questa insistenza su una certa misura di responsabilità esterna o internazionale per mezzo della legge.
Lemkin, da parte sua, inventò, quasi del tutto da solo, il crimine di genocidio, compresa anche la parola. Era guidato dalla convinzione incrollabile che criminalizzare il tipo di politiche razziste messe in pratica dalla Germania nazista, era urgentemente necessario, per salvare la civiltà dalla ripresa della barbarie. Sembra che Lemkin fosse inizialmente disposto a criminalizzare questo comportamento, a causa della sua reazione di shock all’uccisione in massa degli Armeni nel 1915, e dell’assenza di qualsiasi risposta internazionale di tipo punitivo inserito nella legge internazionale. Credeva ferventemente che il letale virus politico che dava origine a  tale comportamento collettivo fosse una forma separata di criminalità che non dovrebbe mai essere fusa con una serie di atti criminosi separati, per quanto gravi, che erano  diretti contro gli individui.
Avrei pensato che ci fossero tutte le ragioni di appoggiare entrambe le forme di criminalità come reazione all’esperienza nazista, e, in una certa misura, lo pensa anche Sands. Il principale ostacolo tecnico, discusso da Sands soltanto superficialmente per l’azione penale per questi crimini a Norimberga, fu la proibizione per le applicazioni retroattive delle leggi penali. Infatti, il Giudizio di Norimberga aveva dedicato notevole energia a dimostrare il suo rispetto per la proibizione,  appoggiando i CAH soltanto se le azioni in questione potevano essere connesse all’inizio della guerra nel 1939; in altre parole, dal 1933 al 1939, i primi anni del regime nazista, i reati di coloro che agivano per conto del governo tedesco, continuarono a essere protetti dall’impunità a livello internazionale. In seguito, l’adozione da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU dei principi di Norimberga,
ratificati ora da più di mezzo secolo di pratica statale dà ai CAH lo status di norme obbligatorie in base alla consueta legge internazionale, non più necessariamente collegata alla guerra di aggressione. Oltre a questo, questi Principi sono oramai considerati ‘norme perentorie’ o semplicemente jus cogens che non possono essere modificate da un’azione governativa, e che possono essere cambiate soltanto sostituendole con un’altra norma perentoria.
Il genocidio ha avuto un viaggio in un certo modo simile, dopo essere stato messo ai margini a Norimberga, con grande delusione di Lemkin. La sua personale crociata per ottenere che il genocidio fosse incluso tra i crimini di cui erano accusati i nazisti, fallì. Non scoraggiato da questo ostacolo, la perseveranza incrollabile di Lemkin fu presto ricompensata. La Convenzione sul Genocidio  entrò in vigore nel 1950 e, come osserva Sands, quasi istantaneamente il genocidio il ‘crimine dei crimini,’ la forma più stigmatizzante di criminalità, la cui che quando viene commesso ha come conseguenza una macchia permanente sul carattere nazionale di un regno sovrano che si scopre si stato colpevole di genocidio. Ci sono state varie accuse di genocidio, nel corso dei secoli; la Cambogia, la Bosnia e il Ruanda ne sono gli esempi più famigerati.
Sands si situa non proprio equidistante in rapporto a questi due giganti della giurisprudenza. La sua vita accademica e le sue relazioni personali lo resero propenso
a stare dalla parte di Lauterpacht, celebrando il suo successo di aver introdotto i CAH nel tessuto dell’esperienza di Norimberga, e da lì diventare una norma fondamentale nella nascita di una legge penale internazionale e un crimine incluso  nello Statuto di Roma che crea una cornice legale per la Corte Penale Internazionale. Sands è sfacciatamente elogiativo, perfino sbigottito, credendo che Lauterpacht fosse riconosciuto come “la straordinaria mente legale del ventesimo secolo e padre del movimento moderno per i diritti umani.” [loc. 254]. Lauterpacht, come influente professore di Cambridge, in seguito eletto alla Corte Internazionale di Giustizia, divenne membro dell’establishment britannico e fu ammirato dal punto di vista professionale per la sua prodigiosa produzione di studioso che esibisce il suo approccio impegnato anche se prudente allo sviluppo della legge internazionale. Secondo Lauterpacht, affinché questo sviluppo fosse autentico, doveva sorgere dalla pratica degli stati sovrani. Aveva un apprezzamento entusiasta dei limiti di ciò che era politicamente fattibile e legalmente adeguato, ed era rispettoso verso modelli di statalismo che forse riflettevano la sua rivelazione, quando era allievo di Hans Kelsen, il grande formalista e positivista austriaco. In un libro costruito intorno ai collegamenti organici tra il personale e il pubblico, non è certo sorprendente che venga fuori che Sands sia stato uno studente di Cambridge e che Eli Lauterpacht, il giurista figlio di  Hersch, fosse suo insegnante e fonte collaborativa di informazioni sul suo famoso padre. Questo fornisce un ulteriore esempio dell’interesse di Sands per i padri e i figli. Purtroppo, per il su schema delle cose, Lemkin non si sposò mai e non ebbe mai figli.
