Fabio Scuto: "Voto dell'Unesco su Gerusalemme, è scontro con Israele"


i rapporti fra Nazioni Unite e Israele sono caratterizzati da una tensione permanente che in qualche occasione si trasforma in scontro aperto. Si va dalla questione degli insediamenti nei territori occupati agli interventi militari contro Gaza ai metodi usati da Israele per reprimere la rivolta palestinese. Su tutti questi temi l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si esprime periodicamente a maggioranza per condannare Israele, e soltanto i veti opposti sistematicamente dagli Stati Uniti (oltre 40 volte dal 1972 a oggi) impediscono al Consiglio di Sicurezza di approvare risoluzioni che avrebbero effetti molto più concreti che non le risoluzioni dell’Assemblea Generale. L’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite per cultura e scienza, ha adottato ieri una risoluzione dedicata alla “tutela del patrimonio culturale della Palestina e il carattere distintivo di Gerusalemme Est”. Nei 42 paragrafi della risoluzione si denuncia il comportamento di Israele per quello che viene definito il mancato rispetto dei luoghi santi dell’Islam e per “il crescendo di aggressioni e di misure illegali contro la libertà di preghiera dei musulmani” negli stessi luoghi.
UN TESTO certo pesante nella sostanza, ma la vera ragione dell’inasprirsi della crisi fra l’Unesco e Israele (che ha sospeso la sua partecipazione all’organizzazione) non si riferisce tanto ai punti della requisitoria contro il comportamento del governo israeliano ma alla terminologia usata. La risoluzione riprende infatti, per definire quella parte di Gerusalemme, unicamente il suo nome musulmano, Haram el Sharif (il Nobile santuario) e non quello usato dagli ebrei, Har ha- bayit (“Monte del tempio”). Come accade inevitabilmente nelle questioni che vedono la contrapposizione di divergenti interpretazioni storiche e di incompatibili rivendicazioni, le parole risultano più pesanti della sostanza delle cose. Se non fosse stato per questo dato terminologico Israele avrebbe reagito a questa ennesima condanna in sede Onu ribadendo le proprie posizioni — e di fatto ignorandola sostanzialmente. Questa volta però si è toccato un punto veramente irrinunciabile per gli israeliani (non solo per il governo Netanyahu) e, va aggiunto, per gli ebrei della diaspora, anche i più progressisti e aperti alle ragioni dei palestinesi.
Sono pochissimi gli ultra sionisti che chiedono che il Monte del tempio venga recuperato per l’ebraismo cancellando le tracce della presenza musulmana, ma tutti gli israeliani e tutti gli ebrei considerano il Muro del pianto, che fa parte della zona presa in considerazione dalla risoluzione dell’Unesco, come il più sacro per l’identità ebraica, sia religiosa che culturale. Come ha ricordato il direttore generale dell’Unesco Irina Bokova, palesemente a disagio per la situazione, Gerusalemme deve essere vista come «spazio condiviso di patrimonio e tradizioni per ebrei, musulmani e cristiani». Si tratta di un punto irrinunciabile non solo perché non è ammissibile non riconoscere — ovunque — la realtà plurale della cultura e della storia, ma anche perché nessuna soluzione del conflitto israeliano- palestinese può venire dalla pretesa, israeliana o palestinese che sia, di ignorare, annullare, sradicare o sottomettere la presenza dell’altro popolo.
Oggi la potenza militare ed economica dello stato di Israele viene spesso esercitata ignorando regole internazionali (come la Quarta Convenzione di Ginevra, violata dalla costruzione di insediamenti nei territori occupati nel 1967) e principi umanitari. È giusto che la comunità internazionale condanni queste violazioni e si schieri a favore del riconoscimento di uno Stato palestinese. Su questo esiste un ampio consenso della comunità internazionale — un consenso che però verrebbe meno se il riconoscimento del diritto dei palestinesi di avere un proprio stato dovesse essere associato alla negazione dei diritti di Israele, compresi quelli relativi al patrimonio culturale e religioso. Nel promuovere e fare approvare la risoluzione i paesi musulmani — fra l’altro non certo modelli di pluralismo sia religioso che culturale — hanno quindi commesso un grave errore, fornendo argomentazioni a chi, come la destra israeliana, sostiene che l’idea dei due stati è irreale o fraudolenta, dato che è l’esistenza stessa di Israele, e non i suoi limiti territoriali o le sue azioni, ad essere messa in causa. È interessante vedere come si è votato: si sono espressi a favore della risoluzione 24 paesi, nella maggioranza arabo-musulmani con l’aggiunta di Russia, Cina, Brasile e Sudafrica; contro, sei paesi, fra cui Usa, Regno Unito, Germania e Olanda; si sono astenuti 26 paesi. Fra questi l’Italia, che si era astenuta anche nel 2011 quando all’Unesco si era votato sull’ammissione della Palestina come paese membro. Forse per dare credibilità alla nostra posizione (riconoscimento di uno stato palestinese; riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza) avrebbe avuto più senso votare a favore nel 2011 e contro in questa occasione.


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