Ha Keillah : Trump e noi . Interventi di : Anna Segre, Emilio Jona, David Terracini, di Manuel Disegni,Giorgio Gomel, Baruch l’occhialaio



1Chiudiamo il giornale in un momento ricco di incognite, pochi giorni dopo l’esito del referendum costituzionale che ha determinato la fine del governo Renzi, con conseguenze che ancora non siamo in grado di valutare, mentre in Europa prendono piede partiti e movimenti populisti, xenofobi, spesso apertamente razzisti (unico sospiro di sollievo: l’esito delle elezioni austriache) e la sinistra appare così lacerata al proprio interno da non essere in grado di contrastarli in modo efficace.
Anche l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America è un fatto recente, ma le poche settimane trascorse ci hanno offerto se non altro il tempo per qualche riflessione e discussione tra di noi. I testi che seguono sono appunto la raccolta di alcune mail che ci siamo scambiati nei giorni immediatamente successivi alla vittoria di Trump. Più complessa, articolata e originale l’analisi del nostro redattore Manuel Disegni, che offre una prospettiva in parte diversa, inquadrando l’esito delle elezioni americane nel contesto di un capitalismo che a livello planetario non ha più rivali se non se stesso.
Agli Stati Uniti è anche dedicata la rubrica “storie di ebrei torinesi”: abbiamo infatti intervistato Susan Finnel Ruff, ebrea americana che vive a Torino, e Andrea Foà, ebreo torinese che vive a New York.


2  Sinistre deboli

La vittoria di Trump mette a nudo spietatamente le debolezze della sinistra, che appare incapace di elaborare risposte credibili a disagio, impoverimento e insicurezza economica, crescenti nel mondo occidentale; ma preoccupa anche l'atteggiamento suicida di una certa sinistra radicale che non ha sentito come propria la responsabilità di fermare l'elezione di un fascista. Anche all’interno della nostra stessa redazione abbiamo opinioni diverse su quale delle due cose debba farci indignare di più; certamente è gravissima questa conflittualità interna della sinistra anche di fronte a quella che tutti avrebbero dovuto percepire come un'emergenza. E questo fa molta paura pensando a ciò che avverrà nei prossimi mesi in Italia.
Appare anche piuttosto inquietante lo scarto tra le previsioni e l'esito, che dimostra l'incapacità da parte dei mass media di leggere e interpretare la realtà: in particolar gli intellettuali sembrano aver perso la capacità di cogliere i segnali provenienti dalla società in cui vivono.
Inoltre, tra guerre, terrorismo, e la crescente sensazione di insicurezza, pare che le nostre società stiano perdendo gli anticorpi, che si stia smarrendo quel minimo comun denominatore di valori condivisi che consente la civile convivenza. A questo proposito ci sarebbero anche da rilevare le gravi responsabilità dei media che per ragioni di audience danno spazio in modo sproporzionato a chi le spara più grosse; e la presenza continua sui media produce abitudine, diminuisce lo scandalo: se si confronta il modo in cui i giornali e tv parlavano di Trump un anno fa e come ne parlano oggi vengono i brividi.
È un fenomeno preoccupante anche il crescente fascino che ha per molti chi si presenta come antagonista del sistema, con il corollario (per noi ebrei molto preoccupante) di una generale diffidenza verso i "poteri forti", con teorie del complotto e tutto il resto. Viene addirittura da chiedersi se in questo clima avvelenato non rischi di diventare controproducente la presenza costante dell’ebraismo italiano sui mass media e nelle occasioni istituzionali e il meritorio lavoro svolto dai mezzi di informazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Niente di nuovo: l’ebraismo è sempre stato percepito come “potere forte” anche quando la realtà dei fatti dimostrava con evidenza il contrario, e del resto sarebbe assurdo dover rinunciare a far sentire la nostra voce per paura dell’antisemitismo, ma credo sia necessario tener presente che purtroppo questa sfiducia generalizzata verso tutto ciò che appare troppo istituzionale è un fenomeno in costante crescita e con cui dovremo sempre più frequentemente fare i conti nei prossimi anni.
Naturalmente, non può non preoccuparci l’antisemitismo largamente presente tra i sostenitori di Trump.
Paradossalmente, tuttavia Netanyahu e la destra israeliana hanno gioito per l'elezione di un Presidente Usa percepito come amico di Israele. Questo dal nostro punto di vista è forse ancora più preoccupante, anche alla luce dei segnali di involuzione della democrazia israeliana di cui ci parlano in questo numero i nostri collaboratori da Israele. Un tempo Israele era malvisto nel Medio Oriente perché, in quanto unico stato democratico della regione, era un'anomalia. Oggi giungono segnali di rapporti più distesi con Paesi come l’Arabia Saudita o la Turchia di Erdogan, mentre sono buone le relazioni con la Russia di Putin ed è probabile che Trump farà meno pressioni di quante ne facesse Obama (o di quante ne avrebbe fatte Hillary Clinton) perché si prosegua sulla linea dei due popoli - due stati o per lo meno si ponga un freno all’espansione di insediamenti nei Territori Occupati. Non è certo il contesto di buoni rapporti internazionali che noi ebrei di sinistra avevamo sognato e auspicato per Israele.

