Eric Salerno 'Criticare Israele non è antisemitismo'


 
 
 
 
 
Intervista da Gerusalemme con Eric Salerno sulla controversa 'Regulation law' approvata da Israele
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Domani, mercoledì 15 febbraio, sarà un giorno importante per definire i rapporti tra Israele e i nuovi Stati Uniti di Donald Trump. Si terrà infatti, alla Casa Bianca, l’atteso incontro tra il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il neoeletto Presidente Usa, dal quale emergerà (ci si augura), con maggiore chiarezza, la linea dell’Amministrazione americana nei confronti di Israele. Le certezze, a oggi, sono poche e i temi sul tavolo molti. Primo tra tutti, la contestata legge sulla ‘regolarizzazione’ degli insediamenti, approvata lo scorso 6 febbraio dalla Knesset, che è costata al Governo di Israele le critiche di ampia parte della comunità internazionale.
Attacchi che non sono piaciuti al Primo Ministro e leader del Likud, da sempre “molto bravo a giocare sul senso di colpa per ciò che è avvenuto agli Ebrei nella loro storia“, dice il giornalista e scrittore Eric Salerno, “per evitare attacchi alla sua politica“. E proprio per questo, “circa quindici anni fa“, prosegue Salerno, l’attuale Premier riunì numerosi esponenti poilitici a lui vicini, al fine di elaborare unequazione che venne presentata al mondo. La formula diceva chiaramente: criticare la politica israeliana, è sinonimo di antisemitismo“.
Domani vedremo se anche Trump si unirà al coro di quelli che sono contrariati dalla decisione del Parlamento israeliano di approvare la ‘Regulation law’, ma allo stato attuale, nessuno è in grado di prevedere cosa si diranno i due leader. Dopo i molti attestati di stima del magnate americano nei confronti di Israele, fatti nel corso della campagna elettorale, recentemente, in un’intervista concessa al quotidiano ‘Israel HaYom‘, vicino al Premier Netanyahu, il Presidente Usa ha ripetuto di non ritenere «che andare avanti con le colonie aiuti la pace». E sempre Trump, ha aggiunto che «le colonie non rappresentano una forza positiva in grado di favorire un accordo» tra Israele e Palestina. Sembrerebbe, quindi, che il pensiero del neoeletto Presidente si sia recentemente distaccato rispetto ai toni usati nei mesi precedenti all’insediamento. Ma che la questione colonie  sia un problema non solo per gli Usa, ma anche all’interno di Israele, non è una novità. La nuova legge è sotto appello, dopo i ricorsi delle organizzazioni per i diritti umani israeliane e palestinesi, alla Corte Suprema e i pronostici sono favorevoli a una sua revisione, se non alla definitiva bocciatura.
La cosa certa è che occorre ricostruire quella storica solidità di rapporti tra i due Paesi, incrinatasi con le scelte della Presidenza Obama. Un punto di incontro sarà trovato, fuori di dubbio, sull’Iran, dove è parsa chiara la sintonia tra i due leader. Basse, invece, sono le aspettative per una discussione approfondita sulla questione palestinese. Ancora brucia infatti, in Israele, l’astensione Usa in sede di approvazione della risoluzione Onu ‘2334’, che ha condannato la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania.
Quello di domani, «sarà un incontro molto importante», ha detto il Premier israeliano, «per la sicurezza del nostro Paese, per la sua posizione internazionale e anche per i nostri interessi nazionali». Ma il clima nel Paese, al momento della partenza del leader, è sembrato tutt’altro che sereno, tanto da spingere Netanyahu a invitare tutti alla «responsabilità e alla ponderatezza». L’affermazione suona come risposta alle dichiarazioni di Naftali Bennett, leader del partito nazionalista religioso ‘The Jewish Home‘ (Focolare ebraico), che ha esortato il Primo Ministro a «non parlare mai», durante l’incontro con Trump, «di uno Stato palestinese». Questa frase ha turbato, se possibile ancora di più, la già relativa serenità all’interno della coalizione di Governo, e il Ministro dei Trasporti ed esponente del Likud, Yisrael Katz, ha attaccato Bennett, accusandolo di voler «trascinare l’intero Paese nella guerra, solo per convenienza elettorale». Anche per questo, Netanyahu, spera di trovare il pieno appoggio del Presidente Usa, al fine di arginare le polemiche interne e placare le accuse giunte dalla comunità internazionale in seguito all’approvazione della nuova normativa.
