LA VERA STORIA DELL’ACHILLE LAURO

 
 
 

 
 
Una ricostruzione inedita del caso che portò alla prima vera crisi fra Italia e Stati Uniti. L’importanza dell’Egitto nella gestione della crisi. L’ambiguo rapporto tra Arafat e Abu Abbas. Perché l’Occidente non vuole capire gli arabi.
di Jacopo TURRI
UN COLONNELLO DELL’ESERCITO, UN capitano di fregata della Marina, un tenente colonnello dell’Aeronautica, tutti e tre in uniforme da sera riuniti attorno ad un telefono nell’Ufficio militare dell’ambasciata, al Cairo. Erano le sette di sera del 7 Ottobre 1985. Il colonnello, la cornetta in mano, parlava con il capitano Atwa, l’harbor master – il direttore del porto – di Port Said: «Capitano, è già arrivata l’Achille Lauro? Secondo gli orari dovrebbe avere attraccato da un paio d’ore, proveniente da Alessandria…» «Non ancora, ma è un ritardo che per una nave passeggeri rientra nei limiti del normale».
«Può collegarsi via radio e sentire se a bordo tutto procede regolarmente? Roma ha avuto segnalazione di un possibile dirottamento e l’ambasciatore ci ha spedito in ufficio di urgenza dal ricevimento dell’ambasciata indonesiana…» «Un dirottamento? Di una nave? Non è cosa comune. Se non sbaglio l’unico precedente risale agli anni Cinquanta». Atwa non sembrava dar credito all’ipotesi di un atto terroristico e restava discorsivo: «Ad ogni modo restate in linea mentre provo a collegarmi con la Lauro».
Qualche minuto ancora. Poi la voce dell’harbor master risuonò di nuovo nel telefono. Il tono era cambiato, divenuto formale: «Colonnello, credo che debba informare subito Roma. Io penserò al Cairo».
«Allora ha avuto conferma del dirottamento».
«Non esplicitamente. Ma l’operatore che risponde alla radio del transatlantico parla solo arabo e per di più con un forte accento palestinese. Non mi pare normale…»