Infine, pur con tutti i difetti di Hillary Clinton, ritengo che sulla sua mancata elezione abbia pesato più di quanto si voglia ammettere l’antifemminismo. Sospetto che anche questo possa spiegare in parte lo scarto anomalo tra i sondaggi e il voto reale: forse le persone intervistate non erano disposte ad ammettere pubblicamente di non voler votare una donna. A questo proposito, mi domando se l’antisemitismo e l’antifemminismo non abbiano in fin dei conti qualcosa in comune. Nelle società occidentali le donne e gli ebrei non subiscono discriminazioni, godono di tutti i diritti, occupano tutti i gradi, anche i più elevati, della scala sociale. A causa di tutto ciò non sono percepiti come categorie deboli e bisognose di protezione. Anzi, spesso sono sentiti come privilegiati. Di conseguenza mancano i campanelli d'allarme, e segnali di odio relativamente moderati precipitano in breve tempo verso esiti tragici senza che nessuno si muova per fermarli. È stato vero per l'Europa che andava verso la Shoah e forse in parte è vero nell'Europa di oggi, che ha visto negli ultimi anni molti ebrei uccisi in quanto ebrei senza che l'opinione pubblica si scomponesse più di tanto, ma è forse ancora più vero per quanto riguarda le donne: pensiamo all'inarrestabile catena di femminicidi che continua imperterrita a insanguinare l'Italia. Forse dovremmo tornare a considerare la questione dell’uguaglianza delle donne come una priorità.
Anna Segre