Tra i due leader c’è, invece, piena armonia nel contrastare la nomina all’Onu dell’ex Primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, Salam Fayyad come inviato speciale in Libia. «È tempo che si diano status e riconoscimenti anche agli israeliani, qualora Fayyad venisse nominato», ha affermato Netanyahu. Ed è notizia di queste ore che, Tzipi Livni, ex Ministro degli Esteri e leader del partito Hatnuah (il Movimento), nominata più volte nel corso degli anni nella lista delle ‘100 donne più influenti del mondo’, potrebbe essere nominata come vice del Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres. L’ex Premier portoghese, avrebbe preso in considerazione la candidatura della Livni, proprio per porre fine alle divergenze con gli Stati Uniti, in merito alla proposta di nomina dell’ex premier palestinese, che ha portato Washington a minacciare di bloccare tutto in sede di Consiglio di Sicurezza. La Livni, presentatasi in unione con i Laburisti di Herzog alle scorse elezioni nella ‘Zionist Union‘, potrebbe dunque, essere la prima esponente politica dello Stato ebraico ad occupare il ruolo di Vicesegretario Intanto la tensione nella regione e, in particolare a Gaza, non sembra diminuire. A destare preoccupazione è la scelta, effettuata la scorsa notte da Hamas, di votare il falco Yahya Sinwar, come suo leader. Sinwar succederà alla guida dell’organizzazione palestinese, a Ismail Hanyeh, che sarà nominato Segretario Generale e andrà a vivere all’estero. Il nuovo leader, scelto dal Comitato esecutivo di Hamas con una votazione a maggioranza, rappresenta una delle figure della linea più dura del gruppo dirigente islamista e la sua elezione indica il crescente potere dell’ala militare del movimento. Prima di finire nelle galere israeliane per 22 anni, accusato di omicidio, Sinwar è stato uno dei fondatori delle brigate Ezzedin al-Qassam, create nel 1992 e protagoniste di numerosi attacchi a soldati e civili israeliani. Questa nomina si inserisce in un contesto reso già molto difficile dall’approvazione della ‘Regulation law’ e sembra un ostacolo ulteriore a una ripresa di contatti tra le parti.
Della controversa ‘Regulation law’, della fase di transizione in atto e del sentimento del popolo israeliano, abbiamo parlato con il giornalista e scrittore Eric Salerno, esperto di questioni africane e mediorientali, che si trova a Gerusalemme.
L’approvazione della ‘Regulation law’ non è stata semplice. Le opposizioni hanno dato battaglia e malumori si sono registrati anche nel Likud, dove spicca il voto contrario di Benny Begin. Come è andata l’approvazione? Chi ha voluto questa legge e perché? Com’è composto il fronte degli oppositori?