Il ruolo del Cairo

Ebbe così inizio, con tre ufficiali in uniforme da sera riuniti intorno ad un telefono, la fase egiziana dell’affaire Achille Lauro. Una fase importante per la comprensione dell’intero andamento della crisi, del suo sviluppo, della sua conclusione. Un aspetto della vicenda che viene comunque sovente sottaciuto, spesso addirittura ignorato. Nelle analisi condotte dopo la conclusione degli eventi l’attenzione si focalizza infatti pressoché unicamente su due soltanto dei grandi protagonisti internazionali. Il partenariato iniziale, nel periodo in cui la nave rimase in mani palestinesi, il confronto successivo – allorché divennero chiari tutti gli aspetti e le implicazioni del dirottamento dell’aereo Egypt Air su Sigonella – è sempre fra l’Italia e gli Stati Uniti. A seconda dell’ottica con cui è condotto l’esame noi siamo gli infidi, i Machiavelli che si spingono a compromessi forse anche compresi entro i limiti della legge ma che di sicuro esulano da quelli dell’equità e della morale, loro invece i buoni, i cowboy dal cappello e dal cavallo bianco spinti da un’ansia di giustizia che è tutto fuorché ricerca di vendetta. Oppure, al contrario, gli Usa sono i prevaricatori, gli amerikani col kappa che tentano permanentemente, con ipocrisia protestante, di ammantare di buoni motivi e di elevati sentimenti la violenza e la ragione di Stato, noi invece siamo per una volta i Robin Hood, Pollicino che fa lo sgambetto all’orco, i protagonisti di una delle tante periodiche riedizioni del mito di Davide contro Golia.
In comune le due ottiche hanno, come già si è accennato, solamente un particolare. In entrambe l’Egitto, e gli egiziani, ricoprono un ruolo di limitata importanza. Visto come e dove si svolsero i fatti non si può certamente escludere dalla vicenda il paese dono del Nilo. Mubarak, Abu Ghazala, il suo ministro della Difesa, Abd El Meguid, Boutros Boutros Ghali, Osama El Baz, all’epoca il vertice dello staff diplomatico del paese, restano però in seconda linea. Non sono comprimari, ma comparse. Non parti attive, ma soggetti passivi. Non fanno la storia, la subiscono.
Si arriva addirittura al punto che nell’esaminare i messaggi trasmessi dal Cairo a Roma, o a Washington, l’attenzione è centrata molto di più sui commenti formulati a margine dagli ambasciatori italiano e statunitense, piuttosto che sull’essenza di quanto comunicato dal governo egiziano. Con ciò non si vuole certo sminuire il valore dei due diplomatici – e l’ambasciatore Migliuolo, in particolare, fu uno dei colossi della nostra diplomazia – ma semplicemente sottolineare la parzialità e l’incompletezza di ottiche che finiscono col risultare devianti per la piena comprensione dei fatti.
Dall’inizio alla fine della crisi, e in entrambe le sue fasi, il Cairo fu infatti il terzo grande protagonista dell’episodio, su cui manteneva un pressoché ininterrotto potere di controllo derivante dal fatto che la nave prima si mosse nelle acque territoriali egiziane, salvo il breve intervallo durante il quale si portò di fronte al porto siriano di Tartous, poi restò ancorata a Port Said. Per il diritto internazionale essa rimase quindi sottoposta alla competenza delle autorità di polizia e di quelle giudiziarie dell’Egitto. Condizione che in alcuni momenti poté essere utilizzata come una leva, trasformando passeggeri ed equipaggio in potenziali ostaggi nelle mani del Cairo e influenzando, molto più di Washington, Roma, che aveva a bordo alcune centinaia di nazionali.
Benché importante, il «controllo» dell’Achille Lauro non fu comunque l’unico strumento attraverso cui il Cairo sviluppò il proprio ruolo nel corso della crisi. A determinare tale ruolo concorse invece tutta una complessa serie di fattori in cui, come succede in episodi del genere, persino il caso svolse la propria parte. E si trattò di una parte determinante!
A causa della sua specialissima collocazione politica l’Egitto funzionò infatti in quel momento come cerniera tra il mondo arabo e quello occidentale, fra la rispettabilità dei governi nazionali, la semirispettabilità dell’Olp e l’assoluta assenza di rispettabilità dei movimenti terroristici palestinesi.
Nello stesso tempo, oltre che come mediatore, il Cairo si ritrovò, molto suo malgrado, a dovere agire anche come protagonista. Un ruolo duplice, di cui a volte fu difficile conciliare aspetti e necessità differenti. Ma per avere un’idea più chiara di come esso fu ricoperto e di come si svolsero i fatti sarà forse meglio prendere in esame, anziché l’intera crisi, tre momenti di essa ben determinati.
Il primo riguarda la scelta della personalità palestinese, il capo guerrigliero Abu Abbas, destinata a fungere al Cairo da collegamento fra l’ambasciata italiana e il commando arabo che si trovava a bordo della nave. Una scelta strana, per molti versi inesplicabile, che generò all’inizio una tragicomica commedia delle parti, innescando in seguito il dirottamento dell’aereo Egypt Air su Sigonella.
Il secondo concerne interrogativi ancora irrisolti, riferiti al modo seguito dagli Usa per identificare tale aereo e conoscerne le coordinate di viaggio.
Il terzo è infine centrato sulla sosta dell’Achille Lauro a Port Said nel periodo in cui fra Roma e Washington si giocava la partita a scacchi che aveva come posta la liberazione o meno di Abu Abbas, nonché il rilascio del velivolo, assurto per l’Egitto al valore di simbolo. Di fonti egiziane o arabe che descrivano questi aspetti dell’incidente ne esistono molto poche. Quelle poche poi sono tutte di parte; riportano quindi pressoché unicamente versioni ufficiali dei fatti e peccano, se non altro, per omissione. Più che su tali fonti la ricostruzione degli episodi che segue è basata quindi su testimonianze personali, integrate dai sussurri e dalle voci che circolavano all’epoca al Cairo e in tutto il mondo arabo. Forse essa non sarà verità al cento per cento. Di sicuro comunque introdurrà nelle versioni della crisi ufficialmente accettate elementi nuovi che sarà per lo meno opportuno verificare.