3  Applausi al buffone incolto

La figura di Hillary Clinton era controversa e discussa e certamente rappresentava non un potere progressista, che era Sanders, ma le grandi lobbies e la finanza.
La situazione economica, per quanto riguarda gli operai e la middle class, era peggiorata anziché migliorata, il potere d’acquisto era diminuito, il miglioramento della economia e il superamento della crisi avevano arricchito i ricchi piuttosto che i poveri, l’aumento dell’occupazione aveva interessato prestazioni con salari bassi e lavori non qualificati. Il lavoro bassamente retribuito era occupato da lavoratori ispanici o neri. Il malessere sociale era palpabile.
Sul piano internazionale il prestigio americano era certamente, calante gli insuccessi visibili ovunque dalla Siria, alla Libia, all’estremo Oriente. Quanto alla democrazia americana, esistono fieri dubbi sulla sua portata e realtà. La provincia, la cosiddetta classe operaia, e la classe media, è di vista corta e razzista, le carceri sono rigurgitanti di neri ed ispanici, 2.500.000 sono i detenuti, e assai più quelli a piede libero con limitazioni della loro libertà (per capirci, In Italia sono 50000: fatte le debite proporzioni, dovrebbero essere 300.000 per essere simili a noi).
La paura dello straniero immigrato e dell’Isis ha giocato un ruolo importante.
Non sono così stupito del successo di una sorta di Berlusconi locale, che promette ad una società frustrata, infelice e insicura un futuro radioso e irreale: riaprire miniere improduttive, creazione di muri di contenimento dello straniero, politiche protezionistiche in un mondo globalizzato e così via. In una società maschilista e profondamente razzista nei confronti di persone razziate in Africa e rese schiave e poi solo apparentemente rese uguali, un milionario bianco che parla a questo ventre molle del paese solleticando il suo egoismo deteriore non è affatto stupefacente.
Ma così va il mondo, nelle macerie degli stati ex comunisti, dove si alzano muri e prevale una destra xenofoba e talvolta nazista, nella Francia che rischia di divantare lepenista, nella Turchia ormai nelle mani di un dittatore islamista, nella Russia, tornata a sogni panslavisti e religiosi. È chiaro che tutti plaudono a questo buffone incolto. Ma Reagan o Bush erano tanto diversi?
Aggiungo infine che sarebbero anche da meditare e da mettere a confronto le grandi speranze che la nomina di Obama otto anni fa aveva suscitato - e che resta quanto di meglio aveva l’America, in sé e a avanti a sé - e il messaggio che questo cialtrone di successo - condensazione di ciò che noi tutti umanamente e politicamente detestiamo - è riuscito a far passare e che rappresenta però l’umore e il pensiero di metà degli americani.
Emilio Jona



La rivincita dei fagnani

La mia sensazione è che in Italia ci sia una pericolosissima maggioranza silenziosa complottista e anti-sistema, altrettanto maggioranza e silenziosa di quella americana, che ha fregato i sondaggisti. Questa ideologia (si tratta di un’ideologia, anche se i suoi sostenitori lo negano) è propria dei ceti meno colti, e si manifesta come un odio viscerale a volte omicida nei confronti di chi ha studiato (o tale si dichiara). Questo odio oggi si manifesta nella difesa cieca dei figli fagnani [per i non piemontesi: lavativi] davanti alle lamentele degli insegnanti, nell’odio preconcetto nei confronti dell’autorità politica o manageriale, nei confronti della stampa e dei mezzi di comunicazione non giullareschi. E siccome noi ebrei abbiamo da millenni l’istruzione come medaglia e tabe, orgoglio e condanna, siamo stati, siamo e saremo il tiro a segno di tutti i populismi e di tutti i fascismi. Le prospettive dunque a livello mondiale sono tutt’altro che rosee.
Secondo me Trump è filosionista e antisemita. Si può esserlo nello stesso tempo? Certo, Eichmann lo era: odiava gli ebrei e voleva che emigrassero tutti in Palestina. Poi ha cambiato idea (se Rommel non fosse stato bloccato in Africa, degli ebrei della Palestina non ci sarebbe più traccia). Di conseguenza c’è da aspettarsi un rifiorire di antisemitismo americano di massa, bianco e nero, e contemporaneamente una politica estera americana filo-israeliana. Chi vivrà vedrà.
David Terracini