Il fronte che ha cercato di contrastare l’approvazione di questa legge è composto anzitutto, dall’opposizione al Governo e, in secondo luogo, da alcuni esponenti della coalizione di maggioranza come Benny Begin. Va sottolineato come l’elemento comune di questo fronte composito, non sia l’ostilità vera e propria verso questa legge e i suoi contenuti, ma la preoccupazione per i rischi che Israele potrebbe correre. Una parte consistente del Governo e dei membri del Parlamento infatti, vuole continuare il processo di colonizzazione dei territori palestinesi, compresa Gerusalemme Est. Per fare questo, tutti sostengono sia necessario procedere con lentezza e cautela, esattamente come è stato fatto da quando è iniziato il processo di colonizzazione, dopo la guerra del 1967. A tal proposito occorre ricordare come questo processo non è iniziato per volere della destra nazional-religiosa che rappresenta, oggi, una forza importante nel Governo, ma ha preso il via con i Laburisti al potere e, in particolare, sotto la guida dell’ex Presidente israeliano Simon Peres. Tuttora, una buona parte di Israele, pur partendo da presupposti diversi, crede che una parte della Cisgiordania dovrebbe essere territorio israeliano. Ci sono, a questo proposito, due scuole di pensiero diverse: una parte motiva la propria convinzione legandola alla sicurezza dello Stato. Questi sostengono che Israele sia troppo piccola nei confini attuali e che abbia bisogno di una maggiore ‘profondità’ e dunque si dice disponibile a un negoziato coi palestinesi che lascerebbe nelle mani di Israele i cosiddetti ‘blocchi importanti’ degli insediamenti, che si trovano a una distanza massima di circa 2 chilometri dalla linea d’armistizio. Dall’altra parte c’è il gruppo dei Nazionalisti religiosi e quelli legati alla figura di Vladimir Evgen’evič Žabotinskij, uno dei fondatori dello Stato di Israele, elemento molto vicino a Benito Mussolini, che è stato tra i ‘padri’ del Likud. Ricordiamo che, fino a pochi anni fa, la piattaforma del Likud sosteneva che Israele sarebbe dovuto arrivare fino al Fiume Giordano, (il fiume segna il confine tra Israele e Cisgiordania, a ovest, e Siria e Giordania, a est n.d.r.) con l’annessione di tutto il territorio occupato dopo la ‘guerra dei sei giorni’. Questa pretesa è stata tolta dalla piattaforma del partito, per compiacere gli Stati Uniti, ma tutti hanno continuato a promuovere la costruzione di nuovi insediamenti nei territori e l’allargamento di quelli già esistenti. Le cifre parlano da sole: al di fuori di Gerusalemme Est siamo arrivati intorno ai 320mila coloni, che abitano vere e proprie città satellite di Israele dove la gente torna solo a dormire.
In questi giorni, molto attive nel contrastare l’approvazione della legge sono state le organizzazioni per i diritti umani. L’Ong palestinese ‘Adalah’ ha firmato con il Jerusalem Legal Aid Center (JLAC) e Al Mezan Center for Human Rights di Gaza, una petizione alla Corte Suprema. Medesima iniziativa è stata intrapresa dagli israeliani di ‘Breaking the silence’ e ‘B’Tselem’. Le chiedo, dunque, qual è il peso specifico di queste realtà in Israele?
Ci sono organizzazioni israeliane che lottano, da sempre, per la fine dell’occupazione della Cisgiordania e che sono anche a favore della concessione di un ipotetico Stato palestinese, comprendente una parte di Gerusalemme Est, (quella occupata nel 1967 per capirci) come capitale di uno Stato indipendente che dovrebbe vivere al fianco e non al posto di Israele. Nei negoziati condotti da Rabin, prima degli accordi di Oslo, e anche dai suoi successori, si parlò di come sarebbero dovute avvenire queste condivisioni e alcune organizzazioni israeliane per i diritti umani e per la pace, hanno partecipato direttamente o indirettamente a questi sforzi. Purtroppo, da parecchi anni, queste realtà hanno poca voce in capitolo e si è assistito a un fenomeno interessante, molto simile a ciò che avviene in Europa o negli Usa, ovvero una parte maggioritaria della popolazione israeliana è stanca, non vuole più occuparsi del problema. La situazione di relativa calma degli ultimi tempi ha consentito agli israeliani di vivere una vita tranquilla e relativamente prosperosa, solo sfiorata dalle violenze che scattano saltuariamente. Esempio di questo sentimento comune a tutti gli orientamenti politiche, risale alle proteste di qualche anno fa, quando una parte delle organizzazioni di Sinistra si mossero per chiedere riforme economiche in Israele e decisero, di comune accordo, di non parlare del problema palestinese.
Qual è il sentimento della gente in Israele dopo l’approvazione della legge?