L’equivoco Abu Abbas

Alle 22,30 del giorno 7 ottobre 1985, immediatamente dopo aver presieduto un vertice che ebbe luogo presso il ministero della Difesa e in cui si decisero le prime misure di carattere militare da adottare, il presidente del Consiglio italiano, Craxi, e il ministro degli Esteri, Andreotti, iniziarono a collegarsi telefonicamente con alcuni dei maggiori responsabili politici arabi. Al Cairo Andreotti rintracciò il ministro di Stato agli Esteri (sottosegretario) Boutros Boutros Ghali, che gli assicurò ogni possibile collaborazione. A Tunisi, Craxi prese contatto con il primo ministro Mzali, che garantì anche egli la piena disponibilità del suo paese alle iniziative italiane. Mezz’ora più tardi, alle 23, Andreotti tentò di reperire il presidente dell’Olp, Arafat. Non lo rintracciò, ma alle 23,30 fu l’Olp a farsi viva, dichiarandosi pronta a fornire ogni collaborazione necessaria. Alle 3 dell’8 ottobre, vale a dire tre ore e mezza dopo l’inizio dei contatti, Arafat in persona comunicò poi tanto a Craxi che ad Andreotti che due mediatori palestinesi, Hani El Hasan e Abu Abbas, si trovavano già in volo per il Cairo, incaricati di cooperare con gli egiziani e gli italiani e di facilitare le trattative aprendo un canale di comunicazione con il commando terroristico installato a bordo dell’Achille Lauro. Un’ora dopo, alle 4 del mattino, il Sismi informò palazzo Chigi, gli Esteri e la Difesa di come Abu Abbas fosse in realtà uno dei più noti fra i capi guerriglieri e rivestisse all’interno dell’Olp una posizione del tutto particolare. Schierata a sostegno del più ampio movimento di Arafat, la sua fazione, pur di dimensioni ridotte, consentiva infatti al presidente dell’Olp non solo di conservare la maggioranza in seno all’organizzazione, ma anche di continuare ad affermare di godere dell’appoggio di una pluralità di formazioni politiche. Il rapporto di forza fra i due uomini, Arafat e Abu Abbas, era dunque l’esatto contrario di ciò che esso poteva apparire a prima vista, in quanto era il presidente che si trovava in soggezione dell’altro, non viceversa.
Questa versione dei fatti, che è quella ufficiale, lascia aperti e irrisolti alcuni interrogativi maggiori. Quale poteva infatti essere l’interesse di Abu Abbas a proporsi come mediatore per la complessa azione terroristica che egli stesso stava pilotando? E soprattutto, perché l’Olp e Arafat si erano prestati ad avallare una designazione destinata quasi sicuramente a rivelarsi controproducente e a inquinare i rapporti politici dell’Organizzazione con due paesi come l’Egitto e l’Italia, da sempre fra quelli che fornivano ai palestinesi maggior supporto politico?
Abu Abbas riuscì a celare la sua qualità di primo referente del commando dei dirottatori solo per un tempo molto breve. Come iniziò a parlare via radio con coloro che si trovavano a bordo, uno dei terroristi, giovanissimo e privo di esperienza, lo interruppe con un: «Comandante, è lei! Come siamo contenti di sentire la sua voce!» E l’uso della parola «comandante» mise immediatamente in allarme i cento diversi centri di intercettazione attivati per l’occasione in tutto il bacino del Mediterraneo. L’impressione di precisa dipendenza gerarchica suscitata dal termine fu poi puntualmente confermata dalle successive conversazioni.
Da quel momento in avanti le riunioni di mediazione che si svolsero al Cairo, presso l’ambasciata d’Italia o il ministero degli Esteri egiziano, divennero veramente la commedia degli equivoci. L’ambasciatore Migliuolo sapeva chi fosse Abu Abbas ma doveva fingere di non saperlo. Boutros Ghali sapeva di Abbas e sapeva che Migliuolo sapeva ma doveva fingere di non sapere che essi sapevano. Abu Abbas sapeva che Migliuolo… e che Boutros Ghali… e avanti di questo passo, in un gioco diplomatico estremamente disagevole che si interruppe poi solo con il dirottamento di Sigonella e l’irrompere sulla scena del terzo protagonista, gli Usa, non disposto ad associarsi ad una trattativa tanto bizantina, o forse incapace di farlo.
Alla luce di quanto successe acquista in effetti attendibilità la versione verbale araba che attribuisce a un eccesso di zelo e a un errore dei servizi egiziani la presenza di Abu Abbas al tavolo delle trattative.
Secondo tale interpretazione dei fatti, dopo la telefonata di Andreotti, che gli ha parlato anche della necessità di coinvolgere l’Olp nell’azione diplomatica (ore 22,30 del 7 ottobre), Boutros Ghali inizia a cercare un mediatore palestinese. A Tunisi, Arafat non è immediatamente rintracciabile ma il servizio segreto militare della repubblica egiziana informa Ghali di come poco dopo la mezzanotte un’alta personalità dell’Organizzazione – Abu Abbas appunto – atterrerà all’aeroporto del Cairo, imbarcato su un aereo proveniente da Baghdad, diretto a Tunisi e per cui è previsto uno scalo tecnico in Egitto. Il palestinese appare a Boutros Ghali come una soluzione rapida e brillante del problema. Un riluttante Abu Abbas è quindi prelevato quasi a forza dall’aereo e trascinato al ministero degli Esteri. A questo punto l’errore che condizionerà in negativo l’intera vicenda è un fatto compiuto. Arafat, contattato poco dopo, non può fare altro che approvare la scelta delle autorità cairote ufficializzandola presso il governo italiano (ore 3 dell’8 ottobre). Che poi il presidente sappia o meno in quel momento che Abbas è anche il responsabile del dirottamento è elemento completamente ininfluente nel determinare la sua decisione; le cose si sono messe da sole in maniera tale da non lasciargli alcuna reale possibilità di scelta.