5  Trumpolino sul baratro
di Manuel Disegni

Come è possibile che in una nazione altamente civile e forte di una solida cultura democratica un uomo volgare e mediocre si impadronisca del potere?
Il 2 dicembre del 1851 l'Europa intera era sotto shock per le notizie che arrivavano da Parigi: Luigi Bonaparte aveva sciolto l'Assemblea nazionale, posto fine alla Seconda Repubblica e si era proclamato Imperatore dei Francesi con il nome Napoleone III. L'avvenimento fu accolto dall'intero mondo politico come “un fulmine a ciel sereno”: nessuno riusciva a capacitarsi di come la Francia - il paese della grande rivoluzione del 1789 e del Code Napoléon (il primo codice civile moderno, modello di quello tuttora vigente in Francia e in gran parte dell'Occidente), il focolare originario delle rivoluzioni democratiche del 1848, insomma il paese socialmente e politicamente più progredito del mondo - avesse potuto consegnare la sovranità politica nelle mani di “un avventuriero qualsiasi venuto dal di fuori, levato sugli scudi da una soldatesca ubriaca, che egli ha comprato con acquavite e salsicce”. Qualcuno reagì con indignazione morale, qualcun altro, fra gli osservatori più raffinati, con il sarcasmo e l'arte dell'invettiva (Victor Hugo scrisse il pamphlet Napoléon le Petit); non mancò naturalmente chi celebrò i fatti come un miracolo che avrebbe salvato la società dal pericolo del disordine sociale e dell'anarchia. Per tutti, comunque, il coup del 2 dicembre rimase oggetto di meraviglia. Chi invece non si fece cogliere di sorpresa fu un giovane cronista politico particolarmente scaltro, il quale, forte di una conoscenza profonda della storia e della società francese, seppe fare una breve esposizione del corso degli eventi alla luce della quale il 2 dicembre perdeva il suo carattere di mistero. Egli destituì in questo modo il carisma provinciale dell'improvvisato uomo di Stato della sua aura magica ricollocandolo nel suo giusto rango di accessorio tanto grottesco quanto secondario, e fornì una spiegazione chiara e lineare della capitolazione della Seconda Repubblica come conseguenza naturale, risultato necessario delle dinamiche interne della società borghese in crisi. Un potere esecutivo forte e “indipendente” che si presenta come, diremmo oggi, anti-establishment, non legato ideologicamente a una singola classe, è il rappresentante politico ideale di tutti i 'declassati'. Intorno a una figura autoritaria che vaneggia idee nazionali inattuali si raccoglie il consenso non tanto di una classe sociale definita, bensì dell'insieme variopinto di tutti coloro che, minacciati dalla discesa sociale, vogliono difendere con tutti i mezzi la loro posizione e la loro proprietà, sia essa contadina, piccolo-, medio- o alto-borghese - tanto 'interclassista' è la compagine sociale della Reazione; la società in crisi, o l'eterogenea parte di essa che ancora ha qualcosa da perdere, consegna il potere politico all'avventuriero di turno nella speranza che il di lui pugno di ferro possa difendere con efficacia il potere sociale che essa ancora può esercitare. Il libro in cui Marx sviluppa questi argomenti s'intitola Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte ed è forse il testo fondativo della storiografia materialista. Esso contiene una vera e propria teoria complessiva della crisi della democrazia politica e precorre le migliori analisi storiche dei fascismi novecenteschi (p.e. Polanyi, La grande trasformazione, Thalheimer, Sul fascismo). Nel dicembre 2016 sembra palesare nuovamente tutta la sua attualità.