Dai riscontri sulla stampa, che è generalmente abbastanza critica col Governo Netanyahu, sembra ci sia preoccupazione tra la gente. Se, però, andiamo a parlare con ‘l’uomo della strada’, il clima cambia e di molto. Ci sentiamo dire che si sarebbe potuto proseguire ugualmente a incrementare gli insediamenti, senza bisogno di una legge come questa, che accende i riflettori della comunità internazionale sulla questione. Le costruzioni infatti, sarebbero comunque andate avanti, grazie ai finanziamenti e agli sconti fiscali garantiti dal Governo ai coloni.
Molti commentatori parlano di vera e propria imposizione della legge dello Stato di Israele in Cisgiordania e di annessione, crede sia così?
Qui c’è un’enorme contraddizione. Israele è uno Stato democratico, dotato di strutture di controllo, divisione dei poteri e, anche se con qualche ambiguità, attenzione verso i valori della legislazione internazionale. Il problema della legge appena passata è che, per la prima volta, il Parlamento israeliano e non il Governo o le forze di sicurezza, (che poi sono forze di occupazione) legifera sullo status degli israeliani che vivono all’interno dei territori palestinesi occupati. Un precedente di tale portata potrebbe condurre Israele davanti alla Corte Penale Internazionale di Giustizia, ma soprattutto, potrebbe accelerare ciò che una parte della popolazione chiede: l’annessione di tutta la West Bank, fino al confine con la Giordania.
Qual è stata la linea tenuta dal Governo e più in particolare da Benjamin Netanyahu?
Sembra che Netanyahu abbia cercato di bloccare o rinviare l’iter di questa legge aspettando un momento più opportuno, in attesa dell’incontro di domani con Trump. Il Presidente Usa appare come un grande amico di Israele, e probabilmente lo è. Trump ha un genero ebreo, che è un sostenitore anche finanziario degli insediamenti, e ha nominato un nuovo ambasciatore americano a Tel Aviv, sostenitore anch’egli finanziario degli insediamenti. Cosa accadrà è tutto da vedere. Nessuno sa con certezza se Trump dirà che si è passato il segno o se cercherà di chiudere la questione imponendo un accordo, magari privo di quelle ambiguità che hanno caratterizzato l’era di Obama e dei suoi predecessori. Ma nessuno sa bene cosa aspettarsi e nemmeno Israele lo sa, proprio per questo Netanyahu avrebbe preferito ritardare l’approvazione della ‘Regulation law’. Il Primo Ministro, però, ha ceduto davanti alla pressione degli esponenti del suo partito e dei suoi alleati, che hanno creduto fosse questo il momento per affondare il più possibile il colpo. Ma il dato che resta, è che l’impresa coloniale sta andando a favore di Israele, proprio perché è proseguita tra l’indifferenza di buona parte del mondo e ha giocato sul il senso di colpa provato dagli altri Stati, nei confronti di quello che è accaduto agli Ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Questo debito non ci permette, ancora oggi, di criticare troppo Israele.
Crede sia in atto uno spostamento a destra del Governo israeliano?
Il Paese è sicuramente andato a destra. Occorre sottolineare che, quando si parla di destra e sinistra in Israele, si parla di favorevoli o contrari all’espansione. Non contano qui solo le motivazioni bibliche. Non dimentichiamo che la parte più importante della ‘terra di Israele’ era tutta la zona montuosa che comincia a Hebron, passa per Gerusalemme, e sale verso Nablus a Nord. Perciò, per gli ebrei più religiosi è questa parte, oggi in mano ai Palestinesi, la più importante, e non Tel Aviv, splendida città sulle rive del Mediterraneo, dove oggi si vedono solo persone che vivono ‘l’esperienza sionista’ in maniera laica, noncuranti dell’espansione. D’altra parte, anche tra questi c’è preoccupazione per ciò che accade nel resto del mondo arabo e la sensazione comune è che fare ora un accordo coi Palestinesi, potrebbe dire invitare il caos proprio di fianco a casa. Fatto questo, che contrasta con la logica, la quale vorrebbe ci fossero soluzioni e accordi proprio per evitare questo caos. Anche la stessa maggioranza palestinese non vorrebbe essere trascinata verso l’estremismo religioso, ma vivrebbe volentieri una vita serena in uno Stato palestinese. A testimonianza di ciò, ricordo che quando ho iniziato a frequentare, negli anni ’70, Israele e i territori, la religiosità dei palestinesi era priva di ogni fondamentalismo. Questo conferma che oggi, la Palestina, potrebbe vivere all’interno di un accordo con Israele un’esistenza lontana dalle esperienze che hanno segnato il resto del Medio Oriente.