Americani ed egiziani

Il dirottamento su Sigonella dell’aereo Egypt Air in servizio di Stato che trasportava a Tunisi, nella notte fra il 10 e l’11 ottobre, il commando terrorista e i «mediatori » palestinesi fu il frutto di una brillante operazione di intelligence. Decisi a non agire né sul territorio egiziano né su quello tunisino per le gravi conseguenze di politica internazionale che ciò avrebbe comportato, gli Usa scelsero di intervenire all’atto del trasferimento dei dirottatori da un paese all’altro. Decisione che però richiedeva, a monte, la tempestiva conoscenza di vettore, data, orario, tragitto, insomma di tutti i parametri del viaggio.
Secondo la versione più accreditata – qui, ed è comprensibile, non esistono versioni ufficiali – gli Usa avrebbero ricavato le necessarie informazioni dall’intercettazione delle comunicazioni telefoniche del presidente Mubarak.
Gli Stati Uniti possedevano certamente la capacità tecnica necessaria. Oltretutto la presenza americana in Egitto era in quegli anni capillare; l’ambasciata degli Stati Uniti al Cairo figurava fra le più grandi del mondo, mentre gli egiziani che, in una maniera o nell’altra dipendevano dagli Usa per il loro stipendio, assommavano a più di trentamila. Nel paese del Nilo l’America poteva quindi giungere dappertutto, arrivando a inserirsi senza grande difficoltà persino nel telefono del presidente.
Una versione del genere, molto semplicistica, rivela però subito lacune e ingenuità se sottoposta a un minimo di esame critico. Mubarak e il suo entourage conoscevano infatti benissimo non soltanto le possibilità tecniche ma anche i processi mentali e il modo di agire e reagire degli statunitensi. Il consigliere politico presidenziale, Osama El Baz, aveva completato la sua educazione in una prestigiosa università d’oltreoceano. Il ministro della Difesa aveva ricoperto per anni, a Washington, l’incarico di addetto militare. Da più di dieci anni tutto lo staff egiziano era inoltre abituato a trattare soprattutto con gli Stati Uniti, considerati a giusto titolo come la prima e la più importante delle controparti. Se a ciò si aggiunge l’istintiva diffidenza araba, allora risulta ben difficile immaginare il presidente Mubarak impegnato senza preoccupazioni al telefono in dialoghi destinati a fornire agli americani in ascolto tutti i dati necessari.
Una seconda versione che al momento sembrò abbastanza attendibile, e fu infatti ripresa da alcune fonti diplomatiche, attribuiva invece al ministro della Difesa egiziano, il field marshall Abu Ghazala, la responsabilità di avere trasmesso agli Usa le coordinate del volo Egypt Air in partenza. Secondo questa interpretazione dei fatti il ministro, eterno delfino del presidente, avrebbe agito nell’intento di porre in crisi Mubarak, squalificarlo sulla scena internazionale, provocare reazioni interne e infine allontanare il rais dal potere per prendere il suo posto. Si sosteneva, a riprova di tale ipotesi, che il field marshall era sempre stato l’uomo degli statunitensi sulla scena nordafricana, il braccio sempre pronto a soddisfare ogni loro necessità o richiesta. Venivano però omessi, nel tracciare un simile quadro, due elementi fondamentali. Il primo consisteva nel fatto che Abu Ghazala si era già trovato, alla morte di Sadat, nelle migliori condizioni di assumere una presidenza che invece non aveva preteso. In maniera altrettanto corretta il field marshall si sarebbe poi comportato pochi mesi dopo l’affare Lauro allorquando, nel gennaio-febbraio 1986, la rivolta della polizia del Cairo fece confluire sulla capitale quattro divisioni dell’esercito composte da solo personale di carriera. Anche in quella occasione, perfetta per un colpo di Stato, il ministro non si mosse e certo non per paura, visto che il suo coraggio personale era leggendario nelle forze armate. La sola conclusione possibile è dunque che Abu Ghazala fosse realmente fedele a Mubarak e non aspirasse affatto a succedergli sulla poltrona.
Diagnosi confermata dal secondo degli elementi di cui si faceva cenno, il fatto che dopo il dirottamento di Sigonella la crisi non precipitò la dirigenza egiziana in una lotta di fazioni. Essa riuscì anzi a compattarla, passando in secondo ordine e rendendo per qualche tempo irrilevante la eterna querelle fra i quattro titolari dei ministeri di prestigio (Interno, Esteri, Difesa e Agricoltura), tutti vice primi ministri e tutti in lotta per prevalere l’uno sull’altro.
Rimane in piedi, a questo punto, soltanto l’ultima delle possibili versioni, quella secondo la quale gli Usa, dopo avere allertato tutti i loro informatori, ricevettero una segnalazione relativa alla coda di un aereo di linea dell’Egypt Air che superava il muro di cinta dell’aeroporto di Almaza, risultando visibile dall’esterno. Si trattava di un’anomalia di cui era opportuno tener conto, dato che Almaza – vecchio aeroporto costruito un tempo alla periferia del Cairo ed ora inglobato nella città – veniva utilizzato da anni unicamente come aeroporto militare. L’informazione ne completava poi un’altra, pervenuta in precedenza, e che attribuiva al presidente e al ministro della Difesa l’intenzione di utilizzare per il trasferimento aereo un trasporto civile e non un velivolo militare. Temendo un colpo di mano statunitense essi non volevano infatti porre l’aeronautica egiziana di fronte al dilemma di aprire il fuoco sul migliore alleato o di squalificarsi non reagendo. Anche qui siamo ovviamente nel campo dei si dice. Qualora fosse confermato, comunque, che il vertice egiziano aveva realmente preso in esame la possibilità di un’intromissione degli Usa, ciò renderebbe ancora più improbabile l’ipotesi dell’intercettazione americana sui mezzi di comunicazione del presidente.

Una commedia all’italiana?