“Hegel osserva da qualche parte” - così il celebre incipit del 18 Brumaio - “che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”. Il nipote appariva come un surrogato caricaturale dello zio. La riedizione delle idées napoléoniennes (difesa del piccolo appezzamento, governo forte e assoluto, ampliamento della burocrazia, patriottismo e preponderanza dell'esercito) mezzo secolo dopo Napoleone era un controsenso e mostrava la sua funzione sociale divenuta ormai regressiva. Le idee della piccola proprietà in lotta contro il feudalesimo si ribaltavano, nel mutato contesto storico della metà del XIX secolo, in strumenti di oppressione della popolazione contadina e proletaria: l'appezzamento di terra non era più fonte di libertà ma di indebitamento per il contadino, lo Stato centrale e il suo apparato burocratico non più padre e protettore ma implacabile esattore, la patria un grande registro delle ipoteche. A partire da queste considerazioni Marx formulava il suo giudizio storico sulla parodia dell'Impero, le cui idee erano ormai nient'altro che “allucinazioni della sua agonia, parole diventate frasi, spiriti diventati fantasmi”.
Un giornalista che ha commentato a caldo le ultime elezioni statunitensi ha titolato il suo pezzo “Diciassette anni dopo, il trionfo dei no global. Da destra”. Il movimento anti-globalizzazione nato negli anni Novanta del secolo scorso era un insieme di gruppi e individui che criticavano l'imperialismo delle multinazionali e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali della Terra. Questo grosso tentativo popolare e internazionale di opporsi alle tendenze distruttive del sistema economico (o come si dice oggi di governance internazionale) neoliberale venne represso manu militari. L'ultimo movimento politico che si proponeva di rappresentare un'alternativa alla globalizzazione capitalistica si infranse fatalmente contro la violenza di quel sistema, e Carlo Giuliani, il manifestante ucciso nelle giornate genovesi del G8 2001, simboleggia (insieme ai suoi compagni torturati dalla polizia italiana nella scuola Diaz e nel carcere di Bolzaneto) la tragedia di quella sconfitta come monito per il futuro - vedete cosa capita a chi si ribella. Le istanze di quell'antagonismo prodotte dalle contraddizioni e dalle tendenze distruttrici insite nel trionfo globale del capitalismo, represse allora nel sangue, si affacciano di nuovo sulla scena politica - figlie delle medesime contraddizioni - quindici anni dopo, modificate però di segno, con i nuovi tratti farseschi, anacronisticamente nazionalisti e fascistoidi di Donald Trump, dei consensi guadagnati dalle destre protezioniste e razziste in tutta Europa e dai numerosi dittatori al potere nel mondo islamico, destinati a crescere di pari passo con la pressione della concorrenza economica e del debito pubblico.
Qual è, dunque, il mondo in cui è possibile che un mediocre agitatore di vecchi fantasmi e pulsioni triviali diventi presidente degli Stati Uniti d'America? È il mondo in ansia per la perdita di potere d'acquisto, in realtà paralizzato dalla paura del suo stesso potenziale distruttivo, che assiste, vittima del proprio destino dichiarato ineluttabile, al trionfo storico del capitalismo globalizzato. Un mondo che a partire da Margaret Thatcher, o al più tardi da Carlo Giuliani, sa che there is no alternative (anche i più duri di comprendonio hanno dovuto convincersi che proprio non c'è verso dopo la farsa, piuttosto che la tragedia, del referendum voluto da Syriza nel 2015 che ha respinto con un vano 61% dei voti il programma finanziario proposto dai creditori internazionali del popolo greco).