Hersch Lauterpacht era apertamente scettico riguardo al genocidio, considerandolo ‘non pratico,’ perfino un impedimento allo sviluppo realistico della legge internazionale. Sands non è mai completamente chiaro circa il motivo per cui un crimine che sembrava rappresentare proprio l’essenza della vittimizzazione degli ebrei e di altri, si sarebbe dovuto mettere da parte in base alla sua praticabilità nel periodo precedente ai processi di Norimberga. En passant, dice che la riluttanza di americani e britannici di mettere in stato di accusa un crimine del genere a Norimberga, era collegata allo sbatacchiare di scheletri nei loro rispettivi armadi della storia; la decimazione sistematica degli Americani nativi e una molteplicità di pratiche coloniali britanniche. Secondo Sands, “Lauterpach non aveva mai abbracciato l’idea di genocidio. Fino alla fine della sua vita, era sprezzante sia dell’argomento e, più gentilmente, dell’uomo che lo aveva escogitato, anche se ne riconosceva la qualità dell’aspirazione. [loc. 6700). Sands non si riferisce agli aspetti difficili del genocidio in vari luoghi – specialmente alla difficoltà di un avvocato di trovare una prova sufficientemente forte dell’intento criminale appropriato di convincere un  tribunale, considerando che quelli che si coinvolgono in un genocidio, raramente lasciano una documentazione cartacea che soddisfi coloro che giudicano e sono consapevoli che per ottenere un verdetto di colpevolezza in risposta a un genocidio, è una punizione indiretta di una nazione e del suo popolo e anche degli individui accusati.
Riguardo a questo, anche se il crimine di genocidio non fa parte dei procedimenti formali a Norimberga, la Germania è stata accusata di ‘genocidio’ nel tribunale dell’opinione pubblica, e i tedeschi, qualunque sia il loro rapporto con l’esperienza nazista, sembrano destinati a vivere perpetuamente sotto questa nuvola oscura. Come molti hanno osservato, e come io ho sperimentato, questa profonda consapevolezza tedesca di una colpa storica, spiega un’eccessiva deferenza verso le politiche dello stato di Israele e la relativa paura che qualsiasi critica del comportamento di Israele, comunque giustificata, sarà percepita come anti-semitismo. A questo riguardo, c’è un’obiezione reale alle accuse formali e informali di genocidio, perché questo impone la colpa non soltanto agli individui che hanno agito per lo stato, ma anche alla nazione nel suo complesso. C’è un argomento collegato, non sollevato da Sands, del grado di complicità con il nazismo che è giusto attribuire al popolo tedesco in generale, e se questa complicità getterebbe la sua ombra sulle generazioni future.
Nella foto: Philippe Sands
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/is-genocide-a-controverasial-international-crime
Originale: Richardfalk.com
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC BY NC-SA 3.0


l genocidio è un crimine internazionale controverso? – Seconda parte

Redazione 12 agosto 2016 1
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Il genocidio è un crimine internazionale controverso? – Seconda parte
Di Richard Falk
1° agosto 2016
Mi sono interessato allo stallo esasperato tra la diaspora armena e la Turchia per il risarcimento dei torti collegati ai tragici eventi del 2015. La risoluzione di questo stallo dipende esclusivamente dalla disponibilità della Turchia di emettere un riconoscimento formale che i torti sopportati più di un secolo fa dal popolo armeno costituivano un genocidio. Nessuna forma minore di apologia da parte dei turchi, anche se accompagnata da iniziative che mantengono vive le memorie storiche, per mezzo di un museo, di materiali educativi ed eventi commemorativi, prevarranno su questa insistenza armena, appoggiata da molti governi occidentali, che la Turchia ammetta il genocidio.