L’aereo Egypt Air che trasporta i palestinesi, dirottato dai caccia statunitensi alle 22,30 circa di giovedì 10 ottobre, atterra nella base di Sigonella poco dopo la mezzanotte. Il velivolo rimarrà in territorio italiano dalle 00,15 del venerdì il ottobre alla tarda mattinata di domenica 13 ottobre. Il suo decollo è preceduto dalla partenza del passeggero più importante, Abu Abbas, imbarcato alle 18,45 di sabato 12 su un aereo di linea jugoslavo che da Fiumicino lo porterà verso Belgrado e la libertà. Durante tutto il lasso di tempo che intercorre tra dirottamento e rilascio dell’aereo, da giovedì 10 a domenica 13, l’Achille Lauro rimane ancorata a Port Said.
Secondo il piano di viaggio originario, concordato fra le autorità egiziane e quelle italiane, al rilascio della nave da parte dei terroristi il transatlantico doveva salpare le ancore alla volta dell’Italia nella prima mattinata di venerdì 11. Fra le cinque e le sei di mattina di quel giorno però, allorché le macchine cominciavano ad essere già in pressione, la partenza della nave venne fermata. Nella notte si è verificato il dirottamento dell’aereo Egypt Air e gli egiziani non sono affatto convinti, almeno in questo stadio iniziale della vicenda, che gli italiani siano completamente estranei al colpo. Tendono anzi a ritenersi vittime di una commedia che Washington e Roma reciterebbero in pieno accordo fra loro.
Il canovaccio comprenderebbe una serie di finte schermaglie e si concluderebbe con la consegna dei palestinesi alla giustizia degli Stati Uniti, un esito che il governo egiziano non può assolutamente accettare. L’Egitto si sta infatti adoperando da anni per essere riammesso nella Lega araba e sa bene come in un simile caso le masse islamiche, da Casablanca al Golfo Persico, lo considererebbero corresponsabile dell’imprigionamento dei «combattenti per la libertà». Tra terroristi e patrioti la linea di confine è sempre molto aleatoria; spesso si sposta in accordo con l’ottica di chi guarda!
Per Mubarak e il suo staff dirigenziale la crisi deve dunque concludersi con la liberazione di Abu Abbas. Non vi è altra soluzione accettabile, a meno di essere disposti a subire ripercussioni politiche che possono rivelarsi gravissime. C’è oltretutto già da tenere conto di come, pur nella sua tradizionale, sconfinata e a volte eroica capacità di sopportazione, il popolo egiziano abbia recepito il dirottamento quale un ceffone in pieno volto. Un’offesa subita di fronte a tutto il mondo, una perdita completa di faccia. Ancora più difficile da dimenticare, quindi.
Per fortuna, ragiona il Cairo, se Roma ha l’aereo e i palestinesi, noi abbiamo la nave e circa quattrocentotrenta persone bloccate a bordo, fra passeggeri e membri di equipaggio. Non vogliamo però metterci dalla parte del torto, con provvedimenti arbitrari e che potrebbero essere interpretati come un controsequestro. Non ve ne è nessun bisogno, visto anche che disponiamo di un’intera panoplia di mezzi legali, utilizzabili in qualsiasi momento.
Così le autorità egiziane che salgono sulla Lauro nella prima mattinata di venerdì 11 e impongono al comandante De Rosa di sospendere la partenza, informano anche l’ufficiale di come tutte le persone presenti a bordo vengano poste sotto inchiesta.
Il tribunale per la sicurezza dello Stato dovrà appurare se vi sia fra loro qualcuno a conoscenza della verità sull’uccisione del passeggero americano Klinghoffer da parte dei palestinesi. Una verità che, come sottolineano gli egiziani, fu taciuta agli inquirenti incaricati della prima inchiesta sommaria all’atto della liberazione della nave. L’omissione ha avuto conseguenze gravi: rassicurato sulla sorte dei passeggeri, il presidente Mubarak ha infatti deciso di rilasciare il commando pale­stinese, dando il via alla concatenazione degli avvenimenti che ha portato a Sigonella e alla crisi internazionale in atto. Si delinea così un’impressionante serie di reati che potrebbe essere contestata a tutti coloro che erano, direttamente o indirettamente, a conoscenza dell’uccisione del passeggero americano. Le pene per tali reati, come gli egiziani sottolineano subito all’equipaggio, possono ammontare a parecchie decine di anni di reclusione.