È un mondo senza piano B. La caduta del muro di Berlino non ha modificato solo l'equilibrio oggettivo delle potenze. Esso ha prodotto anche un cambiamento soggettivo di carattere epocale. Nei due secoli che hanno preceduto il nostro esistevano almeno due vie aperte e due possibilità di considerare il destino storico del genere umano: quella liberale, per cui la proprietà privata deve essere la chiave dell'organizzazione sociale e il prezzo da pagare per questa organizzazione sono diseguaglianze enormi e crescenti; e quella socialista o comunista, per cui lo scopo principale dell'azione politica è la fine delle disuguaglianze e del dominio di classe, anche a costo di rivoluzioni violente. Invece la fase storica inaugurata dai governi Thatcher e Reagan - ancora risuona “Mr Gorbachev, tear down this wall!” -, che ha nella battaglia di Genova 2001 la sanzione più inoppugnabile e che giunge oggi alla sua crisi forse definitiva, è quella caratterizzata dalla convinzione che non c'è un'altra via. L'ideologia che ha dominato questa fase viene detta neoliberalismo e si differenzia da quella liberale classica per il fatto di non avere più un'ideologia nemica, di non dover 'competere' (verbo per altro a lei caro) con un'altra visione strategica del futuro degli uomini. Il neoliberalismo, cioè, non aveva più bisogno di raccontare, come il liberalismo classico, che il libero mercato è una buona maniera di organizzare la società e il suo lavoro e che una mano invisibile avrebbe ovviato ai suoi più spiacevoli inconvenienti; il punto era che la globalizzazione capitalistica è l'unica maniera possibile di organizzare la società e il suo lavoro; nessuno dice che sia una buona maniera, ma è l'unica. I suoi costi sociali ed ecologici sono sotto gli occhi di tutti ma vanno accettati come una necessità naturale - quasi come se la natura avesse deciso di suicidarsi.
La conseguenza politica principale del dominio di questa ideologia è che non è stato più possibile governare un paese senza sottoscriverla, che le differenze fra le 'proposte' politiche si sono ridotte nel migliore dei casi a sfumature. Il governo socialista francese, la dittatura comunista cinese, la Casa bianca e il Cremlino, i governi israeliano e palestinese, i governi Berlusconi, Monti e Renzi, Merkel e Tsipras... tutti accettano parimenti, come presupposto e linea guida della loro azione di governo, che non c'è altra via che la globalizzazione capitalistica, e tutti hanno come funzione primaria quella di imporre ai loro cittadini i costi sociali ed ecologici che essa comporta. Questo ha prodotto una classe dirigente globale relativamente omogenea - quando non negli intenti certo nell'esercizio pratico del potere esecutivo - e nello stesso tempo un'inimicizia diffusa contro di essa, priva, però, di una qualche pensabile alternativa, quindi strategicamente cieca e politicamente non organizzata. Ha prodotto cioè, tutti gli ingredienti della ricetta classica della torta fascista, con tanto di tradizionali ornamenti quali figure delinquenti, maschiliste e razziste, caratterizzate spesso da un atteggiamento di sufficienza nei confronti della logica. Il vento reazionario che oggi spira in tutto il mondo (sia pur in forme diverse, rispettoso, ça va sans dire, delle differenze e delle tradizioni locali) ha con il bonapartismo del XIX e il fascismo del XX secolo davvero molti elementi in comune, non solo ideologici o retorici. Su tutti la base sociale: non una vera e propria classe, bensì l'insieme eterogeneo e, si fa per dire, senza classi, di coloro che vedono il proprio patrimonio e i propri privilegi sociali minacciati dal corso del mondo. (Occorre sfatare il mito che Trump sia stato eletto dalla working class: gli 'ultimi' della società americana hanno votato Clinton o non hanno votato. La parte “proletaria” dell'elettorato di Trump - il quale, va ricordato, si oppone al salario minimo per rendere competitivo il mercato del lavoro statunitense - è composta in realtà da bianchi, famiglie patriarcali radicate sul territorio e impiegate in settori tradizionali del mondo del lavoro che sono vieppiù marginalizzati dalla