Sands sembra comprensivo verso la difficoltà che presenta questa evidente feticizzazione del genocidio, quando scrive che “non è stata una sorpresa che un editoriale in un giornale molto importante, in occasione del centenario della lotta contro gli armeni, facesse notare che la parola ‘genocidio’ potrebbe essere inutile, perché provoca l’indignazione nazionale invece che il tipo di esame impietoso della storia di cui il paese ha bisogno.” [loc. cit 6618].
Contestare l’insistenza armena sul genocidio, è diventato politicamente non corretto, anche se il crimine era ignoto nel 1915, quando è avvenuto il comportamento illegale e la Turchia non esisteva essendo nata nel 1923. Naturalmente, queste considerazioni legaliste non risolveranno mai la controversia  che ciò che è profondamente in gioco, è il modo in cui le memorie storiche dovrebbero essere inscritte nella consapevolezza politica delle società sia delle vittime che dei perpetratori, e anche nei resoconti pubblici autorevoli. E’ plausibile ammettere che ciò che è accaduto cento anni fa avrebbe avuto i requisiti di crimine di genocidio, se fosse accaduto dopo il 1950. Il caso è ulteriormente complicato, perché molti turchi continuano a essere d’accordo con una narrazione storica che sostiene che i massacri derivarono da un eccessivo
uso della forza in una situazione di guerra in cui gli Armeni erano considerati una presenza sovversiva che era dalla parte degli avversari russi dell’Impero Ottomano nella I Guerra Mondiale e che comprendeva occasioni in cui anche i turchi venivano
massacrati. Questa contro-narrazione complica qualsiasi riconoscimento da parte dei turchi del genocidio, dar che turberebbe i pericolosi sentimenti ultra-nazionalisti che dominano l’estrema destra nel paese.
E’comprensibile dal punto di vista armeno che soltanto un’ammissione di  ‘genocidio’ può includere la grandezza dei torti subiti dal popolo armeno. Non c’è un’altra parola con un analogo potere analogo stigmatizzante. E’ stato questo potere che nel 1994 ha portato Bill Clinton, allora presidente degli Stati Uniti, a emettere il suo famigerato ordine che la parola ‘genocidio’ non doveva essere usata dai dipendenti governativi in riferimento alle uccisioni di massa che avvenivano in Ruanda. Evidentemente, Clinton temeva l’effetto di mobilizzazione che poteva essere causato dal etichettare questi eventi come genocidio, avrebbe esercitato una pressione indesiderata sugli Stati Uniti affinché intervenissero a fermare il massacro.
Questo è il punto di convergenza tra il genio di Lemkin e la verbosità di Lauterpacht, e con Sands sensibile alle virtù e alle limitazioni dei due punti di vista, anche se propende verso l’approccio di Lauterpacht. Naturalmente la colpa tedesca è piuttosto diversa negli aspetti essenziali, dalla realtà turca. Un ammissione di genocidio da parte della Turchia, se mai dovesse essere fatta, non verrebbe interiorizzata nella maniera imposta alla Germania dal programma di denazificazione attuato dai vincitori dopo la II Guerra Mondiale. E’ importante rendersi conto che il genocidio armeno non è emanato da un razzismo estremista che era strettamente collegato all’ascesa di Hitler basata su un virulento anti-semitismo.
In un certo senso Lemkin ha avuto troppo successo. Nella sua insistenza che ciò che i nazisti facevano agli ebrei e ad altri popoli, era un crimine contro il gruppo, è riuscito involontariamente a elevare il genocidio al di sopra dei crimini contro l’umanità e ha perciò indebolito l’interesse di Lauterpacht di promuovere la responsabilità internazionale per i crimini senza minare la pace tra gli stati. Ci sono altre preoccupazioni. Se  il genocidio viene  letto al contrario   nella storia, come nel caso armeno, apre un Vaso di Pandora che intensifica numerosi amari ricordi del passato, riapre ferite e sembra caricare eccessivamente le presenti   generazioni con un’eredità di criminalità che è stata opera di coloro che non sono più in vita. Quello che è peggio, l’Olocausto come contesto in cui il crimine è stato formalizzato, opera come standard di paragone: è il crimine dei crimini che sta dietro la concettualizzazione legale che scoraggia il suo riconoscimento da parte delle entità politiche che potrebbero essere pronte a esprimere le scuse ma non a suggerire che nel loro passato nazionale è un’esperienza che merita di essere trattata in maniera ugualmente riprovevole per quanto ciò che gli ebrei, e non soltanto gli ebrei, soffrirono per mano dei nazisti.
