Amira Hass : Quando i ‘giornalisti’ israeliani trasmettono [l’argomento] coloni
Amira Hass, 6 febbraio 2017 Haaretz
Il
sindaco di Silwad, un villaggio palestinese la cui terra è stata rubata
a favore della colonia di Amona, ha detto che i coloni espulsi
dall’insediamento dovrebbero tornare in Europa. La radio israeliana ha
riportato queste considerazioni – ma non ha spiegato il contesto.
Mentre
il ‘circo equestre’ di Amona veniva raccontato da ogni prospettiva, e
con accondiscendenti accenti di comprensione per i ladri di terra,
Reshet Bet, di radio Israele, si è presa il disturbo di raccontarci
anche il punto di vista dei palestinesi. Indirettamente.
Il
presidente del consiglio comunale di Silwad, uno dei villaggi la cui
terra è stata rubata a favore della colonia, è stato intervistato da un
canale televisivo collegato ad Hamas e ha detto che la soluzione per le
persone evacuate (da Amona, ndtr.)
è di ritornare in Europa, il luogo da cui sono venuti. La trasmissione
faceva notare che il sindaco, Abd al-Rahman Abu Salh, era uno dei
firmatari della petizione all’Alta Corte di Giustizia che si opponeva al
trasferimento dell’avamposto in appezzamenti di terreno nei pressi
della stessa collina.
Le
considerazioni del sindaco mostrano una certa familiarità con il
contesto etnico dei ladri di Amona e la loro difesa danzante (alcuni dei coloni di Amona si sono messi a ballare per protesta durante l’evacuazione, ndtr.);
a ragione non ha detto che dovrebbero tornare in Marocco o in Iraq. Ma
torniamo all’intervista: non era certo inopportuno trasmetterla. Anche
nelle conversazioni quotidiane con i palestinesi simili opinioni vengono
a volte espresse, e non solo relativamente ai residenti di uno
specifico insediamento. Non si tratta solo di un punto di vista: ho
sentito dei palestinesi che sono convinti che gli ebrei stiano lasciando
Israele in gran numero. Vuoi a causa della minacciosa forza militare di
Hamas, con Allah dalla sua parte, vuoi alla ricerca di una vita più
facile, o perché gli ebrei comprendono che non appartengono a questo
luogo. C’è anche chi cita il preciso versetto del Corano che profetizza
la partenza degli ebrei.
Però
c’è anche chi parla diversamente: per esempio A., sessantenne di Gaza,
devoto musulmano, che è spaventato da Hamas. “In quanto credente
musulmano, ha detto una volta, non posso immaginare questa terra senza
ebrei.” L. ha detto esattamente la stessa cosa. E’ un’atea proveniente
da una famiglia cristiana in Galilea. “Dopotutto, voi siete parte di
questo luogo”, ha detto. E ci sono dei rifugiati che citano sempre i
loro genitori e nonni che dicevano: “Abbiamo vissuto da buoni vicini con
gli ebrei.”
Ogni
considerazione è fatta in un certo contesto e loro non possiedono una
sola verità assoluta. Tranne la seguente: i palestinesi sono soggetti al
regime israeliano di sadismo organizzato.
Se 20
anni fa hanno pensato che sarebbe presto finito, oggi è chiaro che
Israele vuole solo proseguirlo e incrementarlo, rendendolo più
efficiente e permanente. L’intifada del popolo ha fallito. I negoziati
di pace si sono rivelati un inganno. La diplomazia è stata sconfitta. La
lotta armata è un’arma a doppio taglio. Per ogni battaglia vinta contro
il furto di terra, ve ne sono dozzine in cui alla fine la terra resta
in mano ai coloni. Gli ebrei hanno provato a chiunque non lo sapesse o
non fosse d’accordo, che l’entità che hanno creato è colonialista. In
altre parole, aspira a sostituire un popolo con un altro, a deportare un
popolo in nome dei prescelti da dio.
Israele
agisce e i palestinesi in risposta dicono cose al limite della
disperazione o cose che possano dare la speranza che sia possibile un
cambiamento in meglio. Il confine che separa il delirio dalla speranza,
la speranza dalla disperazione, è molto sottile ed è tracciato dalle
politiche israeliane.
La
notizia è stata trasmessa dalla radio israeliana con voce solenne, con
il sottinteso che “quelli che conoscono la faccenda capiranno”. E noi
abbiamo capito che il vero problema è che quei contadini sono
semplicemente antisemiti. Non solo non hanno offerto pane e sale ai
ladri della loro terra, ma gli hanno addirittura fatto causa ed hanno
rubato il loro tempo prezioso, che altrimenti sarebbe stato dedicato
alle devote preghiere al “Dio degli Ospiti” (una delle definizioni bibliche di dio, ndtr).
La
trasmissione della radio israeliana dava l’impressione che la
dichiarazione del sindaco di Silwad fosse essenzialmente estemporanea
(negando i diritti degli ebrei) e priva di qualsiasi contesto. O che il
contesto del sistematico, brutale e cinico furto non fosse importante. E
tra l’altro, la colonia di Ofra è anch’essa costruita sulle terre di
Silwad.
Ogni
articolo di giornale è inserito in un contesto. Lo stesso vale per
tutti gli articoli che nessuno si dà la pena di pubblicare: anch’essi
hanno un contesto. Sulla radio israeliana possiamo ascoltare
informazioni dalle forze di sicurezza palestinesi sulla cattura di
aggressori armati di coltelli, come anche le voci dei politici
palestinesi. Ma non possiamo trovarvi le notizie quotidiane sulle
sistematiche demolizioni di strutture palestinesi in Cisgiordania, sul
trasferimento di comunità di agricoltori e pastori per far posto a zone
di addestramento dell’esercito israeliano, sui sistematici divieti di
costruzione per i palestinesi, sulle limitazioni di movimento e le
incursioni nelle case.
Reshet
Bet non fa esattamente l’impossibile nemmeno per indagare sulle
circostanze delle uccisioni da parte dell’esercito israeliano di donne e
giovani palestinesi che non mettevano in pericolo la vita dei soldati. E
tra l’altro non c’è bisogno di svolgere indagini indipendenti. Si può
citare il lavoro sul campo di B’Tselem, trasmettere la risposta del
portavoce dell’esercito e, in nome della santa imparzialità,
intervistare qualcuno di Regavim o Kahana Chai (gruppi israeliani estremisti di estrema destra, ndtr.). Agli ascoltatori di Reshet Bet è stato evitato tutto questo, di proposito.
Il
contesto delle vicende che vengono pubblicate e che non vengono
pubblicate è lo stesso: mobilizzazione in nome dell’impresa coloniale,
mentre si impedisce l’informazione che potrebbe sollevare dubbi sulle
intenzioni di Israele e sulla logica delle sue politiche. Naturale
diffidenza, impegno, curiosità e volontà di descrivere una grande
varietà di fenomeni – tutto questo è assente nelle trasmissioni
pubbliche quando si tratta delle vita dei palestinesi sotto il regime
israeliano. In questo caso siamo anzitutto israeliani e coloni, o coloni
potenziali. Mai giornalisti.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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