globalizzazione. Che costoro siano la working class presuppone un concetto di working class tanto più discutibile, in quanto il consenso elettorale di Trump cresce con il crescere del reddito e si attesta al 50% in tutte le fasce di reddito superiori a 50.000 dollari. Tale concetto di working class dovrebbe escludere tutti gli ispanici, i neri, gli immigrati, ma anche gli studenti indebitati, e i lavoratori del terziario e della conoscenza, madri single e altri diseredati del genere - i quali nei giorni successivi l'elezione hanno dato vita a manifestazioni di protesta.
Scrive Valentina Fulginiti: “Quella che ha spinto alla vittoria prima la Brexit e oggi Trump è un feticcio di working class: depurata di ogni diversità, non inclusiva ma esclusiva, fondata non su un comune ideale di solidarietà ma sulla comune appartenenza razziale; una comunità che rimpiange i tempi in cui si dormiva senza il chiavistello alla porta, ma che sogna muri, cancelli e divieti d’ingresso. È, soprattutto, un’immagine prevalentemente maschile, virile, di una classe che si vorrebbe operaia o artigiana... È una classe che rimpiange i tempi in cui studiare non serviva o comunque non era richiesto… Se non interamente maschile, è comunque una classe rigidamente «eterosessuale», i maschi nelle fabbriche o al fronte e le donne al loro posto, in pochi ruoli codificati e rassicuranti. È, infine, un’immagine di un bianco uniforme e monocromatico. Così definita, questa non è una classe sociale, ma un mito delle origini”). Inoltre, proprio come il vecchio fascismo, anche quello nuovo dichiara guerra all'oligarchia politica dominante, rimanendo però saldamente vincolato al medesimo principio, la proprietà privata come chiave dell'organizzazione sociale.
La vera peculiarità della destra che vediamo affermarsi oggi ovunque, ciò che la distingue dal fascismo 'classico', è la mancanza di un vero avversario. Marx spiegava il fenomeno Napoleone III come una reazione della piccola borghesia francese minacciata dall'imminenza di una rivoluzione proletaria che avrebbe minato le fondamenta della società borghese. Il fascismo novecentesco nacque come reazione delle piccole borghesie e degli eserciti contro le pressioni del movimento operaio europeo. Anche Trump esprime l'ansia di chi sente minacciati i propri privilegi. La minaccia però, questa volta, non viene dal comunismo, ma dalle contraddizioni interne alla globalizzazione capitalistica, dalla concorrenza e dalla contestuale automazione del processo produttivo. L'ordine mondiale in crisi non conosce, in realtà, alcuna opposizione che metta in discussione il dogma della proprietà privata come elemento cardine dell'organizzazione e della divisione sociale del lavoro a livello globale e che abbia una diversa visione strategica del futuro degli uomini, delle macchine e della natura, alternativa alla concorrenza e all'accumulazione di capitale in un numero di mani sempre più esiguo.
Sembra che nel mondo di oggi, almeno fin quando crederemo che la questione del nostro tempo sia “democratico o repubblicano?”, o “bicameralismo perfetto o imperfetto?”, il fascismo abbia gioco facile a far breccia nei cuori delle nazioni. Esso si troverà però impreparato di fronte al difficile compito, che si accinge ad affrontare per la prima volta da solo, di 'rappresentare' un'alternativa a un ordine sociale mondiale che, per propria natura, “non ha alternativa”.
Il trionfo del capitalismo globalizzato consiste nel fatto che esso è ormai minacciato solamente da se stesso. Eppure non sa trovare altra maniera per difendere il suo principio centrale - la proprietà privata (quale elemento decisivo dell'organizzazione sociale e della divisione globale del lavoro) - che quella vecchia delle armi e dei muri.
Manuel Disegni