Sulla nave – ove quasi tutti sapevano e ove la decisione iniziale di tacere era stata motivata dal desiderio di proteggere coloro che avevano gettato a mare il corpo dell’americano sotto la minaccia dei kalashnikov e temevano quindi di poter essere trattenuti in Egitto, se non altro per la durata di un’inchiesta – la tensione sale istantaneamente. Raggiunge poi vertici pericolosi poco dopo, quando nel corso della medesima mattinata le autorità egiziane isolano la nave, vietando qualsiasi comunicazione con l’esterno al personale, ormai prigioniero a bordo.
Solo nel primo pomeriggio, con l’arrivo degli addetti militari dell’ambasciata italiana del Cairo che si interpongono fra l’equipaggio e la commissione d’inchiesta e rimarranno sulla Lauro sino alla fine della vicenda, la situazione si normalizza.
A quel punto però attraverso le comunicazioni dell’ambasciatore Migliuolo il governo italiano è chiaramente informato dei termini precisi che vengono indirettamente offerti dall’Egitto per il baratto. Abu Abbas libero e l’aereo Egypt Air rilasciato, da un lato. La Lauro che salpa e il personale a bordo prosciolto dalla commissione di inchiesta, dall’altro.
Vi è da chiedersi, a questo punto, se il governo italiano abbia avuto o meno una reale alternativa, una vera possibilità di scelta. Le trattative triangolari a Roma si prolungarono ancora per più di un giorno, fino alle 18,30 del sabato, con telefonate di uomini di Stato, visite urgenti di ambasciatori, inseguimenti di giudici armati di citazioni, spostamenti di aerei da un aeroporto all’altro. In un certo senso ci fu anche, all’interno stesso del nostro governo, il tradizionale scontro fra le due correnti che abitualmente vi convivono; quella più filoatlantica, pilotata tradizionalmente dal ministro della Difesa (all’epoca Spadolini) e quella maggiormente terzomondista, e quindi più filoaraba, che fa capo al ministro degli Esteri (Andreotti).
Considerati i fatti vi è però da chiedersi se non fu proprio quella la vera commedia, giocata a beneficio degli Usa, che alla fine risultarono i veri perdenti dello scontro.
A bordo della nave nulla cambiò sino all’ultimo. Commissione di inchiesta egiziana e personale dell’ambasciata d’Italia si fronteggiarono muro contro muro con atteggiamento corretto ma sempre durissimo. Neanche il rilascio di Abu Abbas produsse apprezzabili modifiche. Nella tarda serata di sabato 12 il personale italiano apprese dall’ambasciatore Migliuolo che qualcosa stava cambiando. Il capo missione non diede spiegazioni precise – parlava per telefono ed era sicuro di essere intercettato – ma comunicò di tenersi pronti a salpare su ordine in qualsiasi momento. Gli egiziani portarono avanti l’inchiesta anche nella notte fra sabato e domenica, iniziando gli interrogatori alle 22 e prolungandoli poi per parecchie ore.
Soltanto la mattina successiva, domenica 13, fu chiaro che qualcosa era cambiato.
L’atteggiamento della commissione di inchiesta iniziò a mutare radicalmente. Allor­ché un membro dell’equipaggio, interrogato, ammise di avere assistito all’uccisione del passeggero americano, il giudice gli spiegò cortesemente come, essendo avvenuto il reato in acque territoriali siriane, non si trattasse di avvenimenti di competenza di una corte egiziana.
La Lauro fu lasciata libera di partire verso le 11,30. Salpò da Port Said più o meno alle 13 di domenica 13 ottobre; orientativamente alla stessa ora l’aereo Egypt Air lasciava i cieli italiani puntando sul Cairo.