Qual è la situazione economica in Israele e quanto ha inciso sui recenti sviluppi di politica interna?
La situazione economica vede una classe media che si è ristretta anche se in un contesto in cui il benessere complessivo e quindi la povertà è scesa. Costruire insediamenti e fare strade e infrastrutture, è possibile grazie agli aiuti finanziari americani, o di altri paesi che danno soldi direttamente alle organizzazioni che creano queste strutture, ma è possibile anche grazie ai miliardi di dollari degli Usa che Israele riceve per gli armamenti. Grazie a questi soldi, Israele, può utilizzare buona parte del bilancio dello Stato per investire nei territori. Le giovani generazioni sono quelle che soffrono maggiormente la situazione e la loro possibilità di sviluppare una vita dignitosa è attualmente messa a dura prova.
La Turchia, l’Onu e i Movimenti palestinesi hanno parlato della ‘Regulation law’ come di una pietra tombale sul processo di costruzione di due Stati. Cosa pensa in proposito? Il processo dei due Stati era già bloccato da molto tempo. Magari sussisteva ancora la possibilità tecnica o geografica di fare uno Stato accanto a Israele ma, sempre di più, gli insediamenti hanno chiuso gli spazi ‘vitali’ che consentono alla popolazione palestinese di collegarsi da Nord a Sud. Già nei piani di Oslo, Gaza poteva essere collegata alla Cisgiordania. Ciò è ancora possibile ma non sarà così a lungo e su questo sono tutti d’accordo. Ma la domanda vera è: c’è la volontà di Israele di costruire uno Stato palestinese? La risposta è semplice: se Israele non accetterà questo Stato, finirà per essere un Paese sempre più democratico al suo interno, quanto lontano dai principi democratici all’esterno. Questo avverrà perché la popolazione palestinese nei territori occupati, soprattutto in seguito alla nuova legge, si troverebbe in una situazione di vera e propria Apartheid, con gente che gode di diritti pieni, circondata da coloro i quali li hanno ridotti.
Molto spesso criticare le scelte di Israele costa l’accusa di antisemitismo. Crede ci sia un problema di sovrapposizione tra il destino di Israele e quello del suo Governo?
Il Primo Ministro Netanyahu è stato, in questi anni, molto bravo a giocare sul senso di colpa per ciò che è avvenuto agli Ebrei nella loro storia e, più nello specifico, durante la Seconda guerra mondiale. Ebbene, il leader del Likud, una quindicina di anni fa, ha riunito diverse persone del suo Governo, allo scopo di elaborare a tavolino un’equazione che sarebbe poi stata spiegata al mondo. La formula diceva: criticare il Governo di Israele significa criticare gli Ebrei ed è quindi un atto di antisemitismo. Purtroppo, molti Stati europei, compresa l’Italia, hanno voluto accettare questa equazione totalmente sbagliata. Basti pensare che, oggi, circa la metà degli Ebrei nel mondo vive fuori da Israele. La situazione ricorda quella degli emigrati italiani durante la Seconda guerra mondiale, i quali sostenevano l’Italia, ma non per questo parteggiavano per il Fascismo. Allo stesso modo, molti ebrei in giro per il mondo sostengono Israele ma non la sua politica di colonizzazione. E questo non significa essere antisemiti.


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