Giorgio Gomel Noi e gli altri: l’universalismo ebraico
Noi e gli altri: l’universalismo
ebraico
di Giorgio Gomel
Nella cerimonia per il funerale di Shimon
Peres a Gerusalemme l’ottobre scorso Tsvia Walden, figlia di
Shimon, non solo ha recitato il Kaddish secondo la tradizione
egualitaria dell’ebraismo riformato, ma lo ha concluso
integrando il testo classico che termina con “Oseh shalom
bimromau hu berahamau yaase shalom alenu ve al kol Israel”
(Colui che ha creato la pace nelle sfere celesti, conceda con la
sua pietà pace a noi e a tutto Israele) aggiungendo: “ve al kol
b’nei adam” (e a tutti i figli dell’uomo). È consuetudine di
comunità riformate e anche “conservative” recitare “ve al kol
anshei tevel” (gli uomini dell’universo tutto) oppure “joshvei
tevel” (gli abitanti dell’universo, con espressione ancor più
onnicomprensiva, inclusi gli animali).
Il tema che la figlia di Peres evoca con
questa sua formulazione della preghiera è complesso; appartiene
all’ebraismo come ad altre culture, religioni, sistemi
dottrinali; riguarda la relazione fra “universale”, cioè i
valori e principi che comprendono il lessico dello “stare
insieme”, dell’unità del genere umano e “particolare”, cioè la
differenza e le sue molteplici espressioni.
Ephraim Lessing, nel suo “Nathan il saggio”
scritto in pieno Illuminismo alla fine del ‘700, ritrae una
figura di uomo saggio, assertore della tolleranza religiosa.
Nathan chiede retoricamente : “Sono gli ebrei e i cristiani
ebrei e cristiani prima di essere umani?”, implicando con ciò
che si è prima un essere umano, e poi un ebreo o un cristiano o
altro. Io penso ad una variante di Lessing : un Nathan che
affermi e insegni che si è esseri umani per via dell’essere
ebrei e che analogamente un cristiano o un musulmano sono esseri
umani per via del loro appartenere al cristianesimo o all’islam.
Essere ebrei o cristiani o islamici è dunque una variazione di
un unico, singolo tema : l’appartenenza all’umanità.
La dualità fra particolarismo e
universalismo è una costante nella lunga e accidentata storia
degli ebrei.
Da un lato il monoteismo, l’essere gli
umani ad immagine di Dio e l’idea messianica esprimono
l’universale. Dall’altro l’esistenza concreta degli ebrei nella
diaspora, in comunità spesso recluse ed oppresse, soggette a
esili forzati e discriminazioni fino all’emancipazione di metà e
fine ‘800, è stata dominata dal “particolare”. Questa dualità è
anche un tratto costitutivo e un problema dominante della
società contemporanea: come conciliare il vincolo
dell’eguaglianza dei diritti e il diritto alla differenza. Si
pensi agli immigrati che da un lato chiedono di essere trattati
nello stesso modo indipendentemente dalle proprie preferenze
private nel credo religioso o nel costume e dall’altro insistono
per il rispetto della loro diversità, del “particolare” - sul
piano etnico, religioso, culturale - per quanto attiene al
diritto di famiglia, all’orario di lavoro, ecc. Il dilemma
concreto è fino a qual punto le differenze di individui e
comunità possano essere riconosciute come legittime nelle loro
conseguenze sui modi di vita, l’organizzazione sociale, i
rapporti di lavoro e nel contempo alcune regole fondamentali del
convivere siano da tutti condivise e rispettate. Così è stato
nella vicenda degli ebrei nella diaspora, una vicenda di esili,
trasmigrazioni, insediamenti e interazioni strette di una
minoranza con le società circostanti.