hakeillah.com



  • 6   Trump, l’antisemitismo e gli ebrei americani
    di Giorgio Gomel

    “… Per secoli gli ebrei sono vissuti come minoranza nelle terre di altri popoli… Come ebrei americani siamo fieri di avere concorso al tragitto che la nostra nazione ha compiuto per adempiere alla promessa che gli esseri umani sono creati eguali - una promessa che rinnova il postulato biblico che gli esseri umani sono creature eguali ad immagine di Dio … Condanniamo fermamente i molti episodi di antisemitismo che hanno circondato la sua campagna elettorale. Siamo inoltre sgomenti per le parole e gli atti che hanno offeso cittadini americani in ragione del genere, razza, religione, etnia, disabilità o orientamento sessuale. Espressioni di xenofobia, islamofobia, misoginia intorno alla sua campagna minacciano di compromettere i valori fondanti della nostra nazione. Come Presidente, ci aspettiamo che rigetterà con assoluta chiarezza ogni forma di antisemitismo e che osserverà i principi di libertà religiosa che sono alla base dell’identità dell’America. … Riteniamo che l’immigrazione e l’integrazione degli immigrati siano state un fattore essenziale nel dare forza e prosperità al paese. Proprio perché molte delle nostre famiglie giunsero nel paese fuggendo dalle persecuzioni - e molti morirono per la chiusura dei confini - lottiamo per difendere l’identità dell’America come luogo di rifugio… Noi, come una maggioranza schiacciante di ebrei americani, appoggiamo una soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese… Ci aspettiamo che lo stato di Israele rispetti i principi della democrazia, come affermati nella Dichiarazione di indipendenza, e che gli stati Uniti svolgano un ruolo attivo nella difesa di quei principi…La sua decisione di nominare Stephen Bannon come chief strategist è contraria a quei principi e deve essere annullata in nome del popolo americano …”[1]
    Così recita la lettera inviata a Donald Trump da organizzazioni ebraiche della “sinistra”; fra queste, Jstreet, New Israel Fund, Peace Now, Hashomer Hatzair, T’ruah - un movimento rabbinico attivo nella difesa dei diritti umani. Altre organizzazioni più “mainstream” come l’AIPAC e l’American Jewish Commitee sono rimaste silenti almeno nell’agone pubblico. L’Anti-defamation League, pur non essendo fra i firmatari, ha assunto una posizione fortemente critica contro i rigurgiti antisemiti manifestatisi nella campagna elettorale e la nomina di Bannon, direttore della campagna di Trump e di Breitbart, un sito di notizie accusato di razzismo, xenofobia e antisemitismo.
    Chemi Shalev, corrispondente di lunga data di Haaretz dagli Stati Uniti, ha scritto che il rapporto irenico fra gli ebrei americani e il loro paese si è rotto. Trump è agli antipodi rispetto alle opinioni prevalenti fra gli ebrei americani, dove i “liberal” sono maggioritari, su questioni come l’immigrazione, il pluralismo religioso, la giustizia sociale, la separazione fra stato e chiesa, temi che secondo un sondaggio svolto appena dopo il voto contano, insieme all’economia, alla sanità, al terrorismo, assai di più nell’orientare le scelte che non i rapporti fra Stati Uniti e Israele per il 70 per cento di elettori ebrei che hanno votato per Clinton.[2] Del 24 per cento di elettori ebrei che hanno votato per Trump - un numero percentualmente analogo votò per Bush nel 2004 e McCain nel 2008, il 30 per cento scelse Romney contro Obama nel 2012 - alcuni sono conservatori “classici”; altri gravitano, nelle interpretazioni prevalenti, soprattutto nel mondo ortodosso. Secondo il sondaggio sopra citato, infatti, il 21 per cento degli ebrei riformati avrebbe votato per Trump, il 25 percento dei “conservative” e il 39 per cento degli ortodossi. L’antisemitismo non è per costoro così importante quanto la difesa di Israele e l’ostilità verso arabi e musulmani[3]. E’ possibile quindi accettare le lusinghe tentatrici di una destra che ha sì pregiudizi e istinti antisemiti, ma che è saldamente filo-israeliana.
    Peter Beinart, autore di un saggio fondamentale (The crisis of Zionism, 2012, ) sostiene che alla radice dello spostamento dell’opinione ebraica verso posizioni più etnocentriche, più precisamente “israelo-centriche” vi siano due fattori: il crescere del peso demografico della comunità ortodossa e dell’influenza politico-finanziaria di grandi donatori ebrei come Adelson di simpatie repubblicane, difensori partigiani della destra in Israele, poco sensibili ai temi del razzismo o della diseguaglianza sociale e da cui dipendono molti organismi e movimenti ebraici per le loro attività comunitarie. In sintesi, l’unico o quasi tema mobilitante è per costoro il sostegno acritico al governo di Israele, e il futuro degli ebrei nel paese va assicurato perseguendo gli interessi particolari della tribù invece di lottare contro le iniquità e le discriminazioni religiose, etniche e sociali di cui soffrono le altre minoranze nella società americana.http://www.hakeillah.com/5_16_06.htm
    Giorgio Gomel


    7   Trump, il primo presidente USA a discendenza ebraica


    Incredibile ma è così: Trump è il primo presidente degli Stati Uniti ad avere una discendenza ebraica. Infatti, è solo per inderogabili impegni legati alla campagna elettorale che il neopresidente ha dovuto mancare la milah dell’ultimo nipote. Probabilmente era a fare propaganda insieme al Ku Klux Klan ma non è dato a sapersi. Certo, il genero ebreo ortodosso e la figlia prediletta Ivanka, novella ghioret, ci saranno rimasti male. Ci avrà gioito invece il buon consigliere Bannon, attivo antisemita e ormai nominato tra i più stretti collaboratori del nuovo presidente. L’alternativa era la Clinton, la cui figlia ha notoriamente sposato un ebreo senza convertirsi. Ed ha un figlio che vorrebbe ebreo: forse con un ghiur katan! [conversione di un minore, ndr] La vera rovina delle comunità ebraiche del mondo, come tuonato persino dai nostri giornali ebraici italiani più autorevoli. E allora, se Bannon è l’odierno Amman, forse Ivanka sarà la nuova Ester?


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