Quando non si vuole capire

Tre episodi, tre soltanto, scelti nel quadro ben più complesso di questa crisi che fu così lunga e articolata. Se ne potrebbero analizzare decine di altri ma già questi bastano a chiarire come sia illusorio cercare di comprendere l’andamento dei fatti allorché viene arbitrariamente cancellato dal quadro generale, o sottovalutato, uno dei protagonisti comprimari.
Perché ciò avviene? Le spiegazioni possono essere tante. Forse c’è ancora un inconscio rifiuto, da parte dell’Occidente, di considerare al suo livello paesi che un tempo dipendevano da potenze europee. Discorso che è evidentemente valido anche allorché si tratta di Stati con civiltà millenarie, come l’Egitto. O forse la vera barriera è quella linguistica, che forza la maggioranza di coloro che approfondiscono le indagini nelle nostre università e centri di studio a servirsi unicamente di fonti redatte in lettere latine. In tal modo, progressivamente, l’interpretazione diventa sempre più di parte e nell’assenza di fonti arabe anche i protagonisti arabi finiscono con lo sparire dal quadro complessivo.
O forse infine, e questo è probabilmente il motivo reale, la barriera è una barriera culturale vera e propria. Non siamo in grado di comprendere mentalità e cultura degli arabi, di risalire alle categorie logiche della loro civiltà, di riconoscere la razionalità e la consequenzialità delle loro decisioni delle loro reazioni. Così facciamo un passo indietro, rifiutando di prendere in esame quello che abbiamo difficoltà a comprendere.
Procedimento che è scientificamente scorretto, intellettualmente stupido, umanamente non scusabile e politicamente pericoloso.

 

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