Nel pensiero ebraico la dimensione
universalistica dalle origini si esprime nel codice noachide,
che consiste nei sette principi consegnati ai figli di Noè, e
quindi al genere umano nella sua interezza, per fissare le
regole basilari della convivenza umana. Di essi solo i primi due
hanno natura teologica - il divieto dell’idolatria e della
blasfemia. Gli altri rappresentano norme di convivenza fra gli
umani: il divieto di omicidio, di furto, di atti sessualmente
illeciti, di nutrirsi di animali vivi nonché l’obbligo di
istituire tribunali per imporre il rispetto di quei sei principi
basilari. L’ebraismo è sì fatto per gli ebrei e per chi desideri
unirsi a loro, ma ai non ebrei - i gentili - è concesso un
futuro di salvezza purché osservino il monoteismo e pratichino
una vita retta secondo i principi noachidi. Nella concreta
storia sociale degli ebrei, la dialettica fra “universale” e
“particolare” ha assunto forme diverse. In buona parte del ’900
è stato il paradigma dell’ebreo-paria teorizzato da Hannah
Arendt come l’ebreo ribelle, che insorge contro la propria
marginalità ed oppressione e combatte per sovvertire l’ordine
sociale alleandosi con altri oppressi, a dominare la cultura
ebraica e dell’occidente. Esso si è in larga parte spento sul
finire del secolo testé trascorso.[1]
Si è assopita la carica rivoluzionaria dell’ebreo campione delle
trasformazioni politiche e culturali della società. In parte è
la condizione oggettiva a spingere verso questo esito. Gli ebrei
diasporici vivono oggi in Occidente e appartengono in larga
parte agli strati medio-alti di quelle società; tendono a
conformarsi ad interessi, valori e comportamenti di questi
strati, istruiti, integrati, gelosi del proprio successo
socio-economico. In più, dopo il genocidio hitleriano, la
nascita travagliata di Israele come luogo di rifugio dalle
persecuzioni, il suo diritto ad esistere in pace e sicurezza
tuttora in forse e il risorgere di fenomeni di antisemitismo in
Europa, un’enfasi sulla difesa “particolaristica” dei propri
interessi[2]
è giustificata. Ma entro certi limiti. Nella solitudine in un
mondo ostile, non pochi intellettuali e opinion leader ebrei in
anni recenti, negli Stati Uniti così come in Europa e in Italia,
hanno cercato amici e protettori impropri e strumentali nella
destra politica, soprattutto fra i “neoconservatori” e fra i
cristiani integralisti, in nome della difesa di Israele e della
comune avversione all’islam. Si avvertono segni inquietanti di
umori e atteggiamenti simili dopo la vittoria di Trump nelle
elezioni americane: il cedimento di organismi e figure
rappresentative dell’ebraismo americano alle seduzioni di una
destra al potere che è filoisraeliana - più precisamente, vicina
alle posizioni più oltranziste del governo di Israele - ma al
tempo stesso con un fondo antisemita, nonostante la forte
prevalenza del voto democratico fra gli ebrei di quel paese.[3]
È invece più degno moralmente e più
efficace sul piano politico, anche per la difesa del futuro
degli ebrei, combattere a fianco di altre minoranze il razzismo
e le discriminazioni rivolte oggi contro altri soggetti deboli e
emarginati, richiamandoci ai valori universalistici
dell’ebraismo: la giustizia, la dignità dello straniero, la
difesa dei più deboli. Oltre a pensare e rappresentare “noi
stessi” - spesso e talora ossessivamente - come vittime,
dovremmo essere più sensibili alla condizione degli “altri”. Non
solo a quanto gli “altri” fanno a noi - il male
dell’antisemitismo - ma a quanto “noi” facciamo o non facciamo
agli “altri”.
Non solo perché siamo - noi ebrei -
testimoni e portatori della memoria della discriminazione - ma
perché vi è un interesse oggettivo degli ebrei nel lottare
contro forme di esclusione quand’anche non colpiscano
direttamente gli ebrei e nel vivere in società in cui le
differenti identità, soprattutto di minoranza, siano
riconosciute e rispettate. Molte volte nella travagliata storia
degli ebrei razzismo, esclusione sociale, coercizione religiosa
si sono poi riflesse, infatti, in odio e violenze rivolti contro
gli ebrei .
Giorgio Gomel
[1]
Ho argomentato più estesamente questa tesi in “Sinistra
e destra: l’ebreo del novecento e quello di oggi”, Ha
Keillah, aprile 2005 e “Diaspora e Israele, esilio e
stato-nazione: due famiglie separate del popolo ebraico
?”, Rassegna mensile di Israel, in corso di
pubblicazione.
[2] “What is good for
the Jews ?” è un’espressione sintetica ed efficace di
questo modo quasi “tribale”, etnocentrico di intendere
le cose.
[3] Peter
Beinart in “America’s most influential Jewish groups
have prioritized Netanyahu over US Jews’ safety”, in
Haaretz, 17 novembre 2016, attribuisce questo mutamento
nel centro di interesse degli ebrei americani dal
progresso civile e sociale del paese alla mera difesa di
Israele a due ragioni di fondo: la crescita demografica
e di influenza degli ebrei ortodossi e il peso
finanziario e politico di grandi donatori sostenitori di
Israele.
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