Dato un mondo di stati, forse  Lauterpacht, dopo tutto, ha adottato la posizione più sostenibile. Forse la cosa per cui si può sperare di più è una struttura di legge penale internazionale che persegua, come cosa appropriata, gli individui, e lasci il compito di fare la cronistoria agli storici, ai romanzieri, e ai registi di film. Anche qui ci sono problemi non affrontati da Lauterpacht o da Sands che si riferiscono al carattere gerarchico dell’ordine mondiale che fa di qualsiasi seria applicazione della legge penale internazionale più una creatura della geopolitica che un’espressione dello stato giuridico o un fondamento della giustizia globale.
Mentre Sands ha ragione di essere orgoglioso del suo rispettato ruolo di avvocato civilista dei crimini internazionali, adotta una posizione più discutibile minimizzando l’importanza della geopolitica. In un brano rilevante circa l’obiezione per Norimberga come ‘giustizia dei vincitori’, scrive: “sì, c’era un forte sentore della giustizia del vincitore [sic] [a Norimberga], ma non c’era alcun dubbio che il caso era catalizzatore, poiché apriva la possibilità che i capi di un paese potessero essere processati davanti a un tribunale internazionale, una cosa che non era mai accaduta prima. [loc.cit 288]. Un sentore! [Per coloro che non hanno familiarità con “sentore”, la definizione del dizionario è questa: “un breve odore che passa nell’aria, come ‘un sentore di profumo’ o “una piccolissima traccia, come in “un piccolo sentore di autocommiserazione nelle sue osservazioni’]. Considerando l’impunità conferita dalla struttura  di Norimberga al bombardamento indiscriminato, terrificante delle città tedesche [ricordate il libro di Kurt Vonnegut: Slaughterhouse Five – Mattatoio n.5], per non parlare del bombardamento di Tokyo e delle bombe atomiche fatte cadere su Hiroshima e Nagasaki, la dimensione dei vincitori non potrebbe essere emarginata in maniera convincente dai procedimenti legali complessivi. Era certamente più consequenziale perfino di ‘un forte sentore’! Anche il pubblico ministero americano, Robert Jackson, che è rappresentato molto ragionevolmente da Sands come la presenza più influente a Norimberga, capiva che la validità morale della decisione  era precaria e necessitava di futura discolpa venendo integrata in una cornice legale internazionale che legava tutti gli stati, vincitori e perdenti, forti e deboli. Che questo non accadesse mai merita un commento che Sands non riesce a fornire.
Sands, invece, ci ricorda c’è stato un gran seguito a Norimberga che appoggia la sua valutazione dell’impatto catalizzatore che ha avuto. Sands cita la sua personale ampia esperienza con entrambe le categorie di criminalità che comprendono: Serbia,  Croazia, Libia,  Stati Uniti,  Ruanda, Argentina, Cile, Israele e Palestina,  Regno Unito, Yemen, Iran, Iraq e Siria come se il solo elencarli dimostri la sua tesi. [loc.cit 6607]. Credo che il ragguardevole attivismo legale di Sands riesca soltanto a spostare il centro dell’attenzione. E’ vero, c’è stato un forte sviluppo dei diritti umani e della legge penale internazionale, specialmente dopo la fine della Guerra Fredda, ma questo fatto ha oscurato invece che superato questo difetto fondamentale. L’integrità dello stato di diritto come sistema globale operativo, dipende fondamentalmente dal trattare gli uguali allo stesso  modo, e questo non è mai successo e mai succederà senza una profonda trasformazione nella politica mondiale. Come hanno fatto notare i paesi africani in maniera plausibile, la responsabilità penale sia per i CAH che per il genocidio, è limitata agli stati deboli e alle parti che perdono e guerre, e l’impunità rimane per i forti e i vincitori. Aspetteremo a lungo che i simili di  George W. Bush o di Tony Blair vengano chiamati a rispondere del ruolo  che hanno avuto per essersi imbarcati in una disastrosa guerra di aggressione contro l’Iraq nel 2003.
E’ vero, introdurre queste categorie di criminalità nel vocabolario legale, ha dato un
prezioso strumento normativo alla società civile, dapprima dal molto calunniato Tribunale Russell nel bel mezzo della Guerra del Vietnam, e, più di recente, dal Tribunale per la Guerra in Iraq. Tuttavia, la società civile ha soltanto l’opinione pubblica a sua disposizione, e anche così, è ostacolata dall’orientamento statalistico della maggior parte degli organi di stampa che squalificano queste iniziative della società civile considerandole intrusioni illegittime nella sfera pubblica, riservate esclusivamente ai governi che rappresentano gli stati sovrani. Nel caso migliore, questi tribunali della società civile che approvano un giudizio sul comportamento dei protagonisti della geopolitica, sono espressioni di una consapevolezza morale che agisce come se queste norme della legge penale internazionale dovessero servire a dare regole universali, invece che a essere applicate in maniera selettiva.
Sands, insieme a Lauterpacht e a Lemkin, condivide la convinzione liberale che la legge sia una forza autonoma per il bene nelle faccende umane (a meno che non sia deformata nella sua applicazione come hanno fatto i nazisti). Il loro senso degli aspetti pratici sembra essere una disponibilità a sottovalutare i vincoli geopolitici, e fare quei passi progressivi  che  siano resi disponibili dalle circostanze, nella speranza e nell’aspettativa che nel corso del tempo la crescita della legge e delle istituzioni legali supererà l’attuale arbitrarietà della pratica. Nel frattempo, il test liberale di validità è un fatto di garanzie procedurali che i processi siano giusti e che coloro che sono detenuti, siano colpevoli di atti efferati che meritano di essere puniti. Il fatto relativo che alcuni sono troppo potenti per essere ritenuti responsabili, è un dato di fatto a cui è meglio non pensare troppo. Insieme ad intellettuali pubblici di gran lunga più illustri (per es. Russell, Sartre, Chomsky, Edward Said) dissento da questo ottimismo/opportunismo liberale, credendo che la coscienza dei cittadini impegnati sia una sfida indispensabile per tutti i sistemi politici, (dire la verità al potere) piuttosto che limitare i contributi costruttivi agendo al loro interno. Allo stesso tempo, non giudicherei le icone liberali, come Sands e Lauterpacht, che hanno fatto una scelta politica opposta alla mia.
Nel corso di questo saggio ho ignorato altre rilevanti pubblicazioni di Sands, soprattutto  il suo precedente libro, notevole e importante: Lawless World: America and the Making and Breaking of Global Rules [Mondo senza legge: l’America e il fare e infrangere le regole globali (2005)] che è una critica  ben motivata e documentata dell’approccio alla legge internazionale scelto dalla presidenza neoconservatrice di George W. Bush, specialmente rispetto alla guerra in Iraq, ma anche in reazione agli attacchi dell’11settembre. Anche se diamo valore a questo contributo al dibattito politico svoltosi in quel periodo, è pienamente coerente con l’orientamento liberale che è spesso quello di opporsi alle attività americane e britanniche in politica estera , specialmente se per caso si rivelano infruttuose,  se sono marginali rispetto agli interessi nazionali o strategici, e se dipendono dagli usi aggressivi e unilaterali della forza che non sono autorizzati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. In questa maniera il massiccio Rapporto Chilcot pubblicato di recente, che valuta il coinvolgimento britannico nella guerra in Iraq, segue una linea parallela, condannando qualsiasi decisione di andare in guerra, se non sulla base di un’adeguata pianificazione  e  della crescita di un appoggio pubblico, ma evitando il problema che fosse anche obbligatorio da parte della Gran Bretagna di ottemperare alla legge internazionale e alla Carta dell’ONU. Malgrado i 2,3 milioni di parole del rapporto, in nessun punto c’è un accenno alla probabile responsabilità personale di Blair che la legge penale internazionale dovesse essere adeguatamente applicata.
Come espresso all’inizio, malgrado queste differenze, ammiro molto l’autore e lodo la prestazione stupefacente di Sands. Tra le altre qualità, Sands dimostra un’incredibile disponibilità a sforzarsi per ottenere i dettagli corretti. Rintraccia indirizzi, parenti, documenti poco noti e fotografie, per mettere insieme una narrazione affascinante di queste tre vite e delle loro famiglie,  gestendo  uno dei traumi collettivi più smisurati di ogni tempo. Come ho detto, questo libro può e dovrebbe essere ampiamente letto da molti punti di vista, e la psico-politica che ci fa conoscere, si dà il caso che mi interessi moltissimo, ma è soltanto uno dei vari elementi di questo affresco eccezionalmente ricco, e ognuno merita un analogo commento dettagliato.
Nella foto: Philippe Sands
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/is-genocide-a-controverasial-international-crime
Originale: Richardfalk.com
Traduzione di Maria Chiara Starace

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